Regia: Thomas Vinterberg.
Sceneggiatura: Lars von Trier
Fotografia: Anthony Dod Mantie
Scenografia: Karl Juliusson e Jette Lehman
Montaggio: Mikke E.G. Nielsen.
Costumi: Thomas Bo Larsen
Musiche: Benjamin Wallfisch.
Interpreti:
Jamie Bell
Bill Pullman
Michael Angarano
Danso Gordon
Novella Nelson
Crhris Owen
Mark Webber
Produzione: Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna, 2005.
La cittadina immaginaria di Estherslope, case e piazza, Electric Park Square, costruite intorno ad una miniera di carbone, quasi Far West degradato. Il giovane Dick (Jamie Bell), pacifista timido e solitario, è inadatto alla vita della miniera, in cui lavora il padre, che morirà precocemente. Rimasto solo, Dick trova lavoro in un piccolo emporio, dove conosce un collega, Stevie (Mark Webber), di cui diventa amico. Stevie ha la passione delle armi e la trasmette a Dick, che scopre come arma vera quella che aveva comprato per un regalo di compleanno e che credeva un giocattolo. Assieme a Stevie e ad altri coetanei, Dick fonda il club dei Dandies, convinti pacifisti, ma amanti delle armi. I membri del club, ognuno dei quali arriva con una sua arma, diventano ben presto conoscitori esperti dell’uso delle pistole e abilissimi tiratori. A Dick e Stevie si uniscono Susan (Alison Pill), Huey (Cris Owen), Freddie (Michael Angarano) e Sebastian (Danso Gordon), che ha già ucciso con un’arma.
Tutta questa loro conoscenza verrà messa in pratica quando vengono coinvolti in un tragico incidente che li metterà di fronte a vivere dovendo fare uso delle armi.
L’esito finale è il prevalere su di loro delle forze di polizia, le uniche ad avere il monopolio dell’uso delle armi, o meglio, negli Stati Uniti d’America, a poter fare legittimamente una strage. Nel conflitto finale con le forze dell’ordine tutti i Dandies muoiono.
Electric Park Square (l’ambiente esterno del film) ci viene presentata come una dama irregolare su cui le figure si muovono con una predisposizione mortuaria.
La piazza, set cinematografico quadrato all’aperto, America atemporale e vuota di spazio (spazio filmico che, come dice Wim Wenders, è l’intervallo dell’occhio che mette in contatto due immagini), asfissia di stereotipi comportamentali, è il luogo non luogo che, come una pista di circo o una ribalta teatrale, sa già che vedrà numeri di spettacolo previsti nel loro registro, anche se attesi nella forma particolare che a questi attribuirà il regista.
Nel nostro caso i registi sono due: Thomas Vinterberg e Lars Von Trier (anche se il secondo firma soltanto la sceneggiatura), entrambi maestri di “imboscate” cinematografiche, di piste che, come nella Patagonia di Sepùlveda, non portano da nessuna parte, di “visioni che, un secondo dopo che sono comparse, si spengono nel buio di una non significazione (un western che non lo è, un workerfilm che si spegne nella fissità vuota del lavoro di miniera – vedi gli sprazzi alla “Metroposis” langhiana che, per qualche secondo , nelle sequenze iniziali, muovono i fantocci-operai in tuta blu con casco-grondaia), un film per teenagers, che è invece una metafora ambigua della possibile implosione della società americana – quasi “America tu uccidi te stessa, di Evgenij Evtuschenko).
Insomma un patchwork, come si diceva tra gli intellettuali d’antan. Nelle vicende del gruppo adolescenziale dei Dandies (gli splendidi, i magnifici, analogo alla “società dei poeti estinti” de “L’attimo fuggente”, ma mancante della caratteristica di contenitore adulto, rappresentato, nel film di Peter Weir, dal professor Keating – Robin Williams) si confondono in un plot prevedibile (da quando la nonna di Sebastian uccide il poliziotto si apre la strada alla strage finale), con riferimenti cinofili espliciti (il western di Sergio Leone, il Kubrick di Barry Lyndon, l’eco di “Stand by me – Ricordo di un’estate” di Rob Reiner – dal racconto “The Body” di Stephen King, “Il mucchio selvaggio” di Peckinpah, il film costruito su colonna sonora, per la stessa ammissione di Vinterberg, l’Altman di “America oggi”, identificabile nella figura dello Sceriffo di Esterslope, paragonabile al poliziotto invasato – l’attore regista Tim Robbins – che, nel film di Altman, avverte gli abitanti di un sobborgo di Los Angeles che si sta verificando un terremoto, quando tutti se ne erano già accorti da un pezzo).
Confusione che è depistaggio, nella più vera tradizione di Dogma 95, ma anche fissazione brechtiana del personaggio nella sua caratterizzazione attraverso pochi elementi figurativi.
La teatralità è evidente in tutto, nel set, nelle riprese di raccordo con cinepresa fissa, nelle luci quasi impossibili e poverissime (vedi Dick, mentre scende in miniera, illuminato visibilmente da una torcia elettrica con luce che proviene dal basso, ricordo, con un registro stralunato, delle illuminazioni del cinema espressionista), nei quadri fissi infilati come diapositive (l’anticipazione delle salme dei ragazzi all’obitorio, la simulazione della traiettoria dei proiettili che penetrano nel loro corpo come in un improbabile cyborg), nel finale con chiusura improvvisa delle luci, come su un palcoscenico, rappresentata dalla rapidissima dissolvenza su un bianco-sporco sgranatissimo.
Il massimo della finzione per il massimo della verosimiglianza, almeno nelle intenzioni.
Vinterberg (ma è difficile dimenticare che la sceneggiatura è di von Trier) costruisce con convinzione (più per costruzione di contenuto che per scelte iconiche) l’algida chiusura del gruppo, visto come un “adolescente collettivo”, tutta intellualità teorica acerba (come l’affermazione che le armi non verranno mai usate per colpire persone), come gruppo asessuato (l’unica ragazza, quando fa vedere il seno cresciuto, anche soltanto come dimostrazione di evoluzione e non per richiamo seduttivo, mette Dick, il protagonista, manifestatamene in imbarazzo).
Il gruppo viene rappresentato quasi come una miniandreia spartana in armi, armata per esigenza rituale, orientata ad un “passaggio” esistenziale che verrà interrotto e precipitato in catastrofe dalla idealizzazione vissuta letteralmente.
Anziché diventare racconto (cioè letteratura, rappresentazione simbolica) quello che Dick scrive a Wendy è come un testamento (lettera, appunto, non letteratura), dopo di che non ci può essere altro che la morte, anche se data “romanticamente” da Wendy stessa (la pistola, che, quasi esecutore testamentario, usa Sebastian per dare a Dick la morte che, altrimenti, sarebbe arrivata per opera delle pallottole dei poliziotti).
I Dandies sono il gruppo chiuso, l’ingenua “orda selvaggia” che si dà una veste “snob”, con gli studi sulle dinamiche balistiche e sulla morale del possesso “pacifico” delle armi.
Ma qual è la separazione dal mondo adulto e l’identificazione soggettiva che dovrebbe venire condensato nelle pistole (come in un sogno freudiano)?
Qual è la sicurezza e la nuova identità (nella terra di mezzo della transizione?).
Di che cosa sono preventive e protettrici le pistole “umanizzate” (sunt nomina rerum).
Gli adulti sono poco più che statue del Museo delle Cere: lo sceriffo sembra uno pseudobonario leghista e anche un po’ pirlone, la nonna di Sebastian si è rifugiata nel mondo della paranoia e della mania di persecuzione, l’ispettore di polizia rappresenta un’adultità di cartone, buttata giù come una sagoma al tiro al bersaglio, il proprietario del negozio dove lavora Dick è in preda a nevrosi d’angoscia.
E allora, perché e con quale scopo, in ultima analisi, le armi?
Non rimane che il beau geste: sacrificare la propria vita (ma prima usare le armi, dimostrare la realtà delle conoscenze in materia) in un’azione che è la trasposizione in un videogame di strategie cinematografiche (dalla parte dei ragazzi sembra di vedere un’eroica pattuglia di marines, che soccombe di fronte allo strapotere delle forze nemiche, ma dopo essersi battuta con intelligenza e suprema dedizione alla causa).
Ma il tutto è astratto, costruito sul vuoto e sullo spreco di sé, nell’aborto di una transizione che, per eccesso di ingenuità ed isolamento (in termini freudiani si potrebbe parlare di libido narcisistica che non si trasforma in libido oggettuale) si fissa nella sorpresa di una morte scelta come unico riconoscimento di sé.
Alcune scelte di sceneggiatura non sono molto solide: la nonna di Sebastian (che manifestatamene ha perso il lume della ragione e la forza fisica, data l’età, per stare in equilibrio) che estrae un fucile a canne mozze dalla borsa e, con una maestria alla Calamity Jane, fa stecchito il poliziotto; lo sceriffo che, con aria tontolona, affida Sebastian a Dick e al suo gruppo, quasi fossero una comunità per il reinserimento di minori devianti; la famiglia di Dick che può permettersi una governante (col solo salario del padre minatore!).
Ma tutto questo, in un certo senso, è riscattato da scelte iconiche di “scuola”, come se il film potesse essere interpretato come la visitazione di una nave che serve per istruire i marinai, ma che non sopporta la navigazione della vita: riprese dal basso e di spalle del gruppo che esce dal sotterraneo della miniera dismessa per andare a dare la bustina di caffé alla cugina della nonna di Sebastian (suggestioni da “Mezzogiorno di fuoco” a “Per un pugno di dollari”); Dick che indossa un cappello settecentesco alla Barry Lyndon, il ragazzo più giovane del gruppo, costantemente emarginato nella relazione con i coetanei, che si riscatta entrando nel gruppo (echi vaghi e lontani dal Montgomery Clift de “I giovani leoni”); Sebastian che scombina il gruppo perché è l’unico che ha vissuto, nona caso uccidendo e quindi usando le armi per la loro propria funzione (in questo caso è la realtà che scombina l’idealità, in “Teorema” di Pasolini è Ninetto Davoli – postino e angelo insieme – che con la superiorità dell’idealità spirituale sconvolge la materia inerte della vita quotidiana di un gruppo familiare); il ragazzo con i supporti artificiali alle gambe che, icona pop di un moderno Enrico Toti, riscatta la sua vita “ferma” attraverso una grande occasione che si paga con la morte.
Con questo film Vinterberg e Von Trier hanno dato una dimostrazione del loro credo cinematografico e, contemporaneamente hanno smentito se stessi, con piena coscienza di farlo e di poterlo fare legittimamente.
Il loro credo cinematografico (Dogma 95), di cui ci sono alcuni accenni di seguito, è rimasto molto su carta, soprattutto nelle sue possibilità produttive e distributive “povere”, mentre ha subito trasformazioni notevoli, esemplificate anche in “Dear Wendy” (produzione plurinazionale, colonna sonora che sottolinea le vicende, camera fissa e non a mano, attori professionisti, anche se giovani…).
Di un certo interesse (quasi come film-scuola) può essere l’analisi filmologica di “Dear Wendy” (cioè come i contenuti sono passati attraverso le immagini, come la poesia si manifesta attraverso il lessico poetico).
Ad esempio il cielo è mostrato soltanto nella prima inquadratura, accompagnato da un volo di uccelli rapidissimo, quasi un presagio funesto.
Le rimanenti inquadrature del cielo sono soltanto in funzione di controluce, come se fosse una realtà che guarda in macchina (cioè verso la cinepresa), quasi per oscurare e lottare contro una fotografia visibile della realtà, ad indicazione, almeno nelle riprese in esterno, “di una “vita luminosa” impossibile in Electric Park Square.
I volti degli adolescenti, soprattutto nella prima parte del film, quella che precede la costituzione dei Dandies, sono fissi e atonali, ripresi con un’illuminazione che non fa risaltare l’espressione degli occhi e che è presagio di una comunicazione sostanzialmente stereotipata e vuota, quale si verificherà all’interno del gruppo e con l’attenzione fissa alle armi.
Il mondo “conio” non è quasi illuminato, rimane un buio di fondo, è privo di magia (la magia è ben presente, invece nella grotta che accoglie la riunione della “Società dei poeti estinti” de ”L’attimo fuggente”), rimane un mondo di carbonio-metallo, trasformato in una disabitata trappola per topi.
La figura umana, nel mondo sotterraneo, è generalmente rappresentata su fondo nero, e quindi in un primo piano fintamente tridimensionale, quasi “spettrale”.
La scelta delle immagini da fumetto horror o cyborg (ad esempio la penetrazione del proiettile all’interno degli organi anatomici ha la parvenza di un’operazione fatta con i giocattoli istruttivi del “piccolo medico”, armamentario tipico dell’horror anni cinquanta). Il che è come l’anticipazione di una realtà “cadaverica”.
Le riprese della piazza sono fatte generalmente da media altezza e dalla camera fissa, probabilmente su una gru. L’obiettivo è, quasi sicuramente, un medio tele, per dare maggiormente l’impressione di una realtà schiacciata e artificiale (si potrebbe dire “tombale” o, con Jean Cocteau “il cinema come morte al lavoro”).
La musica (il gruppo rock degli “Zombies”) sottolinea varie fasi del racconto filmico, soprattutto nei momenti di raccordo fra un gruppo di inquadrature con unità narrativa e le fasi successive.
Particolarmente dissonante e dissacrante è il “Glory Glory Hallelujah” che fa da sfondo alla devastazione della casa da parte della polizia.
Giovanni Lancellotti
E-mail: giovannilance(at)tiscalinet.it