Introduzione

Nel mio modo di vedere, la coazione a ripetere, la chiusura e l’irrigidimento della personalità costituiscono, praticamente, il denominatore comune di ogni disturbo psicologico e sono direttamente proporzionali alla gravità di esso. Spiegando la coazione a ripetere come espressione dell’istinto di morte (o masochismo primario), Freud dette prova di pessimismo ed effettuò un’operazione poco trasparente da un punto di vista scientifico, perché pretese di fissare una sorta di limite, di stabilire l’esistenza di un “fondo roccioso” contro il quale la psicoanalisi sarebbe risultata per sempre impotente, sbarrando la via allo sviluppo futuro delle sue potenzialità teoriche e terapeutiche. Un po’ malignamente, si potrebbe insinuare l’ipotesi che, nel ruolo di padre della psicoanalisi, non volesse esporsi al rischio di essere superato dalla propria creatura, una volta cresciuta e resasi indipendente da lui: un complesso di Edipo vissuto dalla parte di Laio…
Ma le cose non sono andate esattamente così. L’interpersonalismo americano, le scuole inglesi delle relazioni oggettuali, la psicologia del Sé e, per finire, l’attuale corrente della psicoanalisi relazionale hanno progressivamente spostato l’accento dalle pulsioni agli affetti e hanno collocato al centro dell’attenzione le problematiche relative all’insicurezza e all’attaccamento, alla fragilità del Sé e al bisogno di conferma e di sostegno, alle convinzioni inconsce che organizzano l’esperienza in maniera preconcetta dando luogo a rigidi paradigmi relazionali e al bisogno di ridimensionare e di smentire tali convinzioni. Grazie a questo articolato sviluppo complessivo, possiamo oggi spiegare la coazione a ripetere in maniera più utile e meno pessimistica.
Questo cambiamento generale di prospettiva si riflette anche nella teoria della cura, per cui non si pensa più, illuministicamente, che il fattore terapeutico unico o principale consista nel portare a coscienza l’inconscio attraverso l’interpretazione verbale, perché si ritiene almeno altrettanto importante una forma di scambio più profondo e sottile che avviene fra i partner della relazione analitica, attraverso il prolungato coinvolgimento di entrambi nelle emozioni patologiche che è necessario trattare.
Sono state avanzate diverse teorie, per spiegare le complesse dinamiche emotive che hanno luogo quando le dimensioni psicopatologiche più impegnative si mobilitano e investono la coppia analitica. Secondo la scuola kleiniana, il paziente proietta nell’analista i propri contenuti mentali maggiormente insostenibili, allo scopo che egli li elabori e glieli restituisca trasformati in qualche forma più sopportabile. Secondo la psicologia del Sé, il paziente avanza dei bisogni narcisistici di rispecchiamento e di idealizzazione che hanno qualità arcaiche e fusionali.
L’analista deve accogliere tali bisogni durante una fase di prolungata comprensione empatica, per poterli solo successivamente interpretare. Secondo la scuola americana di Mount Zion Hospital, il paziente mette inevitabilmente a dura prova l’analista, a causa del suo urgente bisogno di smentire le sue convinzioni più pessimistiche e patologiche: per questo motivo, quando si sente sufficientemente al sicuro nella relazione con lui, comincia a coinvolgerlo in intense drammatizzazioni, dando per scontato il rifiuto, l’abbandono o la ridicolizzazione di sé, allo scopo inconscio di poter fare un’esperienza diversa e di arrivare a smentire e a smantellare i propri terribili paradigmi relazionali. Stolorow e Atwood, esponenti della corrente dell’intersoggettività, si spingono ad affermare che “le impasse terapeutiche, se analizzate dal punto di vista dei principi che organizzano a livello inconscio le esperienze del paziente e del terapeuta, rappresentano un’occasione unica, una via regia per raggiungere l’obiettivo della comprensione psicoanalitica [1].”

Casi clinici

Riferirò adesso due esempi di situazioni d’impasse che si sono verificati nella mia prassi terapeutica, con particolare attenzione rivolta al momento di soluzione e di svolta al quale hanno dato luogo. Il primo esempio è particolarmente drammatico.
Frank è un uomo di 25 anni ed è entrato in terapia a causa di intensi e ricorrenti stati di depressione vuota, subentrati in lui dopo che al padre è stato diagnosticato un tumore maligno al cervello. Ben presto risulta evidente un grave disturbo del Sé: c’è un falso Sé che si è sviluppato a scapito del vero Sé, manifestandosi come tendenza coatta a soddisfare le aspettative degli altri, ad essere sempre bravo, forte, coraggioso, responsabile e impavido, a scapito della spontaneità e del senso di essere più genuinamente se stesso nelle diverse situazioni della vita. Nei sogni, il falso Sé si presenta inizialmente come animale infernale, come gatto nero che ha preso il comando dei centri del piacere del suo corpo e che non può essere tirato via, perché affonda tenacemente le unghie nella carne, poi come vampiro che ha la meglio su di lui e lo morde canonicamente al collo. Con preoccupazione e sconcerto, assisto ad un progressivo peggioramento delle condizioni del paziente: la presa di coscienza lo porta alla disperazione. Ho la sensazione di avere ampiamente sottovalutato la gravità del caso. Le sue difese crollano troppo rapidamente e ciò produce un lieve sconfinamento di tipo psicotico. Solo a questo punto mi rivela la reale estensione del grado di alienazione nel quale ha da sempre vissuto e il suo ritornello diventa: “dottore, non sento, non sento niente…” La tragedia di quest’uomo si può riassumere così: il distacco emotivo da se stesso e dalla vita è tale che non ha, si potrebbe dire, la sensazione di esistere, o meglio non ha nessuna sensazione di provare emozioni e vive se stesso come una macchina umana, un robot al quale può comandare comportamenti e simulazioni. Non ha neppure il ricordo di avere mai provato qualcosa, a livello emotivo. Dice che, da tempo immemorabile, ha imparato a guardare gli altri e ad adeguarsi alla situazione, imitandoli: se le persone ridono, ride anche lui, se sono tristi, finge la tristezza ecc. Ancora oggi stento a credere e penso che, nell’esprimersi così, esagerasse un poco; fatto sta che, da quel momento, avendo messo a fuoco così impietosamente il proprio totale vuoto interiore, cominciò la serie dei suicidi… Il primo tentativo di suicidio fu con un’ingente dose di psicofarmaci. La spietatezza contro se stesso fu tale che, non morendo ma svegliandosi dopo alcuni giorni di sonno semicomatoso, ebbe il coraggio di procurarsene ancora. Viveva da solo e intervenni io a salvarlo. Il seguito fu una serie di ricoveri e nuovi tentativi: con il tubo di scappamento, con l’accetta, strangolandosi, tagliandosi le vene… Sembrava chiaro che, dopo ogni nuovo ricovero in Psichiatria, la sua situazione psicologica fosse peggiore di quella precedente e la madre (che, a partire dal primo tentativo, si era trasferita nella casa del figlio) prese insieme a me la coraggiosa decisione di non ricoverarlo più. Durante le sedute, alle quali veniva puntualmente, Frank era per lo più taciturno e sottilmente ostile. Si lamentava costantemente del fatto di “non sentire” e mi spiegò che soltanto quando progettava un suicidio e faceva i preparativi per togliersi la vita riusciva a sentirsi un po’ vivo. Aveva dunque sviluppato una sorta di dipendenza dal suicidio: togliersi la vita era l’unico modo per dare un senso alla vita. Ricordo di essermi sentito piuttosto provato dalla situazione: ero costantemente preoccupato e mi capitava anche di passare delle notti insonni. Non c’erano segnali di miglioramento, nonostante la regolarità delle sedute, e non avevo idea di come le cose sarebbero potute andare. A questo punto, dopo lunga preparazione (ma vorrei dire dopo lunga macerazione), avvenne drammaticamente la svolta. Quel giorno, Frank entrò puntualmente alla sua ora e si diresse macchinalmente verso la sua poltrona. Anch’io mi stavo dirigendo verso il mio posto quando, alle spalle dell’uomo, sbucò improvvisamente la madre, che si era introdotta nello studio come la sua ombra. Non mi ero accorto prima della presenza di lei e mi fece l’effetto di essersi come materializzata dal nulla. La donna si precipitò sul figlio, quasi gridando e ripetendo più volte: “fallo vedere al dottore, fallo vedere al dottore!” Lo afferrò ai polsi e ne sollevò con decisione le maniche. È qui che mancano le parole per descrivere l’esperienza che io feci in quel momento, nonostante che essa sia impressa ancora oggi in maniera vivida nella mia mente. Sapevo che, fra le altre pratiche autolesive, Frank usava coricarsi la sera provvisto di lametta, per tagliuzzarsi un po’ le vene prima di dormire e cullarsi nell’idea di morire dissanguato durante il sonno. Quindi mi aspettavo di vedere qualche taglietto. Vidi invece qualcosa di completamente diverso. L’avambraccio era quasi totalmente martoriato ed essendo stato tagliato e ritagliato talmente tante volte era nero e l’unica cosa che si poteva dire era che fosse ormai diventato carne morta. Vidi questo orrore in uno stato di sogno e la scena tragica che avevo davanti irradiava una sorta di potenza mitologica: mi trovavo di fronte alla Pietà e Frank era diventato il Cristo deposto dalla croce. So di non avere nascosto la mia emozione, anche se non ricordo proprio le parole con le quali, al momento, l’ho accompagnata. Quel che è certo, in quel momento è avvenuto qualcosa di determinante, tant’è che Frank, da allora, non ha mai più tentato il suicidio. Da quel momento ha ripreso (a suo dire, ha cominciato per la prima volta) gradualmente a sentire, prima il dolore e la paura, poi, via via, l’intera gamma dei sentimenti, attraverso un faticoso percorso, inizialmente segnato da altre crisi (molto meno gravi di quella descritta), che ancora oggi dura, a distanza di anni. Cos’è avvenuto in quel momento? Ho visto Frank per la prima volta, cioè, per la prima volta ho visto fino in fondo il suo dolore. Ero anch’io, insieme a lui, nella condizione del non sentire e in quel momento ho sentito e Frank si è sentito sentito e da quel momento ha cominciato a sentire se stesso. Trudy è una ragazza dai lineamenti piacevoli e dal fisico muscoloso e un po’ robusto. Ha 22 anni e un passato di anoressia, alla quale si è sostituita, col tempo, la bulimia. Ha seri problemi con la propria immagine corporea. Sarebbe eufemistico dire che non si piace, perché i livelli di autodisprezzo e di autoodio che è capace di raggiungere sono spaventosi. Inoltre, il vero problema si colloca ad un livello antecedente al piacersi o non piacersi. Si potrebbe parlare di non accettazione di sé, ma nemmeno questo renderebbe veramente l’idea. Ci si avvicina di più al vero, dicendo che non ha un’immagine definita di sé, che non riesce a metterla a fuoco, e che questa mancanza di senso di sé la rende vulnerabile e disperata, spesso incapace di affrontare il rapporto con gli altri, nonostante la validità intellettuale, la capacità lavorativa, il senso dell’ironia e la curiosità per il mondo che la caratterizzano in maniera particolare. Trudy ha due sorelle e tutte e tre vivono ancora in casa con i genitori. Il padre, grandioso e inconcludente, passa la vita a controllare ossessivamente i comportamenti degli altri membri della famiglia. La madre, insegnante di scuola elementare, vive una vita di sopportazione e di sacrificio. I genitori non sono poveri, perché, per esempio, possiedono case, ma non concepiscono di sostenere e aiutare le figlie nella loro formazione e queste, se vogliono studiare, devono contemporaneamente lavorare e auto mantenersi agli studi. Trudy ha, di conseguenza, enormi problemi pratici: se lavora non le resta tempo per studiare, se studia non può pagarsi l’analisi ecc. Ma, al di là del mancato aiuto economico, Trudy non si è mai sentita valorizzata, perché nessuno si è mai interessato all’andamento dei suoi studi, pur essendo stata per molti anni una studentessa modello. Non si è mai sentita accettata, considerata e, tanto meno, ammirata all’interno di questa famiglia totalmente ripiegata su se stessa e vittima del senso persecutorio di ciò che pensano gli “altri”. La famiglia vive in un appartamento dominato da un’enorme sala di ricevimento, dove nessuno può entrare, perché un giorno lì, fantasticamente, il padre intratterrà degli incontri ad alto livello. Per il resto, manca lo spazio e le tre sorelle sono costrette a dormire in un’unica stanza. Un po’ per questa mancanza di spazio, un po’ per il caos che regna nella casa e soprattutto per l’intrusività del padre che fruga, spia, annota e ascolta le telefonate, Trudy non ha mai avuto la sensazione di poter delimitare un proprio spazio personale. Inoltre, ha sempre avuto l’impressione di vivere in un set teatrale, piuttosto che in una vera casa, perché, in definitiva, le cose immaginarie sono sempre risultate più importanti e più significative di quelle reali. Dopo una luna di miele durata pochi mesi, questo tema del vero e del falso segnò la prima crisi relazionale in analisi. Tipicamente, come ho imparato a riconoscere in seguito, le crisi di Trudy comportavano regressione e confusione: un peggioramento generale, dopo una fase all’insegna della sintonia e del progresso analitico, che ogni volta mi sorprendeva e mi faceva preoccupare. Mi ero già vagamente accorto dello sguardo furtivo di ricognizione generale che la ragazza lanciava ogni volta all’ingresso e all’uscita dallo studio. Dopo avere drammatizzato, attraversato ed elaborato quella prima crisi di fiducia nei miei confronti, mi confessò che lo sguardo era un test. Intimamente, Trudy era convinta che il mio studio fosse una sorta di set teatrale che io allestivo prima delle sedute e smontavo subito dopo: era convinta che io fossi tutto finto e che anche lo studio fosse finto. Perciò controllava che le cose fossero tornate tutte al loro posto, nel timore che io avessi dimenticato qualche particolare, nel timore di scoprire una conferma della sua paura e nella speranza di poterla smentire. Ma non è di questo primo episodio che vorrei discutere. Attraverso una serie di drammatizzazioni e di successive focalizzazioni e ridimensionamenti di un lungo elenco di paure (Weiss direbbe attraverso una serie di test che la paziente mi ha fatto e che io, bene o male, sono riuscito a superare), siamo arrivati, dopo quasi due anni di terapia, alla paura più grande di tutte. La paura, voglio anticipare, che, se io l’avessi conosciuta più intimamente, se avessi ascoltato le cose che ancora non aveva avuto il coraggio di dirmi di sé, sicuramente io avrei sperimentato un assoluto ribrezzo per la sua persona e non avrei potuto fare a meno di rifiutarla e di volerla allontanare definitivamente da me. In questa fase, Trudy sperimentò una forma di abbattimento disperato e condusse attacchi feroci a se stessa e al legame. Ripetutamente dichiarò la sua sfiducia totale nella psicoanalisi, mi accusò di averla privata delle difese che le avevano consentito finora di vivere. Ventilò più volte l’ipotesi del suicidio come unica soluzione possibile e, alla fine, minacciò di interrompere l’analisi, poi lo fece veramente. A questo punto, dopo avere sperimentato la solita altalena di preoccupazione, impotenza e angoscia, io mi sorpresi di essermi calmato completamente e, quando Trudy mi telefonò per chiedermi se la sua ora era sempre disponibile, le risposi tranquillamente di no, che l’avevo assegnata ad un’altra persona. Le proposi un’alternativa che lei accettò senza difficoltà e, da quel momento, fu evidente per entrambi che qualcosa era cambiato. Trudy ritrovò quasi per magia un approccio più realistico ai suoi diversi problemi psicologici ed economici e riprese a collaborare nel dialogo analitico. Ma il cambiamento che io percepisco è sottile e difficile da descrivere: naturalmente continuano a presentarsi dei momenti di dolore, di angoscia e anche di disperazione, ma io sento che Trudy è più presente. Vorrei dire che la sua presenza ha acquistato un po’ di corporeità: la sento meno in balia degli opposti, meno imprevedibile e anche più affettuosa.

Discussione

In primo luogo, vorrei sottolineare come la comunicazione emotiva, che in tutti e due i casi è stata determinante per risolvere l’impasse, abbia avuto il carattere della assoluta genuinità. A parte che non ne sarei mai stato capace, ma non riesco proprio a credere che, se io mi fossi sforzato di emozionarmi di più di fronte alla disperazione di Frank o avessi finto di sentirmi tranquillo in relazione ai comportamenti di Trudy, ciò avrebbe funzionato.
Queste situazioni di crisi che, in passato, erano state difensivamente denominate “reazioni terapeutiche negative” sono caratterizzate da una dimensione psicologica di intensa drammatizzazione di angosce arcaiche e ciò le rende qualitativamente diverse dalla cosiddetta “normalità” che ci aspetteremmo di vivere pur anche negli scambi emotivi che possono avvenire all’interno di una relazione d’aiuto. Mai come in queste circostanze abbiamo la sensazione di seguire il paziente fino in fondo all’inferno nel quale si trova imprigionato e, in verità, questo compito ci spetta, poiché caratterizza specificamente la psicoanalisi e la distingue da altre forme di psicoterapia. Tale inferno corrisponde al manifestarsi di veri e propri nuclei di follia. Così come sarebbe impossibile curare un delirio spiegando al delirante che la realtà non è brutta come lui la vede, risulta altrettanto impossibile uscire da un’impasse del tipo che ho descritto minimizzandola o restando fuori dal gioco. I fantasmi che si attivano in questi casi sono delle spaventose realtà per il paziente, per cui egli non si sentirebbe compreso se la partecipazione dell’analista fosse più distaccata, come non se ne accontenterebbe una persona incatenata su di un binario al sopraggiungere di una locomotiva. Sono perfettamente d’accordo con Kohut, quando afferma: “Se l’analista è capace di sopportare il calore, se continua ad allargare la sua osservazione empatica anziché allontanarsi dal paziente dichiarandolo non analizzabile – come se questo termine connotasse una realtà oggettiva nella quale l’analista stesso non è incluso – potrà essere ricompensato dall’assistere al modo in cui un caso al limite diventa un disturbo narcisistico della personalità (cioè una nevrosi grave, ma analizzabile)” [2]. Soltanto che, in questi casi, credo che l’unico modo per “allargare l’osservazione empatica”, cioè l’unico modo per mettersi nei panni del paziente e quindi nella condizione di comprendere le sue terrificanti esperienze emotive dall’interno della sua prospettiva psicologica, sia proprio quello di lasciarsi coinvolgere nella poco agevole spirale di una circoscritta follia a due.
In secondo luogo, vorrei richiamare l’attenzione sul ruolo particolarissimo che gioca il fattore tempo nella dinamica della crisi. Quando, dopo un tempo caratteristicamente prolungato, la risposta emotiva dell’analista sembra presentarsi all’improvviso come una chiave di volta, ciò potrebbe semplicemente significare che, improvvisamente, c’è una serratura nella quale, con un po’ di abilità, non è difficile introdurre una chiave. Non si può dire se nasca prima la serratura o la chiave. È possibile che l’inconscio di Frank, inscenando lo psicodramma, abbia generato l’immagine del dolore (la pietà) di modo che io potessi riconoscerla e l’io di Frank, rispecchiandosi nella mia risposta emotiva, riconoscesse se stesso (in altri termini, in modo che Frank ritrovasse il proprio Sé)? In effetti, ciò mi sembra altamente probabile. In questo caso, la serratura sarebbe comparsa prima della chiave. Per quanto riguarda Trudy, il cambiamento ha avuto un carattere di simultaneità: quando mi ha telefonato, mi ha trovato tranquillo e penso che ciò sia stato determinante per il corso successivo degli eventi, ma lei stessa si era già calmata, dopo avere trovato il coraggio d’interrompere l’analisi. Comunque sia, se, come sembra, per poter risolvere la crisi è necessario starci dentro per tutto il tempo necessario, che significa questo caratteristico tempo d’incubazione?
Il crollo psicologico che dà inizio alla crisi relazionale sembra corrispondere, nella maggior parte dei casi, alla perdita di un’illusione, d’una idealizzazione, di una speranza di onnipotenza, che si verifica nell’impatto con la realtà dell’altro che, in quanto separato, diverso ed esterno rispetto al proprio Sé, manifesta qualche forma d’inadeguatezza o d’imperfezione nello svolgere una funzione di sostegno del Sé, della quale era stato incaricato. In analogia con la classica spiegazione freudiana che paragona la depressione alla condizione affettiva del lutto, potremmo arrivare a pensare che anche il paziente in crisi sta vivendo il lutto di una perdita e, siccome non si tratta della perdita di un oggetto concepito come esterno, ma di un oggetto-sé, cioè di un oggetto vissuto come parte di sé (prolungamento o specchio del proprio Sé), possiamo comprendere perché egli patisca una ferita narcisistica e viva le emozioni ad essa conseguenti di angoscia di annientamento, angoscia di frammentazione, intensa vergogna e rabbia vendicativa.
Ma, se è abbastanza chiara la dinamica dell’entrata in crisi, altrettanto non si può dire relativamente al percorso sotterraneo che porta dalla rottura al recupero del senso di sé nel paziente narcisisticamente ferito e ad una ripresa della relazione e del dialogo analitico. Il punto a cui voglio arrivare è che, oltre all’indispensabile capacità di fare qualcosa, perché non metto in dubbio che all’analista sia richiesta un’abilità particolare per risolvere queste difficili situazioni di crisi (usare la chiave quando si presenta la serratura), altrettanto indispensabile mi sembra la capacità di stare con il paziente nella crisi (altrimenti, nessuna serratura verrà mai offerta alla sua abilità analitica). A questo proposito, mi sembra doveroso fare un riferimento a Winnicott. Penso, in particolare, alla distinzione fra la madre che è capace di fare e la madre che è capace di essere, nel rapporto di accudimento del bambino: “Essere, unitamente a identità tra il Sé e l’oggetto, sono secondo Winnicott caratteristiche dell’elemento femminile presente in entrambi i sessi, mentre fare e separatezza sarebbero tratti dall’elemento maschile. L’elemento femminile… costituisce la base del senso di esistere e il fondamento del Sé. Se la madre non gli offre un seno che è, ma un seno che fa, il bambino tenderà a sviluppare una capacità deficitaria di essere” [3]. “Essere”, per certi versi, rende meglio di “stare”, perché, contrapponendosi a “non essere”, comunica il senso della presenza di un Sé e quindi anche del suo non sottrarsi come anima senziente. Durante la crisi, nell’impossibilità di partecipare ad una dinamica emotiva che si è interrotta, l’analista capace di essere è quello che consente a se stesso di vivere le proprie emozioni di controtransfert e che, in quest’unica maniera possibile, mette a disposizione la sua interiorità, supplendo all’interiorità del paziente, che si sottrae. Come Kohut ha definito l’empatia, nel suo aspetto attivo di metodo osservativo, “introspezione vicariante”, si potrebbe definire questo altro indispensabile aspetto dell’empatia verso il paziente bloccato nella crisi come una “forma vicariante del sentire”. Con l'”introspezione vicariante” l’analista ascolta il paziente e ricorda o immagina determinate proprie esperienze personali analoghe: ricrea attivamente nel pensiero il simbolo (lo schema o l’immagine) di un’esperienza emotiva analoga e lo presenta al paziente. Se questi non si riconosce in tale risposta, allora l’analista modifica e ripetere il proprio esperimento mentale, finché non ha luogo la cosiddetta “risonanza empatica” e il paziente afferma di sentirsi pienamente compreso. Tutto questo funziona, finché le emozioni accettano di farsi rappresentare dai simboli. Ma quando il mare dell’inconscio è troppo agitato e le emozioni sono così violente da urtare e squassare la fragile imbarcazione del Sé, il simbolo appare come un sostegno troppo raffinato e inconsistente. C’è bisogno di altre braccia sul timone, mentre i flutti spazzano il ponte, c’è bisogno della presenza di qualcuno che, per così dire, si prenda momentaneamente la nostra croce sulle sue spalle.

Alberto Lorenzini


NOTE
[1] Robert D. Stolorow e Gorge E. Atwood, I contesti dell’essere, Bollati Boringhieri 1995, p.108.
[2] Heinz Kohut, La cura psicoanalitica, Bollati Boringhieri, Torino 1986, p. 234.
[3] Howard A. Bacal e Kenneth M. Newman, Teorie delle relazioni oggettuali e psicologia del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p.177.
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