Relazione letta durante il Convegno sul Counselling,tenuto a Firenze, nell’ottobre 2011, presso l’istituto di Psicosintesi.
Ringrazio gli organizzatori, i colleghi della scuola di Psicosintesi, per avere organizzato questo convegno su un tema a nostro avviso centrale nel panorama delle relazioni di aiuto in Italia.
Sono qui a presentare il counselling secondo l’ACP. Mi scuso per chi già conosce i principi di base della scuola fondata da Carl Rogers ma ritengo indispensabile, per parlare del counselling secondo il nostro modello, percorrere brevemente la storia della teoria di riferimento.
Come leggiamo in “Carl Rogers, un rivoluzionario silenzioso” libro-intervista di David Russell a Carl Rogers, l’11 dicembre del 1940 sarà considerato la data di nascita della Terapia Centrata sul Cliente. In quell’occasione, davanti ad un uditorio selezionato all’University of Minnesota, Rogers tenne una conferenza dal titolo “I concetti più recenti in psicoterapia. Il contributo scientifico che presentava era quello di uno psicologo clinico che, dando credito alla sua esperienza professionale, dando credito ai fatti, che lui ha definito “amici”, stava osservando la realtà e provava a formulare una nuova teoria. In seguito, verificando con puntualità e con mezzi all’epoca niente affatto scontati nell’ambito della psicologia clinica, e parlo della registrazione dei colloqui e della videoregistrazione, ha ritenuto di avere sufficienti elementi per formulare compiutamente una nuova teoria che ha presentato, sin dall’inizio, sempre aperta agli apporti di nuove esperienze e scoperte. Una teoria che è nata quindi dalla pratica e che nella pratica ha continuato a cercare convalida .
Se Carl Rogers si fosse fermato all’applicazione clinica del suo modello, non sarei a rappresentare l’Istituto dell’ACP in questa sede ed in questo contesto. La sua sarebbe stata un’importante ed innovativa teoria della personalità con le relative applicazioni nel campo della psicologia clinica ma Carl Rogers ha esplorato anche altri territori.
La peculiarità di Carl Rogers è stata che, da grande ed instancabile sperimentatore quale era, una volta individuato un postulato di base ed avere definito delle condizioni che l’autore ha chiamato “necessarie e sufficienti” ed avere formulato la sua teoria della terapia, ha tentato l’applicazione di quei principi in campi diversi da quello da cui era partito. Ne cito solo due che sono stati particolarmente significativi: uno è il campo dell’insegnamento e dell’apprendimento, un altro è quello della risoluzione dei conflitti sociali.
Ho fatto cenno al postulato di base, e qui è fondamentale fare delle precisazioni. I postulati non si dimostrano, sono però la base di una teoria. Quello insito nell’ACP è la fiducia nella Tendenza Attualizzante,
Carl Rogers ha ipotizzato che nella natura ed in tutti gli esseri viventi esista una tendenza innata alla crescita ed alla propria attualizzazione. Nei suoi libri fornisce esempi che vanno dalla crescita delle piante allo sviluppo del bambino. La tendenza attualizzante è quella che spingerà l’organismo a cercare di realizzarsi al meglio delle proprie potenzialità, anche lì dove, ad un occhio esterno, questo può risultare non evidente, anche lì dove la persona può sembrare che faccia scelte non coerenti con la sua T. A., Rogers ipotizza che, in un modo sconosciuto agli altri ma presente in quell’individuo, la persona sta cercando di andare verso la propria crescita.
Basta guardarsi intorno per vedere numerosi esempi che sembrano contraddire questo postulato ma Rogers ci invita a crederci e ci fornisce anche argomenti perché questo sia possibile.
La T. A. può essere ostacolata dalla mancanza delle condizioni “necessarie e sufficienti”. Come ad una pianta sarà negata la possibilità di crescere se le viene tolta acqua e luce, così un essere umano rischierà di non poter realizzare la sua crescita se gli viene negato un clima facilitante; non solo ma ci possono essere eventi/relazioni che non forniscono acqua, e luce ma impediscono il dispiegarsi della T. A. Eppure, dice Rogers, se a quella persona offriamo la possibilità di entrare in contatto con i suoi veri bisogni, quella persona sceglierà la direzione dell’autorealizzazione, e lo farà in modo sano e buono per sé.
Potrebbe sembrare una teoria naif ma non lo è, è sostenuta, sin dall’inizio, da ampie ricerche e la pratica quotidiana continua a mostrane l’efficacia.
Ho accennato più volte alle condizioni “necessarie e sufficienti”. Ebbene, quali sono queste condizioni? Rogers individua 3 condizioni che riguardano la persona che desidera prestare la sua opera in una relazione di aiuto, il professionista. Le condizioni sono la congruenza, l’accettazione positiva incondizionata e l’empatia. L’ordine con cui Rogers inizialmente presentò le 3 condizioni non era questo, in una prima versione l’empatia aveva il primo posto ma, proprio attraverso la ricerca ed il confronto con i colleghi, si rese conto che l’empatia correva il rischio di essere tradotta in una tecnica di ascolto e una tecnica è la cosa più lontana che ci sia dall’ACP. Rogers comprese che la congruenza del professionista e la sua capacità di essere non giudicante, completamente aperto all’esperienza dell’altro, capace di rispettare la persona nella sua diversità, erano due condizioni che precedevano l’empatia e che, a quest’ultima, davano la sua completezza.
Cosa è la congruenza,? La congruenza è la capacità del professionista di essere in contatto con la propria esperienza. Chi è in una relazione di aiuto deve sapere “dove è” in quel momento rispetto a se stesso e rispetto all’altro. Essere congruente significa dare all’altro la possibilità di essere accolti ed ascoltati senza che i propri problemi, le proprie esperienze personali, i propri modi di stare al mondo siano un invisibile filtro che non ci permette di essere dove l’altro è per facilitare il percorso che l’altro vuole per se stesso. A volte la congruenza necessita di diventare trasparenza, e cioè apertura all’altro, ma questo solo in casi che l’Autore specifica con chiarezza e che si possono riassumere con l’interesse del Cliente, così come lo ha chiamato Rogers, ponendo l’accento sul potere che la persona ha rispetto alle scelte della propria vita.
L’accettazione positiva incondizionata, come ho già accennato, è la capacità di guardare chi mi sta davanti senza giudizio, di accoglierlo nel suo pieno diritto di essere se stesso. L’accettazione non va confusa con l’approvazione, sono cose ben diverse. Nell’approvazione c’è il giudizio, seppure positivo, nell’accettazione non c’è. Ecco, dice Rogers, se ci sono queste due condizioni, l’empatia può essere piena. Se non filtro l’esperienza dell’altro attraverso la mia, se non mi identifico, se accolgo senza giudizio e se, soprattutto, sono disponibile a dare fiducia all’altro perché credo nella sua T. A., allora posso essere in grado di cogliere ed accogliere i suoi sentimenti, le sue emozioni, posso sentirli “come se” fossero le mie emozioni, i miei sentimenti ma senza mai perdere la condizione del “ come se” che segna la profonda differenza che c’è tra l’identificazione e l’empatia.
L’ipotesi che Rogers aprì al mondo accademico e scientifico fu questa, che se ad una persona forniamo quelle condizioni, la persona tenderà a realizzarsi perseguendo la T. A., la tendenza a crescere e realizzarsi al meglio delle proprie potenzialità.
Questa teoria nata nell’ambito clinico ha poi trovato altre applicazioni, anche queste frutto di sperimentazioni e ricerche nel campo dell’apprendimento e quindi dell’insegnamento, nella facilitazione dei gruppi, nella risoluzione dei conflitti internazionali.
La domanda ovvia che sorge è come sia possibile applicare una sola teoria a campi così diversi, come può funzionare per tutto e per tutti. E’ qui che dobbiamo cominciare a pensare in termini di obiettivi. Ogni campo di applicazione differisce profondamente rispetto agli obiettivi che ci si prefigge, e sono gli obiettivi che modificano il percorso e il processo che si intende facilitare pur rimanendo valido, a tutti gli effetti, l’impianto teorico di base.
La definizione di counselling a cui, come Istituto, ci atteniamo è quella del CNCP, il Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti, una grande organizzazioni che raggruppa scuole di formazione che formano counsellor. Come definito dall’articolo 6 dello statuto, “il counselling è un processo relazionale tra Counsellor ed uno o più Clienti ( singoli individui, famiglie, gruppi o istituzioni) con l’obiettivo di fornire ad essi opportunità e sostegno affinché sviluppino risorse e affinché promuovano il proprio benessere come individui e come membri della società affrontando specifiche difficoltà o momenti di crisi”.
Questa definizione chiara, netta, definisce competenze e definisce confini.
Come ben spiegano Sulprizio e Spaziani “ il counselling si configura come una relazione di aiuto finalizzata alla risoluzione di una specifica problematica”. E’ evidente che le problematiche, seppure specifiche, creano sofferenza, sono caratterizzate da disagio e malessere che possono rendere la persona meno efficace nella sua quotidianità ma quello che viene affrontato nel counselling è il problema specifico e i sentimenti che sono legati a quel problema specifico. Per onestà dobbiamo essere consapevoli che al counsellor si possono rivolgere persone che credono di avere una problematica specifica e che, invece, portano una sofferenza di tipo esistenziale. Il counsellor Centrato sulla Persona viene formato a riconoscere questo tipo di situazione e a lavorare con il Cliente sull’opportunità/necessità di rivolgersi ad un altro professionista. Riteniamo che, un percorso di questo tipo, sia un buon counselling poiché la persona viene facilitata nella comprensione della reale dimensione del problema portato.
La parola problema, nel nostro Approccio, chiede un’ulteriore precisazione. Riteniamo che spesso non si trovino soluzioni ai propri problemi perche non c’è conoscenza del bisogno che sottende il problema. Attraverso le tre condizioni necessarie e sufficienti, la facilitazione ha come obiettivo del counsellor non quello di dare una soluzione al bisogno del Cliente ma di facilitarlo ad ascoltarsi per poter prendere contatto con il proprio reale bisogno. Solo così gli sarà possibile cercare la propria reale soluzione. Molto spesso noi essere umani annaspiamo alla ricerca di soluzioni senza sapere che cosa stiamo cercando, questo impoverisce il panorama delle possibili soluzioni o le amplia eccessivamente e rende inefficace la ricerca di soluzioni. Facilitare la ricerca del bisogno cambia la prospettiva. Sempre Sulprizio e Spaziani definiscono: “ un problema può essere considerato come un bisogno o un insieme di bisogni a fronte del quale non sia individuabile una soluzione efficace ed applicabile nei tempi necessari”.
Ho accennato ai confini ed a questo proposito vorrei precisare un confine che nel nostro approccio viene proposto come un criterio a cui attenersi. La rigidità non ci corrisponde, il rispetto delle norme e delle regole ci riguarda profondamente: le regole ci sono e vanno osservate. Se l’ipotesi è quella descritta, se il problema deve essere circoscritto ad una fase di vita e non deve toccare la dimensione esistenziale dell’individuo, è importante che l’intervento di counselling abbia dei tempi chiari. Parliamo di un numero di colloqui che si attesta intorno ai 12 colloqui. che vengono concordati con il cliente e fanno parte dell’importante accordo che definisce possibilità, confini e limiti. Perché tanto rigore? Per una serie di ragioni. Se la persona non ce la fa a trovare una risposta al proprio problema nel tempo proposto, è probabile che quel problema investa una dimensione più profonda, più ampia, che quindi mette in gioco la personalità del cliente. Se questo è, siamo fuori dell’ambito del counselling.
Questo non significa che il processo di counselling non contenga la dimensione dell’emotività, non potrebbe esserci empatia senza la messa in gioco dei propri vissuti emozionali , ma è importante verificare che siano riconducibili al qui ed ora del problema-bisogno e non ad un lì ed allora che richiede altre competenze ed altri percorsi.
Riassumendo:
il counselling secondo il nostro modello è :
un intervento breve, con un numero definito di colloqui od incontri;
ha obiettivi precisi e circoscritti;
è centrato sul qui ed ora;
ha finalità di empowerment, vale a dire che aiuta le persone a diventare più capaci di aiutarsi;
si svolge in un clima facilitante creato dalle tre condizioni necessarie e sufficienti (congruenza del counsellor, accettazione positiva ed incondizionata del counsellor, capacità di empatia e di fare rimandi empatici da parte del counsellor).
Che cosa non è il counselling Centrato sulla Persona?
Non è “problem-solving” in quanto ha come scopo primario l’attivazione della ricerca di soluzione da parte del cliente, alla luce del bisogno di cui è diventato consapevole, e non è ossessiva ricerca di una soluzione. C’è, nel processo di counselling, la valutazione dei risultati ma “risultato” non è sinonimo di “soluzione”
Non è, ovviamente, psicoterapia. La psicoterapia si occupa di disagio psichico, di malattia mentale, di ristrutturazione della personalità: il counselling non è questo.
Non è un intervento psicologico o, tanto meno, psicodiagnostico. La conoscenza ed il rispetto delle regole e della legge ci caratterizzano e di questo ci diamo merito.
Allo stesso tempo, il counselling non è un intervento superficiale, bensì un intervento circoscritto ed è un intervento che si colloca nell’ambito delle relazioni di aiuto.
Forse, a questo punto, vale la pena specificare cosa è una relazione di aiuto: ogni relazione in cui ci sia una persona che esprime un bisogno e si rivolge ad un’altra con la richiesta esplicita di essere aiutata. Quindi l’insegnante svolge una relazione di aiuto quando uno studente si avvicina per porre un problema di apprendimento o personale; un volontario che lavora con i detenuti è in una relazione di aiuto quando lo incontra in carcere per un colloquio o quando ascolta un detenuto in permesso nell’ambito di un centro di Ascolto e Consulenza; un medico che intenda facilitare e promuovere la decisione di un paziente rispetto alla terapia da intraprendere è in una relazione di aiuto. Potrei fare molti altri esempi, spero che quelli che ho fatto siano sufficienti. Nella relazione di aiuto c’è l’intenzione di essere di aiuto e c’è la richiesta. Ci sono, insomma, due libertà che si incontrano.
Nel nostro approccio, quando parliamo di aiuto, intendiamo la facilitazione dell’empowerment di chi fa la richiesta e questo avviene sempre attraverso una maggiore consapevolezza dei propri bisogni e dei propri vissuti emotivi relativi al problema portato.
Quando ho inviato l’abstract di questa relazione, ho dato un titolo che propone, nell’ordine, “formazione e prassi”. Ecco, oggi direi prassi e formazione. Nella stesura del testo mi sono resa conto che per parlare della formazione, non potevo che partire dalla prassi, poiché la formazione che proponiamo è conseguenza di quello che è la metodologia del counselling Centrato sulla Persona (CCP).
Quando penso alla formazione, penso come prima cosa al colloquio di selezione del biennio. In quel colloquio si pongono le basi di quella che sarà la formazione.
La persona che accede al colloquio, cosa pensa che sia il counselling? Quali sono i bisogni che la portano a richiedere questo tipo di formazione? E’ autenticamente interessata ad un percorso che, nei primi due anni, sarà di sviluppo ed accrescimento delle competenze personali e professionali nel proprio ambito di riferimento?
Da lì parte la nostra proposta formativa che specifica che il corso si svolge su due binari che corrono paralleli sin dal primo incontro: la teoria e la pratica; che nel primo anno l’attenzione sarà maggiormente focalizzata sul corsista e sull’ascolto nei laboratori di empatia e che nel secondo anno ci sarà la formazione specifica in counselling.
L’attenzione alla persona del corsista è, per noi, fondamentale. La fiducia nella Tendenza Attualizzante e la conoscenza delle tre condizioni sono apparentemente semplici, e forse concettualmente sono semplici davvero, ma per essere interiorizzate necessitano di un lavoro puntuale che richiede tempi non brevi. Se la fiducia nella T. A. e la conoscenza delle tre condizioni sono solo teoriche e non diventano un modo di essere, questo inficia la metodologia. Il primo anno è anche l’occasione per verificare le proprie motivazioni, per essere sicuri di quello che, professionalmente, davvero si desidera. Tutto questo avviene attraverso i laboratori di ascolto, la riflessione sugli errori, la partecipazione ai Gruppi di Incontro che sono un cardine dei nostri percorsi formativi. Il Gruppo d’Incontro è uno strumento impareggiabile per diventare consapevoli delle proprie modalità relazionali e per la costruzione della comunità d’apprendimento. Ed è per questo che è un imprescindibile parte dei nostri percorsi formativi.
Nel corso del secondo anno viene introdotta la metodologia del counselling ed anche i laboratori passano dall’ascolto empatico al counselling attraverso step ben definiti fino ad arrivare a quella che chiamiamo “metodologia avanzata del counselling”. In questa seconda fase, che corrisponde al secondo anno, i laboratori si centrano, così come la parte teorica, sul contratto di counselling, l’analisi della domanda e la verifica dei risultati.
Ogni anno l’allievo scriverà una tesina ed un’autovalutazione del processo personale e di apprendimento.
Alla fine del secondo anno, per chi, naturalmente, è in regola con gli obblighi di frequenza e di adempimento dei compiti stabiliti, viene rilasciato il diploma di primo livello che abilita a svolgere attività di counselling all’interno della propria attività lavorativa.
Il passaggio al terzo anno non è scontato né automatico. Questo non perché, come scuola, pensiamo di essere selettivi ma perché di nuovo il candidato viene sollecitato a valutare le sue motivazioni e, in questo caso, anche il proprio percorso di apprendimento teorico-esperienziale. Come ci ha insegnato Carl Rogers, molto difficilmente questa autovalutazione ci delude. Chi ha frequentato con interesse e partecipazione sa se vuole e può proseguire o se è opportuno fermarsi. Direi che il colloquio di accesso al terzo anno è un’ulteriore verifica del processo di apprendimento del biennio. E mi sento di dire, senza volere generalizzare, che gli stessi candidati se lo vivono così. Chi sente che questo tipo di percorso non gli appartiene, decide di interrompere la formazione. Chi va avanti per tutto il biennio acquista una consapevolezza e degli strumenti che, a mio avviso, provano l’efficacia del metodo che è essenzialmente basato sulla fiducia nella possibilità di autodirigersi e nella ricerca di direzioni che corrispondono a criteri interni e non esterni.
Il terzo anno si articola sempre sui due binari della teoria e dell’esperienza, è un anno professionalizzante per cui include argomenti quali la deontologia e l’etica professionale, la competenza nel fare gli invii, la costruzione del lavoro di rete.
E’ previsto che gli allievi svolgano un tirocinio ed è richiesto che portino in supervisione “casi” incontrati nell’esperienza di tirocinio. I laboratori di counselling hanno uno spazio consistente nell’articolazione del programma. Agli allievi del terzo anno, così come prevede il CNCP, sono richieste almeno 30 ore di terapia personale. La ragione è ovvia, direi, per quello che riguarda il nostro Approccio: le 3 condizioni dicono che senza congruenza ci può essere, nella migliore delle ipotesi, una tecnica; noi aspiriamo ad un modo di essere e perché questo sia possibile abbiamo bisogno di proporre un’opportunità di guardarsi dentro con l’aiuto di un professionista.
A questo punto della mia relazione, vi ringrazio per l’attenzione e vi invito senz’altro a fare domande, se il tempo ce lo permette, ed a consultare il nostro sito www.iacp.it per ulteriori informazioni, oppure a contattami direttamente al mio indirizzo di posta elettronica.
Mariangela Bucci Bosco (Script)
drmbucci(at)libero.it
Direttrice corso di Counselling Centrato sulla Persona, sede di Firenze.
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