Nell’articolo a seguire sarà analizzato il binomio artista-opera d’arte, tenendo presente l’eterna relazione che lega questi due elementi “vivi”, andando a ricercare i motivi, e le modalità che spingono l’artista a considerare sia se stesso che l’opera soggetti e non soggetto ed oggetto al fine di coltivare la ricerca verso il senso del vero che anima la nostra esistenza.
In cerca di qualcosa che sappia di vero
Sino ad oggi, dipingendo l’oggetto in cui risiede una mia proiezione, ho tracciato un limite. Vedo dentro di me l’oggetto, che è già rappresentazione soggettiva nel linguaggio immaginativo, e dipingo l’oggetto stesso, confinandolo tra me e il suo margine di contemplazione, ossia l’immagine finita. Con “immagine finita” intendo:
– nel caso di un’ immagine figurativa, un’immagine più facilmente riconoscibile e riconducibile ad un linguaggio comune.
– nel caso di un’ immagine astratta, un’immagine meno riconoscibile nel linguaggio di rappresentazione comune e quindi con un maggior margine di contemplazione rispetto alle pressioni esercitate dalle mie proiezioni e da quelle
di linguaggio comune a cui una qualsiasi osservatrice/o è sottoposta/o.
Con linguaggio comune, intendo le rappresentazioni del reale, a cui storicamente e culturalmente siamo solite/i dare un significato affine, meno soggettivo possibile tale che consenta una comunicazione ed espressione comprensibile ed intelleggibile tra più persone.
Se dipingo un’ immagine figurativa pongo dunque un maggior numero di limiti nel campo dei significati, rasentando la rappresentazione dell’oggetto in quanto ostacolo e non dell’oggetto in quanto cosa in se stessa (sempre che la “cosa in se stessa” esista tra i postulati di chi si affaccia alla ricerca artistica ).
Nella fase artistica in cui mi trovo, ho necessità di tendere alla ricerca della cosa in sé, un tendere al vero. E se, l’immagine figurativa mi è da ostacolo come una linea orizzontale all’orizzonte, tento, di intuire cosa c’è oltre, aggiungendo profondità, come voler guardare oltre l’orizzonte. La profondità, tecnicamente, non è data dalla prospettiva, bensì dalla possibilità più ampia possibile di contemplare l’invisibile in un moto a luogo tra me e l’immagine che ha a che fare con il sentire.
Contemplare tenendo presente la distanza*, quella necessaria ad evocare un senso , quando la si fa equilibratamente vicina, sul limite di confine tra artista e opera d’arte. Tecnicamente sarebbe necessario ripetere la stessa immagine
figurativa, identica, in frame, sequenze ripetute, fin tanto che, a livello percettivo, si va spezzando la stasi orizzontale dell’oggetto chiedendogli di compiersi in una forma.
Le sequenze dovrebbero poter attivare un conflitto ossia il desiderio di rompere un equilibrio statico (ripetizione dell’immagine) da parte dell’osservatore. Ancora prima di trovare un nuovo equilibrio (una nuova immagine oggetto), si può cogliere la sostanza nutritiva ed evocatrice nell’ortogonalità* dell’impatto tra visivo-cognitivo statico-conosciuto / sentito-emotivo-in moto-sconosciuto: “compiersi in una forma”
*Ortogonalità : sono solo piccole croci a creare lo sfondo dei miei ultimi quadri. E’ come se accettassi la presenza di una continua sorgente (come assi cartesiani) d’informazioni senza predeterminarne o conoscerne il significato. Al pari dell’opera d’arte [ cfr. Heidegger 1969; Heidegger 1976], le cose innescano in chi le usa o le contempla un susseguirsi di rimandi, che sgorgano da loro come da un’unica, inestinguibile sorgente di donazione di senso.
*Distanza: Il risultato, come sintesi, indirizza verso l’immagine astratta: rappresentazione dell’impatto. Trattenere l’immagine astratta e assecondare la vibrazione che emana, dall’impatto o incontro (limite di confine), ha a che fare
con il piano spirituale, svuotato da ogni linguaggio comune e simbolico ma colmo di “non so”.
L’ultima espressione artistica, l’“impatto”, inteso come sintesi estrema, è strumento di sostegno alla meditazione verso la cosa in sé ma non rappresentazione della cosa in se stessa. Come dire che ciò che mangio non è
solo la sostanza ma è in tale sostanza che risiede ciò che mi sostiene.
Negli ultimi quadri, gelosia, timida, piazza rossa, il tentativo è stato quello di aggiungere il moto al luogo dell’emozione per scioglierla dal mio controllo. La riduzione del colore, sia nella quantità, sia nella gamma dei colori, agevola lo spazio di movimento: il vuoto (non colore), il pieno (colore).
Essendo l’oggetto-proiezione, un limite, il tentativo è quello di ridurre le caratterizzazioni della proiezione per distanziare l’opera dall’oggetto come oggetto “finito”. Ciò accade perché nasce in me il desiderio di scalfire l’oggetto in quanto ostacolo (proiezione) al fine di ampliare il margine di contemplabilità.
Equivale a prenderne distanza, dall’oggetto, sia che io mi allontani, sia che io allontani l’oggetto stesso. Lo scopo è quello di ridurre i margini di auto-inganno rispetto alle motivazioni che mi spingono a rappresentare l’essenza della cosa in sé presupponendo di esser soggetta solo a motivazioni consapevoli, nell’atto di creare l’opera.
Accetto dunque il margine d’ inconsapevolezza supponendo che potrei ovviarvi se solo esistessero altri linguaggi rispetto a quelli che conosciamo per esprimere un sentire “sottile” che non sono capace di nominare e dunque significare. Linguaggi convenzionali inerenti a tutto ciò che sentiamo senza mai aver ideato convenzioni comuni, comprensibili, per poterli mettere in gioco nel reale che conosciamo e stigmatizziamo con segni e suoni.
E’ un po’ come se noi artisti reiterassimo una ricerca continua di ciò che esiste o non esiste, e che, se esistesse, perché decidiamo di convenzionarne il significato, dà adito ad un ulteriore ricerca continua, verso ciò che esiste o non esiste.
Prendere una posizione atea, oltre il reale niente esiste, rimette in gioco l’oggetto artistico come ostacolo ( privo del concetto di cosa in sé) e oggettiva il soggetto che nel rispondere alla percezione si adegua alla presenza dell’opera d’arte come compartecipazione al reale nella dualità artista – opera d’arte.
In tal caso le probabilità di alimentare l’auto-inganno, nell’inconsapevolezza delle motivazioni, possono solo aumentare se nella suddetta dualità vado a togliere (per credo, credo ateo ) qualsiasi possibilità di riconoscere e legittimare il mondo emotivo e percettivo; mondo, tipico dell’invisibile e non del visibile-scientifico,
ma non per questo religioso e neppure ateo.
Con ateo, nego l’esistenza di Dio e accolgo se pur per ipotesi, la negazione del suo esistere. Preferisco, allora, parlare di mondo emotivo, percettivo, usando il termine spirituale. Spiritualità umana o esistenziale, intendendo la ricerca dell’essenza della cosa in sé o anche della ricerca della sua negazione affermando l’esistenza di uno stato dell’esistere “privo”. In quanto, entrambe le direzioni si fondano sullo stato naturale dell’esistere soggettivo (artista-opera)
indipendentemente dalle ipotesi di forze differenti o antagoniste.
In ambo i casi, accetto il mistero dello “stato dell’esistere”. Ho escluso anche spiritualità laica perché il termine laico contraddistingue l’appartenere alla moltitudine degli uomini/donne in contrapposizione agli appartenenti a una comunità chiusa e anche questa definizione mi riconduce all’escludere qualcosa in virtù di un’ipotesi di realtà della cosa stessa, (come il termine ateo).
Ritornando dunque all’immagine astratta come rappresentazione dell’impatto, e dopo aver parlato di spiritualità come spiritualità umana, posso avvicinarmi all’ immagine sia tenendo conto della vibrazione della cosa in sé oppure della
vibrazione della cosa che non è più comunque oggetto, bensì soggetto perché investita dall’intenzione di sostenerla come tale, “priva” del suo essere solo sostanza bensì sostanza che nutre.
La sintesi si riassume nel fare arte, in termini di “constatazione” su un piano spirituale. Nel constatare, dunque, coesiste ed è condizione necessaria, il sostare, investito dell’ intenzione del contemplare per poter fare esperienza silenziosa della spiritualità.
Nell’opera d’arte mi accingo a dare dei riferimenti intenzionati : linee e movimento. E non contenuti intenzionati. Sostenendo, per dirla alla Hegel: l’esistenza di un istinto di verità che spinge le persone alla sua ricerca . E aggiungo: evitando di colmare di contenuti l’opera ma agendo solo riferimenti.
Nutro l’opera e l’opera mi nutre ben diverso da processo di alimentazione dell’opera.
In tal modo, nella fase di ricerca della “cosa in sé”, il cui rischio, è l’investimento di contenuti che dal “per me” traslano al “per noi” solo come dato oggettivo e in modo autoipnotico pensando di poter estendere il proprio soggettivo al “noi”, mi limito a dare dei riferimenti soggettivi su cui si attiva, tramite un atto di fede umano sull’umanità, l’auto to pragma insito nell’opera che si fa soggetto.
Se pragma è la “cosa in sé”, la sostanza che nutre, l’auto to pragma, seguendo l’uso della parola fatto da Aristotele, è ciò che è impregnato nel processo di svolgimento automatico di una verità ormai raggiunta e che parla in prima
persona.
Solo allora l’oggetto è soggetto perché si esprime in prima persona e l’artista è soggetto nel consentire l’attivazione dell’oggetto in quanto soggetto, in auto to pragma. Il soggetto artista, può così esprimere la propria individualità (quella che io riduco a linee, movimento e colore) nel corso di un obiettivo di ricerca collettivo, lo stesso collettivo dove risiede ciascun auto to pragma.
L’arte può essere così anche strumento politico, spirituale, psicologico (cura e conoscenza del mondo emotivo) nei termini del “prendersi cura del bene comune”, sapendolo essere vivo di auto to pragma. Oso dire di donna, che nutre
ed è nutrita e non che alimenta e si alimenta.
Desy Vanni