Scopo di questo scritto è illustrare alcuni importanti cambiamenti che riguardano la filosofia e il metodo della psicoanalisi, avvenuti nel corso dei suoi cento e più anni di vita. Alcuni sono cambiamenti sottili, compiuti per vie tortuose, altri costituiscono invece svolte radicali, che hanno portato a contrapposizioni e scismi, ma nel complesso sfuggono all’opinione generale, l’opinione molto semplificata che la maggior parte delle persone mantiene a proposito di questa disciplina.
Sugli scaffali delle librerie si trovano in grande quantità edizioni tascabili delle opere di Freud e Jung: già questo costituisce una sorta di anomalia curiosa. Non è possibile identificare la psicoanalisi con quello che era ai suoi albori. Sarebbe assurdo per qualsiasi altra scienza (fisica, biologia o medicina) che si leggessero le opere scritte un secolo addietro per capire, senza mediazioni o prospettiva storica, ciò che essa rappresenta oggi. Ci sono molte spiegazioni per quest’assurdità, ma voglio arrivare subito a quella più importante, anticipando qualcosa che svilupperò meglio in segui-to. La psicoanalisi degli inizi possiede un fascino particolare, perché essa è intrisa di un’ideologia particolare, un sogno, una speranza che pare non possa mai abbandonare definitivamente l’umanità: la speranza di poter compiere un intervento “onnipotente” sull’anima. Nella modernità, questa antica aspirazione è passata dalla magia alla scienza, tramite la quale l’essere umano si è a volte illuso di potersi fare artefice o creatore di se stesso. È passata alla medicina e alla psicoanalisi e, ultimamente, dalla psicoanalisi alla psichiatria, aumentando la popolarità di quest’ultima a scapito della prima.
A questo proposito, vorrei citare un mito, l’ultimo vero, grande mito prodotto dall’umanità: il mito di Faust.
Lutero aveva definito Copernico “un asino che vuole pervertire l’intera arte dell’astronomia e negare ciò che è scritto nel libro di Giosuè, solo per fare mostra di bravura e per attirare l’attenzione”. In quel contesto culturale, la leggenda di Faust nacque, nei Paesi di religione protestante, come simbolo dell’uomo rinascimentale che si macchiava di superbia, preferendo la conoscenza umana, “satanica” dal punto di vista religioso, a quella di Dio. “Egli abbandonò le Sacre Scritture dietro la porta e sotto la panca, rifiutò di farsi chiamare dottore in teologia e preferì farsi chiamare dottore in medicina, e quindi fu giustamente dannato”, si legge di Faust in una ballata del sedicesmo secolo. Ma la versione letteraria più interessante e a noi più vicina è indubbiamente quella dataci da Goethe. Il Faust di Goethe è già un intellettuale dei tempi moderni, un individuo che soffre di quella che oggi potremmo chiamare depressione vuota. Cosa gli è successo? Prendendo a prestito le parole di J. Monod, potremmo dire che, dal suo punto di vista, “L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere non è scritto in nessun luogo” [1]. Faust, come quel suo più antico precursore che è l’Ulisse di Dante, era andato oltre le certezze rassicuranti del suo tempo. Inoltre, gli amici e i colleghi (dei quali Wagner, nell’opera di Goethe, costituisce l’emblema) lo ammiravano ma preferivano non spingersi così avanti, per rimanere più prudentemente ancorati alle loro sicurezze. Dovendo procedere da solo, Faust sperimenta il terrore di smarrirsi nell’ignoto, un senso di piccolezza e d’impotenza schiacciante e, in definitiva, una grave crisi d’identità che lo porta ad un passo dal suicidio. Il patto con il diavolo che interviene a salvarlo, significa la tentazione di usare le nuove abilità per costruire una difesa, un arroccamento e una vendetta contro tutti gli altri.
Come vedremo, Freud si trovò inserito nel solco di una tradizione maledetta, faustiana al massimo grado. Mi riferisco, ovviamente, alla tradizione della psichiatria dinamica, iniziata, secondo Ellenberger [2], alla fine del settecento con Franz Anton Mesmer. Costui era un medico illuminista, convinto che i pianeti esercitassero un effetto sui tessuti e i nervi delle persone, un effetto di tipo magnetico, del tutto simile a quello delle calamite. Perciò iniziò a curare i propri pazienti utilizzando le calamite. Col tempo cambiò idea e si persuase che fosse la sua stessa persona a emanare il “magnetismo” con il quale trattava i malati; perciò parlò di “magnetismo animale” e non più di magnetismo minerale. Sviluppò la concezione di un’energia universale, impersonale, che può immagazzinarsi nelle persone, negli oggetti o nei luoghi e che può essere scoperta attraverso i suoi effetti oggettivi. Qualcosa di analogo al concetto polinesiano di mana, ma anche al prana dello yoga e all’antico qi cinese, l’energia che si manifesta come yin e yang.
In realtà Mesmer aveva scoperto l’ipnosi e si trovò a fare esperienze nuove e sconvolgenti e soprattutto a destare enormi aspettative nella gente, per poi deluderle. Per un certo periodo svolse la sua attività a Parigi, al servizio della nobiltà parigina, e divenne famosissimo e ricchissimo. La sua fortuna e la sua rovina ricevettero un impulso considerevole nel 1775, l’anno in cui avvenne la sua clamorosa vittoria su Gassner. Gassner era un guaritore esorcista, a sua volta immensamente popolare, che rappresentava la tradizione e la religione. Mesmer dimostrò che poteva guarire senza fare ricorso alla religione. Praticamente tolse la cura della psiche dall’ambito della teologia e, a dire il vero, ne copiò in parte il metodo. Infatti la cura consisteva nel procurare ai soggetti magnetizzati (cioè ipnotizzati) delle crisi, del tutto simili a quelle che si verificavano nel corso degli esorcismi, con lo scopo presunto di “riequilibrare” le loro cariche magnetiche.
Nel corso dell’Ottocento si sviluppò l’ipnosi più modernamente intesa, ma l’idea che per curare si dovessero provocare delle crisi durò fino a Charcot, un altro bel personaggio faustiano, detto il Napoleone dell’isteria, di cui Freud fu allievo entusiasta. Anche Charcot divenne famosissimo e ricchissimo e credeva di avere scoperto l’arco isterico che invece era una prestazione di tipo prettamente teatrale, che le ricoverate della Salpetriere avevano imparato a esibire per far piacere a lui. Questo rendeva le sue lezioni molto impressionanti e suggestive e fecero di lui un personaggio a metà fra il grande medico e il grande mago.
Le lezioni di Charcot erano un vero e proprio spettacolo con una sapiente regia. Questo quadro di André Brouillet raffigura una delle sue celebri dimostrazioni sull’isteria. Freud, che era stato allievo e poi traduttore di Charcot, tenne sempre una riproduzione di questo dipinto nel proprio studio.
Mi sono già dilungato abbastanza sulla tradizione e vorrei ripartire da Freud. Nonostante l’ammirazione per Charcot, nonostante l’impegno personale considerevole (dopo essere stato per sei mesi da lui, nel famoso ospedale della Salpêtrière, tradusse tutte le opere di Charcot in tedesco), Freud si rese conto che con l’ipnosi riusciva a combinare molto poco. I risultati che otteneva erano saltuari, imprevedibili, a volte anche spettacolari ma non durevoli. Allora si recò da Bernheim, a Nancy, l’altra scuola d’ipnosi, che rappresentava l’alternativa a Charcot. Qui non ottenne quello che cercava, cioè un miglioramento delle proprie capacità d’ipnotista, ma gli fu rivelato che la scissione della personalità prodotta dall’ipnosi non era poi così totale come si era sempre creduto: era sufficiente ottenere la fiducia dei pazienti, perché questi si lasciassero “suggestionare”, cioè convincere a ricordare le esperienze, apparentemente dimenticate, che si erano prodotte in stato d’ipnosi. Potremmo dire che Berheim, a differenza di Charcot che si atteggiava a padreterno, aveva scoperto l’importanza del rapporto fiduciario fra paziente e terapeuta. Determinante fu poi l’aiuto che Freud ricevette da Josef Breuer, un medico più anziano di lui e molto famoso a Vienna, di cui Freud godeva l’amicizia e la protezione. Fu Breuer a scoprire, o meglio, a imparare dalla famosa paziente Anna O. l’effetto terapeutico di ricordare e confessare il resoconto di determinate esperienze emotivamente sovraccariche che stavano celate dietro a ognuno dei suoi numerosi sintomi isterici.
Riunendo questi diversi tasselli, Freud mise a punto il metodo psicoanalitico. All’inizio utilizzava la suggestione: teneva una mano sulla fronte del paziente e gli faceva pressione perché ricordasse le esperienze penose che aveva rimosso. In seguito, abbandonò quasi completamente la suggestione e cominciò ad aiutare il paziente fornendogli delle interpretazioni. Come vedete, niente nasce da niente. Pur essendo stata creata da un unico uomo, la psicoanalisi è nata come un magico comporsi in mosaico di esperienze e conoscenze precedenti. Tuttavia il passo compiuto costituì una rivoluzione. Dalle confessioni delle isteriche cominciarono a venir fuori delle verità scabrose, ma anche a succedere delle cose scabrose: infatti, le emozioni che si liberavano erano sorprendentemente coinvolgenti anche per il medico che conduceva la terapia. Questo mise letteralmente in fuga Breuer, la cui moglie reagì con violenta gelosia al trattamento di Anna O. Freud si trovò solo (come Faust) e incredulo con lo strumento che aveva in mano. Per sentirsi meno solo, dovette praticamente inventarsi un confidente in grado di comprenderlo, l’amico Fliess, un uomo che ebbe il merito di starlo ad ascoltare per anni e di scambiare con Freud un epistolario fittissimo.
All’inizio, la psicoanalisi suscitò disagio nell’ambiente medico e, nonostante l’enorme rilevanza culturale che ha progressivamente conquistato con il passare del tempo, vi posso assicurare che ancora oggi, quando un collega medico mi chiede quale sia la mia specialità e io rispondo la psicoanalisi, la sua reazione è generalmente tiepida e imbarazzata (come dire: ma allora non sei dei nostri, non sei un vero medico. Oppure: allora ti farò pagare la visita, tanto da te non voglio avere niente in cambio). Cerchiamo d’immaginarci cosa potesse significare essere Freud ai tempi di Freud, cioè negli ultimi anni del milleottocento, e avere scoperto la psicoanalisi quando ancora la psichiatria dinamica era in mano ai medici stregoni. Freud pensava di aver fatto una scoperta che offendeva la convinzione dell’uomo di essere padrone, dentro a se stesso, come in casa propria. Riteneva che le sue scoperte, come quelle di Copernico e Darwin, producessero una ferita narcisistica negli esseri umani, per cui questi reagivano con rabbia contro la psicoanalisi.
In tempi più recenti, Kohut ha dato un’altra spiegazione che mi sembra molto interessante. Quello che urta gli uomini di scienza è il fatto che la psicoanalisi, occupandosi della vita interiore, può sembrare animistica e antropomorfica. In realtà, le cose stanno al contrario: l’oggettività nei confronti della vita interiore costituisce una sfida particolare, quella di resistere alla tentazione di fare ritorno al pensiero animistico e antropomorfico; una tentazione non riconosciuta ma ancora persistente in gradi diversi, a seconda degli individui, a causa dell’incompletezza dello sviluppo cognitivo dell’essere umano. È contro questa tentazione, contro questo infantilismo presente in loro stessi, che reagiscono gli uomini di scienza.
La mia personale spiegazione riguardo il particolare atteggiamento di adesione fideistica o di rifiuto viscerale, cioè di attrazione o di repulsione suscitati dalla psicoanalisi, fa riferimento all’elemento di onnipotenza che è presente soprattutto negli scritti della psicoanalisi delle origini, negli scritti di Freud e di Jung. L’onnipotenza di Freud è rappresentata dalla sua cosiddetta metapsicologia, cioè dalla costruzione di un complesso modello meccanicistico della psiche, e dall’illusione di poter manovrare tale macchina mediante l’interpretazione, mentre l’atteggiamento umile e innovativo, si è espresso nell’autoanalisi di Freud e nell’accettazione delle problematiche di transfert e di controtransfert come parte integrante e fondamentale della cura (di questo parleremo in seguito). L’autoanalisi di Freud, indipendentemente dai risultati raggiunti, costituisce, ai miei occhi, un grande sforzo da lui compiuto per mettersi nei panni dei propri pazienti, cioè un grande impegno di empatia nei loro confronti.
Per fare un esempio veloce: la psicoanalisi cinematografica del tipo Io ti salverò, dove l’analista con abile sforzo da detective svela improvvisamente al paziente una verità nascosta e terribilmente scabrosa e di botto lo guarisce, esprime abbastanza bene l’onnipotenza dell’interpretazione. Quel genere d’interpretazione, a sua volta, è basata su di un modello della mente che funziona come una macchina a vapore, la teoria delle pulsioni, detta anche modello pulsione-difesa del funzionamento mentale.
Se passiamo da Freud a Jung, in primo luogo ci dobbiamo ricordare che questi si discostò da Freud proprio perché non ne condivideva il meccanicismo, che per lui era troppo riduttivo. Jung, però, ha preservato a sua volta l’illusione dell’onnipotenza, sostenendo che non la psicoanalisi ma l’inconscio stesso è onnipotente. Egli ha fatto dell’inconscio una fonte di saggezza, di creatività e di vita, esattamente come il credente fa di Dio la propria fonte. Naturalmente, ciò non toglie che Jung abbia dato dei contributi originali e preziosi alla psicologia del profondo. Per esempio, egli è stato il primo a collocare il Sé al centro dell’universo psicologico. Affermò, in questo modo, che la soggettività non si può scomporre in parti, seguendo il metodo delle scienze naturali, come Freud pretendeva di fare. L’attenzione costante dedicata da Jung alle vicissitudini della soggettività costituisce un’anticipazione della psicoanalisi più attuale, anche se Jung, un po’ buffamente (per il solito bisogno di avere dei riferimenti ai quali aggrapparsi), pensava di potersi rifare niente meno che al medioevo e all’alchimia. Citava perciò il motto esoterico “ignotum per ignotius“, volendo significare che possiamo spiegare i misteri della psiche soltanto attraverso qualcosa che è più misterioso ancora (più modernamente inteso, appunto, le vicissitudini del soggetto). Non a caso, poi, Jung approdò alla teoria del processo d’individuazione, che significa concepire la terapia come una ripresa dello sviluppo psicologico della personalità. Anche questa concezione è stata fatta propria dalla psicoanalisi più attuale: tanto la centralità del sé, quanto la teoria della terapia come ripresa dello sviluppo sono punti cardine della psicologia del sé di Kohut.
Jung, tuttavia, facendo dell’inconscio una specie di oracolo e divinizzandolo, si è posto in una posizione difficilmente difendibile dal punto di vista della scientificità: Freud non aveva tutti i torti a dire che Jung non si accontentava più di fare lo psicoanalista e si era trasformato in un profeta. Come al solito, siamo molto più bravi a diagnosticare la grandiosità degli altri piuttosto che la nostra.
Penso che l’onnipotenza della psicoanalisi classica si possa cogliere anche nella critica fattale da Karl Popper che l’accusava di essere autoreferenziale. La psicoanalisi, diceva Popper, è inattaccabile, perché pretende di spiegare le critiche che le vengono fatte, interpretandole come resistenze; se funziona così, essa non appartiene alla scienza. Un po’ come dire: croce, vinco io; testa, perdi tu. L’atteggiamento autoreferenziale dell’analista fa letteralmente impazzire il paziente grave, cioè il paziente che presenta un Sé fragile. Quando questi non si sente capito dall’analista e osa dirglielo, l’analista classico può rispondere che ciò avviene perché egli oppone resistenza all’analisi. Allora il paziente si sente non creduto, invalidato e anche tradito nella fiducia che ha dimostrato osando obiettare, e si arrabbia. A quel punto l’analista interpreta la rabbia come disvelamento di un elemento psicologico primario, a conferma delle proprie tesi, e così via, dando luogo a una spirale che è stata chiamata (eufemisticamente) reazione terapeutica negativa [3]. Il nome vuol dire ancora una volta: la terapia è buona e il paziente reagisce male perché non vuole guarire.
Oggi so che esiste un modo per interrompere (quasi sempre) la reazione terapeutica negativa sul nascere, ma devo ammettere che prima sono passato per l’insegnamento di una paziente che non mi perdonava nulla. Soltanto in seguito ho trovato in Kohut quanto in parte avevo già imparato con molta sofferenza di entrambi, la mia paziente e me. Il metodo è: accettare l’evidenza che la paziente non si sente capita, chiedere scusa, riconoscere i propri limiti inevitabili e riprovare a mettersi nei suoi panni. Si chiama metodo empatico. Kohut sostiene che nessuno può conoscere direttamente il mondo interno di un’altra persona, e questo è ovvio. L’empatia, secondo lui, è lo strumento attraverso il quale lo psicoanalista osserva, e perciò l’ha anche chiamata introspezione vicariante [4]. L’analista ascolta il paziente e cerca di ricordare eventuali proprie esperienze personali analoghe, o d’immaginarle, se non riesce a trovarle nel repertorio dei propri ricordi. A partire da queste, elabora una risposta per il paziente. Se questi non si sente ancora compreso, come a volte succede, allora l’analista riprova, cerca ancora; procede, insomma, per prova e per errore, finché non ha luogo la cosiddetta risonanza empatica e il paziente sente che l’analista sta parlando la stessa sua lingua. In altri termini, l’analista compie la propria introspezione e in questo modo aiuta il paziente a fare altrettanto. Così, passo dopo passo, si procede attraverso la cosiddetta indagine empatica continuativa, in attesa di avere raccolto sufficiente materiale per approdare a spiegazioni sempre più articolate che riguardano gli schemi emotivi tipici del paziente, le sue vulnerabilità specifiche e la storia che li ha generati. L’analisi del Sé pone particolare attenzione alle fluttuazioni del senso di sé: quando e in seguito a cosa è iniziato un certo cambiamento d’umore, cosa ha prodotto un abbassamento dell’autostima, cosa fa nascere il sentimento della vergogna ecc. Tutti questi aspetti del mondo interiore sono chiamati stati mentali complessie sono considerati come elementi primari, costitutivi del mondo psicologico, e non scomponibili in parti più semplici, sul genere delle pulsioni di Freud. Appare evidente che l’empatia costituisce l’unico strumento possibile, in grado di riconoscere tali elementi di partenza dell’analisi psicologica, perché essi esistono soltanto all’interno della prospettiva di esperienza del paziente (sono parte integrante e costitutiva di essa): qualsiasi osservazione “dal di fuori”, compresa l’osservazione delle associazioni verbali, non può essere altro che ipotetica. Attuando un totale capovolgimento teorico, la psicologia del Sé considera le pulsioni come il risultato di una disgregazione patologica degli stati mentali complessi.
Analizzare la psiche attraverso le variazioni del senso di sé è come disporre di uno strumento più potente rispetto al metodo freudiano e consente di guarire disturbi psicologici più gravi, i cosiddetti disturbi narcisistici della personalità dove è in crisi il senso della propria identità (una situazione, in verità, che secondo me caratterizza quasi tutti i pazienti che attualmente si rivolgono all’analista). È come se l’analisi del Sé ci mettesse a disposizione un microscopio più potente; infatti Kohut ha parlato anche di microanalisi. Inoltre, questo metodo produce un diverso clima nel corso delle sedute: un clima di maggior calore umano, dovuto al fatto che il paziente si sente maggiormente compreso e, in ogni caso, ha la percezione dell’impegno che l’analista mette nel tentativo di comprenderlo. Secondo Kohut, la guarigione avviene attraverso le frustrazioni ottimali. Queste non sono qualcosa di artificiosamente imposto, ma d’inevitabile, nel corso del dialogo e dello svolgimento del rapporto terapeutico. Infatti, la comprensione e la spiegazione, per quanto buone, non possono mai essere perfette. Quando però la frustrazione che il paziente riceve è sopportabile, allora egli fa un pezzetto di strada da sé, costruisce un pezzetto d’autonomia, addirittura un pezzetto di struttura psichica, secondo Kohut.
Secondo Luigi Ruggiero [5], uno studioso italiano di Kohut, nella guarigione ha un ruolo importante anche la cosiddetta esperienza emotiva correttiva. Questo procedimento rende meno idilliaca la terapia analitica e la fa assomigliare di più ad un faticoso corpo a corpo con emozioni disturbanti e paurose. Si tratta d’individuare i tratti caratteriali, le rigidità, gli schemi emotivi fissi e ripetitivi del paziente e di fargli comprendere la funzione difensiva che svolgono, poi d’incoraggiarlo a forzarli un poco sperimentando l’ansia che immancabilmente si produce. Occorre familiarizzare con quest’ansia, riconoscerla, portarsela appresso, finché essa viene, per così dire, addomesticata e perde d’intensità. A questo punto si può cercare di forzare ulteriormente e così via. Naturalmente l’ansia emergente verrà fatta oggetto d’indagine e questo fa parte del procedimento analitico, ma quello che vorrei mettere in luce è il lavoro di paziente decondizionamento che talora si rende necessario. Ancora una volta, la terapia si presenta come una procedura tutt’altro che onnipotente e tutt’altro che magica.
Tornando al Freud umile e innovativo, avevo parlato di due elementi: l’empatia e la dinamica di transfert-controtransfert. Di quest’ultimo aspetto dobbiamo ancora brevemente discutere. Possiamo partire dalla seguente osservazione: cosa succede se l’analista, per quanto bene intenzionato, non riesce a mettersi nei panni del paziente e ne fraintende le comunicazioni? Non si tratta di una situazione tanto rara e non si tratta necessariamente di errori o di imperizia da parte dell’analista. Quanto più il paziente è disturbato, tanto più la sua mente è organizzata in maniera arcaica e tanto più è difficile per l’analista essere empatico con lui, cioè mettersi nei suoi panni e ricreare le sue esperienze dentro se stesso.
Si può definire controtransfert il disturbo evocato nell’analista quando il paziente dirige il proprio disturbo su di lui. Mentre, per lo più, nella psicoanalisi contemporanea, l’attenzione empatica e l’attenzione al controtransfert sono presentate come metodi alternativi, sviluppati sulla base di presupposti teorici diversi, io sono arrivato a convincermi che il controtransfert costituisce l’antitesi dialettica dell’empatia. Quando l’empatia fallisce, si sviluppa il controtransfert e, in tal caso, l’analisi del controtransfert costituisce lo strumento adeguato, attraverso il quale si potrà afferrare l’elemento inconscio che sfugge e la comprensione empatica sarà ristabilita. Questa alternanza caratterizza soprattutto la terapia dei disturbi gravi, dove il passaggio attraverso crisi sembra essere, purtroppo, la regola. Dico purtroppo, ma in realtà, si tratta di un impegno che può rivelarsi coinvolgente e affascinante e rendere piuttosto avventuroso il lavoro analitico: una sfida non solo alla preparazione dell’analista, ma anche alle sue qualità umane, oltre che a quelle del paziente. Stolorow, Brandchaft e Atwood, dei continuatori di Kohut che si sono avventurati nella terapia psicoanalitica delle psicosi, hanno affermato, parafrasando Freud, che la crisi è la via regia per l’inconscio [6] (Freud aveva affermato che il sogno è la via regia per l’inconscio).
Seguendo Racker [7], il controtransfert può essere definito concordante o complementare. Nel primo caso l’analista vive un’identificazione con il paziente e sente qualcosa, o meglio avverte quel disagio o quel disturbo di cui il paziente non riesce a fare parola, nemmeno con se stesso. Nel secondo caso si ritrova a impersonare involontariamente il persecutore del paziente, quasi a recitare una parte assegnatagli dall’inconscio del paziente (come si dice nella teoria delle relazioni oggettuali, ne diviene l’oggetto cattivo) [8]. Citerò un paio di esempi tratti da una sterminata letteratura.
Nel primo esempio, si tratta di una donna di 40 anni che tendeva ad arrossire in pubblico. Essa aveva intensamente idealizzato l’analista e si sentiva obbligata a portare in analisi soltanto materiali sufficientemente interessanti, relazionandosi all’analista con molta venerazione, come se questi fosse un grande saggio. Qui non è in questione un certo grado di narcisismo dell’analista, il quale si era lasciato trascinare in tale ruolo, facendosi complice della paziente in quello che era soprattutto un suo gioco difensivo. L’essenziale è che, date queste premesse, per tre sedute consecutive l’analista fu colto da violenti e inaspettati colpi di sonno. Sulle prime, per rispetto verso la paziente, cercò di sforzarsi e di farseli passare, ma poiché si ripresentavano implacabilmente, si decise a considerarli come espressione del proprio controtransfert. Allora, dopo avere a lungo rimuginato, intervenne nel dialogo, chiedendo alla paziente se, per caso, durante la seduta, non si sentisse piuttosto lontana o addirittura isolata da lui. In altri termini, l’analista partì dall’ipotesi che l’esperienza di non coinvolgimento che stava facendo provenisse da un elemento inconscio che coinvolgeva entrambi, sia l’analista, sia la paziente. La donna riferì che, in effetti, aveva la sensazione di balbettare soltanto cose di scarso interesse. Non si aspettava di poter minimamente coinvolgere l’attenzione dell’analista e questo la faceva sentire sempre meno sicura di se stessa, cioè rifiutata e senza valore. Il seguito del lavoro portò alla luce un intenso bisogno di rispecchiamento, di essere messa al centro dell’attenzione e ammirata dal proprio analista: un bisogno che aveva un’enorme paura di esprimere [9].
Quello che ho riferito è un esempio di controtransfert complementare, perché l’analista, distaccandosi emotivamente dalla paziente, impersonava il genitore assente del suo passato.
L’ultimo argomento che vorrei appena sfiorare riguarda l’interpretazione dei sogni. Per Freud ogni sogno costituiva l’appagamento camuffato di uno o più desideri, in base all’idea che il motore dell’apparato psichico fosse il principio del piacere. Secondo la sua opinione, il testo del sogno, così come ci appare, è totalmente eufemistico. Come in laboratorio si frammentano i tessuti e le cellule per fare le analisi biochimiche, così Freud procedeva frammentando i sogni e trattando ogni frammento con il metodo delle associazioni verbali [10]. Si ricavavano tante tessere di mosaico che, abilmente ricongiunte, avrebbero dato luogo al contenuto latente del sogno, cioè quello che l’inconscio avrebbe voluto dire, se la censura onirica non glielo avesse impedito. Jung non era assolutamente d’accordo con questo modo di procedere e riteneva che il sogno andasse preso molto sul serio così come appare. L’oscurità del sogno dipendeva, secondo Jung, dal fatto che la psiche, sognando, esprime i propri significati in maniera simbolica, o meglio letteralizza i simboli, come le fiabe, i miti e l’espressione artistica in generale [11]. Ho già detto che io vedo il limite di Jung nell’idealizzazione della psiche inconscia: in questo senso egli cercava “troppo significato” nei so-gni e non era abbastanza laico e disincantato. Personalmente, io adesso tendo a considerare i sogni come una messa a fuoco che la psiche fa delle proprie paure, cioè di quello che tende a minacciare l’integrità del sé. Raccontando le proprie paure, la psiche sopravvive meglio, le ingloba a far parte di se stessa.
Come esempio, ho scelto il sogno di una paziente che era venuta in analisi con un unico sintomo, un’intensa fobia delle farfalle. Il sogno si è manifestato dopo un periodo abbastanza prolungato di lavoro analitico.
Entro, in cerca di un libro, nella casa di una ragazza giovane, bella e mora. Mi fa entrare, ma non resta con me. M’invita a cercare il libro da sola, perché lei deve seguire un suo impulso di felicità. La casa è vicina al mare. Si vedono le onde impetuose e lei ha voglia di tuffarsi. Esce, vestita di un sari color smeraldo e io non provo nessuna apprensione per lei (il mare, anche mosso, non mi ha mai fatto paura). Smetto di cercare il libro e indosso un abito della ragazza, un altro abito orientaleggiante, una tunica color ocra. Improvvisamente lo scenario è cambiato e mi trovo con quell’abito nel mio paese natale, seduta su dei gradini a guardare la gente che passa. Passa mio padre, vestito elegante. Quando mi vede resta sorpreso, poi con un sorriso di scherno si avvicina e mi fa l’elemosina. Il senso d’umiliazione è tremendo.
Nel sogno, la paziente va a trovare un doppio di se stessa, che personifica lo slancio vitale, nella forma di un impulso spensierato verso la felicità. Come si capisce anche dai colori sgargianti degli abiti (verrebbe da dire delle ali), questa è la famosa farfalla, oggetto di fobia, e il sogno ci spiega perché essa fosse così temuta: la paziente ha una grande paura, impersonando la se stessa farfalla, di essere giudicata con disprezzo dal padre. Ha paura che cedere al lato solare e vitale di sé potrebbe significare l’irresponsabilità che ci fa andare incontro ad una brutta fine. Voglio aggiungere un particolare biografico che renderà più convincente il tutto. La madre della ragazza, una donna disturbata e instabile, aveva reso difficile la vita a tutti, in famiglia, compreso il marito, il quale aveva trovato la propria consolazione nel rapporto con la figlia. Fino da bambina, la paziente, manifestando un eccesso di responsabilità, aveva assunto l’impegno tacito di non diventare mai come la madre, allo scopo di fornire al padre e se stessa quella che a lei era sembrata una indispensabile rassicurazione affettiva.
A questo punto, vorrei far notare come negli episodi di controtransfert, nei sintomi e nei sogni, cioè in generale in tutte le manifestazioni dell’inconscio, la psicoanalisi più aggiornata tenda a leggere l’esistenza di personalità parziali: tanti sé in lotta fra loro e non più, come sperava Freud (motivato dal proprio bisogno di onnipotenza scientifica), pulsioni, difese e meccanismi mentali governati da grandi leggi psicologiche, sulla falsariga della fisica del suo tempo. Curiosamente, questo ci riporta più vicini agli ipnotisti dell’Ottocento e ai mesmerismi del Settecento. Di nuovo pare che la chiave del disturbo psicologico sia da identificarsi in una perdita del senso di unità interiore. Sembra che spesso diverse anime si contendano il campo o che nei sintomi, nei transfert, nei controtransfert e nei sogni si manifestino degli spiriti, o meglio dei Sé che hanno bisogno di essere integrati, cioè riconosciuti come altri aspetti di noi stessi, della nostra individualità.
Questo complicato sviluppo della psicologia dinamica vuol forse dire che cominciamo ad avere meno paura del Sé diviso, cioè dell’anima divisa, e non sentiamo più il bisogno di esorcizzarla, suggestionarla o imporle un principio di realtà ad essa esterno ed estraneo. Abbiamo meno paura di scoprire degli estranei in casa nostra o forse siamo adesso in grado di comprendere che quegli estranei siamo noi stessi: diversi gradi di sviluppo, cui corrispondono diverse modalità di organizzazione dell’esperienza, che coesistono non ancora perfettamente integrate fra loro.
Forse la guarigione psicologica dei singoli aprirà la strada ad un’evoluzione psicologica dell’essere umano, di cui si sente un urgente bisogno, rendendolo meno sospettoso verso l’altro da sé, meno spaventato e persecutorio, ed arricchendolo finalmente della capacità di coesistere con i propri simili e anche, si spera, con l’ambiente naturale che sostiene la sua vita.
Di Alberto Lorenzini
NOTE:
[1] Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondatori.
[2] Henri F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, Boringhieri.
[3] Vedi Robert D. Stolorow e Gorge E. Atwood, I contesti dell’essere. Le basi intersoggettive della vita psichica. Bollati Boringhieri 1995, pp. 110-12.
[4] Heinz Kohut, Introspezione, empatia e psicoanalisi: indagine sul rapporto tra modalità di osservazione e teoria, in La ricerca del Sé, Boringhieri 1982.
[5] Luigi Ruggiero, Nevrosi e salute psichica. L’ossessività e la psicologia del Sé. Lombardo editore in Roma, 1996.
[6] Robert D. Stolorow, Bernard Brandchaft, George E. Atwood, Psychoanalitytic Treatment: an Intersubjective Approach, The Analytic Press, London 1987.
[7] Heinrich Racker, Studi sulla tecnica psicoanalitica. Transfert e controtransfert. Armando Armando Editore, Roma 1970, pp.181-183.
[8] Raccomando: Jeffrey Seinfeld, L’oggetto cattivo, Casa Editrice Astrolabio 1995. Chi, negli ultimi anni, ha dimostrato una straordinaria originalità nell’uso terapeutico del controtransfert è Thomas Ogden: Identificazione proiettiva e tecnica psicoterapeutica, Casa Editrice Astrolabio, 1994 e Reverie e interpretazione, Casa Editrice Astrolabio, 1999.
[9] Mario Jacoby, Individuation & Narcissism. The Psychology of Self in Jung & Kohut, Routledge, London, 1990.
[10] “La vita mentale soggettiva di un’altra persona è qualcosa di assai diverso da quanto si potrebbe supporre osservando il suo comportamento. Nel trattamento analitico, se l’analista vuol cercare di capire la vita mentale soggettiva, individuale, del suo paziente può farlo soltanto mediante l’empatia e non osservando, dall’esterno, il comportamento verbale del paziente sul lettino.” Luigi Ruggiero, op. cit., p. 72.
[11] Per quanto riguarda l’interpretazione simbolica dei sogni, vedi: Alberto Lorenzini, Lo zen e l’arte dell’interpretazione dei sogni, Edizioni Mediterranee, 1997.