Dedicato alla memoria di Oreste Borrello
Prima e dopo del femminismo
Cresciuto in Calabria, ho fatto esperienza come ogni ragazzo dell’amicizia e cameratismo fra maschi, della competizione e la cattiveria all’asilo e a scuola, ma anche del calore e del senso di comunanza che fu più tardi incanalato nel movimento studentesco e nella rivolta sociale e politica degli anni settanta, con le manifestazioni in piazza, gli scontri con la polizia, spronati da sentimenti irrimandabili, generosi e a volte confusi.
La psicologia ha spesso trattato con sufficienza il senso di fratellanza fra giovani maschi, e nel descriverla ha usato termini condiscendenti o derogatori quali riti di passaggio, pressione dei coetanei, condotta da branco (gang behaviour). Termine più adatto è invece Gemeinschaftsgefühl, l’espressione di Adler tradotta come sentimento comunitario o interesse sociale. Adler non si riferiva specificamente ai ragazzi ma alla tendenza generale degli esseri umani di superare tendenze egoiste primitive e trovare un soddisfacimento più autentico nella collaborazione e nella solidarietà. In tale contesto azioni descritte come gang behaviour possono essere interpretate invece come malaccorte e confuse aspirazioni al coraggio, alla lealtà e al valore.
L’arrivo del femminismo – nel sud Italia come in altre parti del mondo – fu per alcuni di noi uno shock e la rivalità fra maschi subì un cambiamento, dalle smargiassate al voler sembrare più sensibile e persino più femminile. Alcuni di noi cominciarono a usare la matita per gli occhi e a un livello più profondo ciò significava che molti fra i maschi della mia generazione cominciarono a sentirsi a disagio con il fatto stesso di essere maschi e alcuni si sentivano in colpa per rappresentare in qualche modo l’oppressore e cominciarono deliberatamente ad ammorbidire la propria maschilità: d’un tratto, essere un uomo non era più OK.
L’incoraggiamento di un mentore
Un certo conforto giunse per me da luoghi inaspettati, nel mio caso dal preside del liceo: quando un giorno si rifiutò di darci l’aula magna per un’assemblea, lo avvertii che ce ne saremmo appropriati, e seduta stante uscii dalla sua stanza e ruppi la porta dell’aula per entrare. Lui passò dopo qualche minuto, vide la porta, sorrise maliziosamente e disse: “Ritorna questo pomeriggio e riparala”. Gli insegnanti erano infuriati con lui per tale clemenza e chiesero la mia sospensione e perfino l’espulsione. Ma il preside era un persona insolita, e solo molti anni dopo arrivai ad apprezzare i suoi scritti sull’esistenzialismo, su Sartre, sul Manzoni; le sue pagine su Husserl e Genet mi hanno ispirato e le sue intuizioni mi hanno guidato (1). Ma già allora sentii nel mio cuore di diciassettenne la sua saggezza e il suo rispetto verso di me, nonostante il fatto che non condividesse le mie idee.
Mi sono ricordato di lui nel bel mezzo di una sessione con un cliente diciannovenne che mi aveva parlato delle sue difficoltà, del fatto che non riusciva ad adattarsi o andare d’accordo con i suoi insegnanti e i suoi coetanei. La figura di un padre freddo e distante emerse dal suo racconto e l’assenza di un uomo adulto in grado di riconoscere la sua intelligenza, di incoraggiarlo a fidarsi del proprio intuito e senso di direzione. Mi sono ricordato del vecchio preside Borrello, di quanto importante fosse diventato per me al tempo il suo incoraggiamento. Non mi fece mai la paternale ogni volta che venivo mandato nel suo ufficio da qualche insegnante desideroso di vedermi punito, ma invece discuteva con me, esaminando e dubitando della mia ingenuità politica e tuttavia mostrando di apprezzarmi. Nel mezzo del caos e la confusione dei miei ultimi anni di teen-ager, trovai questa sua forma di incoraggiamento inestimabile.
Maledicimi, benedicimi
Per parlare a un uomo a volte ci vuole un uomo, ed in casi fortunati è il proprio padre a coprire brevemente il ruolo di mentore. Le sue parole non saranno politically correct, ma persino dure o di sfida. Le parole di un padre possono dare chiarezza spirituale invece che conforto e consolazione. Il padre o il mentore forse rimprovera, ma ci conduce, come dice Rumi, all’aperto. Qualcosa viene comunicato che è distintamente maschile, un tipo di energia che sta tristemente svanendo alla nostra cultura, una qualità in contrasto con il mondo della psicoterapia contemporanea. Ciò che viene espresso in tale scambio singolare fra uomini è vario e complesso, e difficile da descrivere. Ha a che fare con la capacità di recupero, con la fiera volontà di ingaggiare le sfide dell’esistenza, con il dire no alla rassegnazione, con il rifiuto, come scrive Dylan Thomas, di “andarsene docile in quella buona notte”:
E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
Benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce (2)
Il senso di fratellanza fra maschi è cruciale nel placare l’ansia esistenziale di non sapere cosa significhi in primo luogo essere un uomo. Non posso davvero dire di sapere cosa ciò significhi, e non credo di adempire ai criteri sociali di che cosa debba piacere all’uomo medio modello: non vado matto per il calcio, non capisco il rugby, sbronzarmi ogni weekend con della birretta tiepida mi sembra una stronzata, non conosco a memoria le parole di nessun inno nazionale, non credo che andare in guerra equivalga a “fare il proprio dovere”, non m’importa una sega dei Led Zep, di Oasis e dei Manics, non compro riviste per soli uomini, non uso il dopobarba degli spot televisivi, non sogno di fare il pendolare nella City finanziaria con un vestito a righettine da mafiosetto. Infine, non mi riesce di capire il sex appeal di Nicole Kidman.
L’evirazione dei maschi nella psicoterapia contemporanea
Credo che il primo cambiamento sismico culturale degli anni settanta sia stato cruciale e che gli effetti si facciano sentire ancora; le circostanze sono molto diverse adesso, ma tutt’oggi incontro uomini che si sentono contriti e quasi pentiti di essere uomini. Ciò mi è apparso con chiarezza nel bel mezzo del mio training intensivo di counsellor e psicoterapeuta rogersiano. All’inizio pensavo che il problema fosse da attribuire a questo particolare orientamento terapeutico, un approccio discutibilmente femminizzato dove la ricettività e la non-direttività, l’empatia e l’attitudine positiva incondizionata – l’intera gamma dell’archetipo materno – vengono fortemente sottolineati e spesso interpretati unilateralmente, un orientamento che sembra trasudare ingenuità e blanda semplicità (tali erano a ogni modo i miei pensieri durante quei primi difficili mesi di pratica). Potrò mai assentire graziosamente, mi dicevo, e far finta che tutto vada per il meglio quando la mia esperienza (e una lunga, forse insalubre dieta di testi dell’esistenzialismo) mi insegna invece l’inevitabilità del conflitto? Anni dopo, mi trovo a valutare l’apparente ingenuità dell’approccio in una luce positiva, come l’esito auspicabile di anni di studio e pratica, come l’ingenuità di un artista stagionato che può permettersi di accantonare tecniche e trucchi del mestiere e affrontare direttamente l’imprevedibilità dell’incontro. Non vedo più le modalità dell’approccio centrato sulla persona e di quello esistenziale come il minimalismo clinico di chi ha optato per un percorso facile e una professione senza grattacapi, ma come l’aspirazione di essere se stessi nell’incontro. Ho imparato che ci vuole un bel po’ di coraggio per esprimere quell’altro ingrediente essenziale di tale approccio: la congruenza.
Eppure la sensazione fastidiosa che la mascolinità non sia del tutto accettata nell’ambiente psicoterapeutico attuale non mi ha abbandonato. Proverò a spiegare il perché. L’indipendenza fu un elemento cruciale nel rispondere alle sfide poste dall’esser cresciuto nel sud Italia. Giusto o sbagliato che sia, identifico tale aspetto con l’essere un uomo. È una caratteristica del sé che non sembra bene accolta nel mondo della terapia contemporanea, e non credo sia colpa di qualcuno in particolare, ma riflette una tendenza generale: nel clima corrente, l’indipendenza e lo spirito di autonomia vengono sminuiti, i loro attributi soggetti a descrizioni caricaturali e la loro qualità fiera e dignitosa fraintesa come rigidità. Forse l’indipendenza ha bisogno d’essere sminuita nel Regno Unito, una nazione che ha fatto del distacco emozionale un feticcio, e che oggi viene ancor più percepita dalla maggior parte dell’opinione pubblica estera, dopo le sventure della guerra in Iraq, come aggressiva e militarista. Per me invece, come terapeuta maschio, lo spirito d’autonomia e di solitudine non è solo auspicabile ma del tutto essenziale. Sono giunto a tale insight in modo casuale, attraverso l’esperienza e gli errori ma l’ho trovato indispensabile, e tale qualità è intimamente connessa alla mascolinità. A volte sembrerebbe che oltre a non essere in grado di fornire una risposta adeguata all’evirazione degli uomini nella società, la psicoterapia contemporanea di fatto appoggia tale tendenza. Ho discusso con diversi colleghi e lavorato con diversi clienti che provano vergogna di essere uomini. Perché? Secondo il dizionario, evirare vuol dire rendere più debole e meno effettivo; privare un uomo del suo ruolo e della sua identità. Lungi dal voler lodare il dominio, l’autorità e il patriarcato, mi sforzo di capire questo strano sentimento che mi alberga in petto; come se essere un terapeuta e un uomo nella nostra cultura sia una contraddizione. Come se chiedessi al mondo: posso essere un uomo, pienamente, senza pretesti, e continuare ad essere uno psicoterapeuta? Robert Bly ha affrontato un tema simile quando scrisse all’inizio degli anni novanta sugli effetti rovinosi che le dubbie interpretazioni della psicoterapia cominciavano ad avere nella cultura occidentale. Se s’andava a chiedere ad un “uomo nuovo” cosa volesse fare, rispondeva “Aspetta un attimo, chiedo alla mia ragazza”.
Un altro modo di essere?
Sono stato coinvolto con il movimento maschile mito-poetico degli anni novanta, ispirato dalle idee di Robert Bly e James Hillman, e una delle cose che ho imparato è un senso distintamente maschile di celebrare l’intimità, il silenzio e l’interazione; ho imparato che c’è spazio sia per la tenerezza che per la risolutezza, che c’è tempo per la riflessione silenziosa, per un viaggio nella solitudine e la comunione con la natura così come per il cameratismo, la cura, il canto, la poesia e la condivisione di racconti privati e comuni. Ciò significa anche che gli uomini non hanno bisogno di andare in guerra per accedere a tali dimensioni profonde. Possiamo fare esperienza del sentimento comunitario di cui parlava Adler senza dover sacrificare la nostra vita per gli interessi del capitale e dei nostri leader avidi e corrotti.
Ho trovato sconcertanti alcune reazioni della terapia contemporanea al movimento mito-poetico maschile degli anni novanta. Terapeuti maschi del tutto competenti e stimati cadono a faccia in giù allorché si cimentano con la spinosa “questione maschile” e si fanno beffe dei ritiri e dei raduni del movimento mito-poetico come un ritorno alla foresta di Tarzan.
Paura di pensare
In parte influenzata dall’anti-intellettualismo degli anni sessanta, la psicoterapia umanistica ha trascurato la teoria a favore dell’esperienza, vedendo la prima come sfera del patriarcato. Ciò si è adesso trasformato in terrore della teoria, ed è un peccato se si considera che la teoria e il pensiero sono non solo essenziali a un lavoro terapeutico basato sulla pratica ma costituiscono al tempo stesso, per dirla con Brecht, un vero piacere sensuale. Pensare non è comunque dominio esclusivo dei maschi, ma l’ho sentito spesso venire descritto come modo tipicamente maschile di fuggire dall’esperienza. Il pregiudizio corrente della psicoterapia a favore della sfera esperienziale, percepita come più orizzontale, ricettiva e positivamente resistente al dominio delle grandi teorie, è un diniego ed un’evasione dalle complessità e le soddisfazioni del pensare, un rifiuto di accettare il fatto che molta psicoterapia è radicata nella filosofia. Tale pregiudizio nel contempo non rende piena giustizia all’esperienza: esperienza non è meramente tutto ciò che è al di fuori della teoria ma invece esteriorità il cui impatto modifica il soggetto nell’incontro con gli altri.
Trascurare la mia specificità di uomo vuol dire abbandonare il mio ruolo di terapeuta e la mia dignità di essere umano e svendere la mia particolarità storica, economica, sessuale e di genere alla manipolazione dell’autorità politica e alle banalità di una spiritualità pavida e asessuata. È attraverso la specificità del genere che la formula di Buber Io e Tu ha significato e si radica nella realtà. Senza la definizione cosciente del genere, l’Io e il Tu è un’altro cliché spirituale, un’altro innocuo luogo comune, un altro esempio di religiosa banalità. È solo tramite l’affermazione coraggiosa del genere e il riconoscimento della diversità che si può riportare la cosiddetta spiritualità alla realtà quotidiana. Senza l’incontro orizzontale, senza l’accettazione comune della diversità non vi è incontro con un altro. Perché tale incontro abbia luogo, noi uomini dobbiamo prima essere in grado di sentire ed esprimere senza vergogna o disagio la bellezza, grazia e forza inerenti nell’esser maschi, e non esser più disposti a tollerare la derisione della mascolinità nel mondo della terapia come nella società.
(1) Oreste Borrello La Psicanalisi esistenziale e il problema dell’arte in J. P. Sartre. Aspetti dell’estetica odierna . Napoli, 1962. Ho discusso in parte l’opera di Borrello nel mio libro recente, Chi ama lo straniero, Ipoc, Milano, 2011.
(2) D. Thomas Poesie e Racconti Einaudi 1996
Manu Bazzano è docente di psicoterapia esistenziale e rogersiana alla New School of Psychotherapy and Counselling e alla Thames Valley University di Londra. Counsellor e psicoterapeuta, facilita gruppi di meditazione Zen. Fra i suoi libri: Zen Poems, Buddha è morto, Haiku for Lovers, La velocità degli angeli.