Per Setting si intende uno spazio fisico e mentale all’interno del quale si attua una relazione terapeutica.
Per spazio fisico si intende il luogo in cui questa particolare relazione si svolge: per esempio lo studio dell’analista è uno spazio è molto rigido: la collocazione dell’arredo è passibile solo di lievi modifiche, comunicate con anticipo al paziente. Questo setting è molto rigido anche nei tempi: la seduta è in un giorno o in giorni della settimana prestabiliti e ad ore prestabilite. Il paziente che non si reca alla seduta la paga comunque (l’analista dovrebbe fare la seduta con il paziente assente).
Il richiamo al setting analitico evidenzia quanto una psicoterapia del “profondo”, dell’”anima”, si strutturi anche su misure “normative”: la seduta finisce sempre all’ora stabilita anche se il paziente perde l’autobus e giunge in forte ritardo. Alcuni aspetti del setting spazio fisico di questa psicoterapia possono anche apparire eccessivi o forse un po’ autoritari, ma la loro trasgressione da parte del paziente o dell’analista diventa – in presenza di un serio professionista – argomento di riflessione (è necessaria una supervisione quando gli agiti sono da parte del terapeuta) e contatto con “preziosi” contenuti mentali, che altrimenti sarebbero rimasti inesplorati. Rinunciare a presidiare questo spazio significa inficiare la qualità della terapia stessa.
Non è possibile fare analisi al bar e occasionalmente, magari si aiuta la persona a stare momentaneamente sollevata ma non si fa un’analisi.
Spazio fisico e spazio mentale
Il dominio del setting come spazio fisico è la premessa per il setting spazio mentale; se non si ha consapevolezza del primo non può esserci la comprensione del secondo.
L’attenersi scrupolosamente alle norme del setting non è però sufficiente e può anche significare , nel caso in cui lo spazio fisico non sia in relazione allo spazio mentale (perché faccio/sento questo, perché fa/sente questo), uno sterile esercizio del potere che, se accompagnato da piacere, può deragliare nel sadismo.
In comunità non è pensabile fare analisi perchè non è possibile creare un setting separato all’interno di un altro. Pensare di farlo significa ignorare il fatto che si è già immersi in un setting in quanto ogni tipo di terapia ha un suo proprio setting: la consapevolezza dei confini della propria area di intervento limita quella fantasia di onnipotenza che probabilmente appartiene a coloro che svolgono professioni rivolte all’aiuto della sofferenza dell’altro, ma d’altra parte obbligano il terapeuta a presidiare quegli stessi confini.
Questo oggi si delinea come spartiacque tra improvvisazione e metodo.
Comunità terapeutica e setting
La comunità stessa, come ogni luogo dove più figure professionali intervengono sul paziente, è essenzialmente un setting: è il luogo in cui si sviluppa un processo di cura, cioè una psicoterapia: quale che sia l’orientamento, comportamentale, cognitivo, psicodinamico od altro ancora, di psicoterapia si tratta, a condizione che vengano mantenute le premesse precedentemente ricordate.
È un luogo ed un tempo in cui nascono e si sviluppano relazioni particolari che hanno come obiettivo la cura di persone.
Fanno parte di questo spazio il luogo fisico e le persone che ci lavorano seppur a diverso titolo: dagli psichiatri agli infermieri, dal direttore agli operatori notturni.
Se non si ha chiaro questo non si può fare parte degli elementi terapeutici, significa rifiutare in qualche modo il proprio ruolo, come se l’operatore si identificasse con il paziente in quanto individuo bisognoso di essere in prima persona curato da quel contesto. Tale spostamento di ruolo è originato dalla “gelosia” verso la possibilità che ha il paziente di ricevere amore e di poter esprimere rabbia in un contenitore sufficientemente sicuro.
L’organizzazione della vita quotidiana nella comunità è equiparabile alla cadenza delle sedute e al rispetto dell’orario e degli accordi presi nel setting psicanalitico.
Così come non è piacevole per un analista far pagare il paziente che salta la seduta per un imprevisto, nella stessa misura non è facile presidiare le regole della casa, quelle piccole regole concernenti il rispetto degli orari, mettersi i guanti quando si è in cucina, non fumare in camera e tutte quelle piccole norme che regolano la vita della casa. Certo è molto più facile intervenire su una grave trasgressione perché il biasimo verso la stessa ci sostiene nell’intervento, ma la terapia vera si fa con i piccoli interventi, quando è possibile lavorare sulla trasgressione per innescare un processo di conoscenza di ciò che è stato agito.
Questa è la parte del lavoro più difficile, per diversi motivi.
Vorrei continuare ad avvalermi del paragone con l’analisi. Freud per primo impose allo psicanalista il vincolo dell’astinenza, il divieto cioè di avere rapporti non solo sessuali, ma anche confidenziali con il paziente: si dà del lei, non si danno notizie della propria vita, non si diventa amici del paziente. In comunità è leggermente diverso, ma la perdita dell’”astinenza” terapeutica (che significa provare certamente anche affetto e amicizia per il paziente, ma astenendosi dal mostrarlo direttamente, conservandolo dentro di sè) apre problemi di difficile soluzione: come posso essere amico di un utente se poi lo devo riprendere perché scende al lavoro con ritardo o si è fumato una sigaretta in camera perché era nervoso? E’ più semplice astenersi dal fargli rilevare l’infrazione oppure costa meno allentare la mia amicizia nei suoi confronti in quanto con quei comportamenti il paziente ha “tradito” l’amicizia offerta. Non è neppure pensabile un atteggiamento diametralmente opposto, cioè quello di mantenersi ad una distanza di “sicurezza” dal paziente, tanto da non rischiare di provare affetti per lui. In questo caso si rischierebbe di diventare controllori di una metodologia e non gli strumenti terapeutici previsti dalla stessa.
E’ possibile mantenere la propria funzione di strumento terapeutico se riusciamo a provare affetti astenendoci dall’ azzerare la distanza tra noi e il paziente. Solo a questa condizione è possibile intervenire in una relazione non “naturale” in cui un adulto educa un altro adulto, una relazione “come se” uno fosse l’adulto e l’altro il bambino o l’adolescente. Questa relazione “inventata” in cui uno gioca a fare il bambino e l’altro il genitore è possibile se chi fa il genitore, per ricoprirne il ruolo, si astiene da essere, in quello spazio, completamente se stesso, mettendo in secondo piano i propri bisogni affettivi e relazionali. Se la relazione è concretizzata in scambio paritario di affetti non è possibile ricoprire ruoli “come se”.
Un altro aspetto a cui è necessario rivolgere massima attenzione è il ricordare che è la comunità e non il singolo, che fa la terapia. Dimenticare questo significa introdurre un setting parallelo a quello comunitario, una triangolazione del paziente pericolosa e disfunzionale. Risulta pertanto determinante per la funzione terapeutica della struttura che le varie figure professionali siano a stretto contatto tra di loro.
Setting come spazio mentale
Nella comunità spazio fisico “il genitore” interviene su diversi piani: a livello comportamentale (le regole da rispettare); cognitivo (aiutare a pensare e a trovare nuove soluzioni, anche valorizzando le risorse del gruppo); affettivo (accogliere la persona con il dolore di cui questi è portatore, anche valorizzando le risorse del gruppo). Pensando alla relazione madre bambino possiamo rappresentare l’immagine dello spazio mentale insito in ogni relazione terapeutica, offerto dalla comunità.
Nello spazio mentale essenzialmente la “madre” aiuta a pensare i pensieri che non possono essere pensati dal paziente.
Il termine “madre” in contrapposizione con quello di “genitore” è intenzionalmente usato per segnalare la differenza di livello comunicativo che si verifica in uno “spazio mentale” in cui la comunicazione (madre- bambino allattato) passa attraverso un piano prettamente sensoriale, anche se successivamente può, anzi deve, essere elaborato in pensiero.
Potranno essere di aiuto per la comprensione di quello che può accadere in una struttura come la nostra, il riferimento alla relazione madre – bambino descritta attraverso le parole di Winnicott.
Il bambino raggiunge la capacità di oggettivare l’ambiente attraverso la relazione con la madre.
Un bambino all’inizio della vita è dipendente in maniera assoluta dalla “madre”, dall’ambiente in cui si trova. La relazione è così stretta che non si può descrivere il bambino senza descrivere l’ambiente.
Ne consegue che anche il modo di essere dell’ambiente ha un (decisivo) significato, perchè tale ambiente è parte del bambino.
Lo stadio della dipendenza assoluta o quasi assoluta è tipico di un bambino all’inizio della sua vita, perché non ha ancora separato il non me da ciò che è me e non è ancora equipaggiato per svolgere questo compito. In altre parole, l’oggetto non è ancora percepito dal bambino come diverso dal sé in quanto è un oggetto soggettivo, non oggettivamente percepito: Odgen per illustrare la modalità in cui avviene questa relazione fa riferimento allo sviluppo di percezione sensoriale di piacere, precipua di una modalità che chiama “contiguo autistica”. esperienza in cui la contiguità di superfici altrimenti separate genera l’esperienza di un’unica superficie sensoriale:
“Dimenticatevi della sedia, percepite le natiche che premono contro il fondo della sedia. Ne risulterà una forma, se vi muovete la forma cambia. Nella modalità contiguo autistica non c’è né sedia né natiche ma solo una impressione sensoriale, una impressione morbida. Non è questione di una madre che conforta – è solo una tranquillizzante forma sensoriale.” (Tustin) (Ogden)
Anche i nostri pazienti hanno, quantomeno inizialmente, un contatto con la struttura di questo tipo, contatto che per lo staff passa attraverso la sincera disponibilità all’accoglienza verso l’altro, a provare simpatia più che empatia verso il paziente. Il primo contatto da parte della struttura segue una modalità sensoriale. non faccio riferimento all’ingresso del paziente nella struttura ma al contatto con noi, con la disponibilità con protezione e la seduzione delle nostre cure che formano ”l’esperienza dell’essere tenuti e cullati dalle braccia della madre, – madre concepita non come rappresentazione ma- come parola e canto”.(Odgen)
Credo sia necessario essere consapevoli che il nostro primo scambio con il paziente è uno scambio di questo tipo, uno scambio che avviene a livello sensoriale, che tende a promuovere una sorta di innamoramento del paziente verso l’esperienza terapeutica.
E’ interessante notare che, mentre esistono numerosissimi lavori sul controtransfert, non altrettanto avviene – con beneficio di inventario per l’ignoranza di che scrive – per quanto concerne l’attesa per il paziente che sta per venire in terapia. Non si tratta solo delle sedute preliminari e di un possibile percorso terapeutico, ma soprattutto di come ci immaginiamo il paziente. Insomma credo che non possa esserci empatia se prima non c’è stata sim- patia o anti – patia.
Credo che ognuno di noi dovrebbe monitorare accuratamente questi movimenti emotivi interni che appartengono in primo luogo a noi stessi: prima ancora del bambino c’è la madre che lo pensa. Il modo in cui pensa al bambino che non c’è, non è affatto ininfluente su come il bambino reale sarà.
Tornando al paragone iniziale mi preme ricordare che esiste una vasta letteratura sugli aspetti controtransferali, cioè su ciò che il terapeuta agisce inconsciamente nella relazione con il paziente sulla pressione di aspetti non risolti della propria personalità. Lo staff di comunità o di qualsiasi altro contesto in cui si eroga un servizio connotabile come relazione di aiuto, dovrebbe dedicare uno ampio spazio ad interrogarsi su quanto i comportamenti e i movimenti interiori dei propri operatori abbiano una diretta ricaduta sui comportamenti e sui movimenti interiori dei propri pazienti.
Lo sviluppo ha luogo perchè il bambino incontra il comportamento adattivo della madre o di un suo sostituto. Il paziente “guarisce”, o meglio ancora trova nuove modalità di relazione con se stesso, attraverso la relazione con il terapeuta.
Fin dalla nascita, – afferma Winnicott – un bambino assume del cibo. Diciamo che il bambino trova il seno, succhia e ingerisce una quantità sufficiente per la soddisfazione dell’istinto e per la crescita.
Questa cosa può verificarsi, sia che il bambino abbia un cervello funzionante, sia che il cervello del bambino sia invece difettoso e danneggiato.
A dodici settimane, comunque, i bambini ci possono dare informazioni da cui si può dedurre con sufficiente sicurezza che la comunicazione è un fatto. Si può dire che a dodici settimane essi sono in grado di giocare in questo modo: sistemato per l’allattamento al seno, il bambino guarda il volto della madre e la sua mano si solleva cosicché, nel gioco, il bambino nutre la madre mettendole un dito in bocca.
Da ciò io deduco che, nonostante tutti i bambini assumano il cibo, non esiste comunicazione tra il bambino e la madre se non si sviluppa una situazione di nutrimento reciproco.
Cosi siamo davvero testimoni di una mutualità che è l’inizio della comunicazione tra due persone destinata a diventare una “relazione d’oggettuale”.
Qualcosa di simile si verifica nel momento in cui un nostro paziente entra nella struttura:
Il primo impatto iniziale con la struttura: è generalmente un impatto buono, positivo, in cui emergono i sentimenti di gratitudine verso la struttura che accoglie e protegge, emerge il desiderio di stringere amicizie e soprattutto di esprimere gratitudine attraverso il conquistare la fiducia e le attenzioni degli operatori. Talvolta si riscontra anche l’atteggiamento opposto: viene mostrata cioè sfiducia verso la capacità della struttura di essere una “madre buona”, per timore del ripetersi traumatico di precedenti fallimenti.
Non è affatto scontato che il momento in cui un paziente si innamora dell’esperienza comunitaria coincida con l’ingresso nella struttura, quello che è certo è che si affascina – come un neonato si può affascinare- non dei cipressi o del panorama, ma della disponibilità a ripetere una volta ancora il gioco di lasciare che l’altro scopra quante cose buone ci sono in lui di cui lui stesso si era (quasi) dimenticato.
Accade così che persone con difficoltà comportamentali a vario livello cercano di mostrarsi molto rispettose di quell’ambiente (va da sé che il rispetto è misura arbitraria e non assoluta).
Cosa l’individuo vuole far vedere? In primo luogo se stesso, il proprio desiderio di fare bene, di risultare adeguato maturo e responsabile. Chi entra spontaneamente in comunità è infatti spinto di un senso di “responsabilità” dettata dalla consapevolezza, pensata o sperimentata, di non essere sufficiente a se stesso.
La situazione idilliaca non dura a lungo (ed è bene che sia così), dopo qualche tempo generalmente le cose iniziano a cambiare, nella persona, l’entusiasmo iniziale passa, cominciano la fatica, la frustrazione ed anche la disillusione.
Quell’ambiente materno inizia a diventare anche frustrante, non c’è più quella madre così calda ed intuitiva, ma c’è un genitore che vuole anche “svezzare” il bambino.
Qualunque cosa faccia , la madre non riuscirà ad annullare il fallimento iniziale nell’adattarsi ai bisogni dell’Io del suo bambino. Non siamo più in presenza di un setting mentale, dominato da una madre che procura una sensazione piacevole, ma da un genitore o più genitori che tralasciano di soddisfare le richieste istintuali del bambino, ma possono anche riuscire a non “abbandonarlo”, a provvedere ai bisogni del suo Io fino al momento in cui il bambino avrà introiettato al suo interno una madre sostegno dell’Io e avrà raggiunto l’età necessaria per mantenere tale introiezione.
Mentre il bambino non sente nessun obbligo verso la madre oggetto d’amore primario, prova invece un sentimento di obbligo, in seguito alla terapia effettuata dalla madre genitore.
La mancanza di questo passaggio significa confinare il bambino – paziente in un’ area di dipendenza, con dinamiche di scissione e proiezione in oggetti buoni amati e oggetti persecutori. Va da se che anche per i componenti dello staff questo passaggio non è né semplice né indolore.
Tra adulti ci si attende reciprocità, è spiacevole comandare ed imporre regole, può essere frustrante negare qualcosa che, fuori da quel contesto, non costituirebbe alcun problema dare, e per farlo occorrer ricordarsi che si è all’interno di un setting e ciò significa anche fare i conti con l’astinenza e la frustrazione. Si può anche pensare che alcuni psicoterapeuti fanno pagare le sedute mancate perché sono avidi di denaro, ma non è così semplice: il setting è un vincolo ed una risorsa, quando lavoriamo sul vincolo facciamo i conti con la nostra possibilità e disponibilità a confrontarci con gli aspetti aggressivi dell’altro.
Non dire ai pazienti di una comunità che devono rispettare l’ambiente dove vivono significa pensare che non sono capaci di prendersi cura di sé e rispettarsi, come un bambino che resta sporco se non lo lavo, perché non può imparare a lavarsi. Non invitare al rispetto dell’orario di lavoro significa pensare a quella persona come incapace di autonomia, come incapace di provvedere nel futuro a se stessa oppure in entrambi i casi significa pensare a se stessi come impotenti ad aiutare il paziente, supportandolo nel processo di un sviluppo che verrà demandato ad altri.
L’ insieme delle norme, delle regole che intervengono nella quotidianità della vita all’interno della struttura finiscono per diventare la trama di un pensiero nuovo. Ciò che prima era non controllo, sottomissione verso stati interni, incapacità di mantenere decisioni e combattere pulsioni, cede il posto ad una modalità nuova di comportamento.
Tale comportamento è qualcosa che contiene e che garantisce una sicurezza altrimenti assente.
Non è tanto la “scienza” delle figure professionali, medici psichiatri e psicologi, e neppure la disponibilità e la presenza di operatori a rendere la struttura un luogo accettabilmente sicuro ma è piuttosto la presenza di ritmi regolati da norme anche noiose. Tale “cornice” costituisce anche un perimetro, più o meno flessibile da cui staff e utenti sono delimitati e con cui si trovano inevitabilmente a scontrarsi.
Il sintomo è una comunicazione, attraverso il comportamento sintomatico l’utente comunica le proprie difficoltà alla struttura, agendo il tentativo di annullare la comunità, di farla somigliare alla piazza in modo da ricreare la gerarchia e il clima, dove l’asimmetria significa potere e prestigio, è il continuare a vivere secondo modalità note -rassicuranti- rispetto al rischi di cambiamento. Così come ha comunicato inizialmente la gratitudine e il senso di benessere nel momento in cui è stato accolto, adesso comunica il proprio disagio.
La cornice della struttura, il setting è lo strumento più efficace per intervenire, né in modo aggressivo né disimpegnato, sui comportamenti sintomatici dei nostri pazienti.
Daniele Mannini
E-mail: danielemannini@fastwebnet.it
Bibliografia:
Odgen, Identificazione proiettiva e psicoterapia, (Astrolabio).
Odgen, Il limite primigenio dell’esperienza, (Astrolabio).
Winnicott, Il bambino deprivato, (Armando).
Winnicott, Esplorazioni psicoanalitiche, (Armando).
Winnicott, Dalla pediatria alla psicoanalisi, (Martinelli).