Romina Domanico

Psicologa Psicoterpeuta, Psicologia dell’Infanzia e della Adolescenza, Play Therapy, Psicologia della Famiglia.

e-mail: domanico.romina@gmail.com

Portare la nostra parte di notte
la nostra parte di aurora
riempire il nostro spazio di felicità,
il nostro spazio di risentimento.

Qui una stella, e là una stella,
alcuni si perdono!
Qui una nebbia, e là una nebbia,
infine il giorno!

Emily Dickinson

L’abuso sessuale e il maltrattamento grave a danno dei minori sono fenomeni divenuti ormai oggetto di studio clinico per la devastanti conseguenze sullo sviluppo della personalità in crescita. La ricostruzione di esperienze infantili traumatiche a sfondo sessuale, emerse durante i percorsi terapeutici di adulti trattati per disturbi di personalità o gravi disordini affettivi, ha rafforzato l’evidente consistenza degli attacchi subiti dalla natura del Sé, con la compromissione dei processi cognitivi, delle relazioni affettive interpersonali sia verso altri adulti, quando è in gioco la scelta inconscia del partner, sia verso i bambini una volta assunta la funzione genitoriale.

Si è quindi compresa la necessità di intervenire per limitare i danni conseguenti a tali esperienze e si sono incrementate negli ultimi anni le iniziative di sensibilizzazione e prevenzione in base alla speranza che la precoce e tempestiva individualizzazione dei casi o di situazioni specifiche possa permettere agli operatori e agli specialisti interventi di protezione e terapia più articolati.

Potrebbe non essere così utopistico pensare che, grazie all’individuazione e presa in carico precoci, si possano limitare a casi particolari scelte quali la rescissione definitiva dei legami affettivi originari, come avviene qualora sia l’adozione a essere prescelta come intervento residuale, ma anche aperto alla speranza per il futuro del bambino.

Peraltro, il campo dell’adozione è da più tempo oggetto di studio clinico e di ricerca, permettendo di far riferimento a conoscenze abbastanza approfondite sulle dinamiche relative all’accoglienza e alla relazione con un figlio nato da altri. Problematiche quali l’elaborazione della sterilità, la rinuncia al figlio biologico e l’accettazione dell’altro da sé sono strettamente connesse con la percezione della diversità del bambino, anche in funzione della tipologia di eventi più o meno traumatici che hanno caratterizzato la storia precedente all’adozione.

Occorre allora incrementare studio e approfondimenti su quelle situazioni in cui abuso e/o maltrattamento si intrecciano con la scelta adottiva, affinché l’intervento degli operatori possa essere condotto con molta attenzione a procedure, metodologie, scelta dei tempi per le ricadute significative sul risultato finale. Dove per risultato finale non si intende tanto la riuscita o meno dell’adozione a lungo termine (anche se sarebbe utile istituzionalizzare dei follow up), quanto la possibilità di avviare una nuova relazione, indicatore e prova che si può ancora sperare nel futuro attraverso un nuovo investimento affettivo.

Qualora sia stata l’adozione la scelta individuata per il bene del minore, risulta molto importante dedicare tempo e cura al modo in cui genitori adottivi e bambino vengono scelti e abbinati tra loro, alla reciproca informazione e preparazione sulla nuova realtà, oltre che al sostegno prolungato nel tempo delle prevedibili difficoltà e messe alla prova. Curare questi passaggi può garantire che la nuova relazione cambi veramente il futuro del minore, donandogli ragionevoli speranze di potercela fare, grazie all’aiuto di qualcuno che ha scelto di dedicarglisi.

Il seguente contributo fa riferimento alla mia esperienza di psicologa e psicoterapeuta , impegnata nella clinica infantile. Riporterò alcune riflessioni scaturite da quattro casi clinici da me seguiti con supervisione, cercando di evidenziare i meccanismi psicologici ricorrenti nella coppia adottiva e nel bambino che si presenta sulla scena adottiva con un trauma così specifico, rendendo nel tempo ancora più complessa la dinamica familiare e l’adattamento al contesto adottivo. Infatti, ai movimenti dinamici legati alla perdita dei legami originari, si assommano le specificità dell’esperienza sessuale distorta, da tempo studiata in letteratura. Nei tre casi di adozione nazionale (tutte femmine, di 12, 6, e 3 anni e mezzo al momento dell’adozione), l’abuso sessuale era stato perpetrato da uno o da entrambi i genitori, mentre in due casi di adozione internazionale (tutti maschi di 8 e 4 anni al momento dell’adozione), da compagni di istituto non meglio identificati nel primo caso e dal padre nel secondo.

L’abbinamento adottivo, stabilito dal TM, era stato deciso con coppie precedentemente selezionate nella struttura consultoriale dove svolgevo il mio tirocinio, ed i casi sono stati seguiti durante e ben oltre l’affido preadottivo, sia attraverso sedute individuali con i minori , sia attraverso un supporto ai genitori adottivi.

Le riflessioni maturate scaturiscono, quindi, dal lavoro psicologico e psicoterapeutico svolto sui due versanti, evidenziando una comune peculiarità: entrambi i protagonisti del processo adottivo sono chiamati a “riparare” qualcosa dentro di sé:

  • Per il bambino è l’immagine di sé danneggiata dall’attacco sessuale, oltre che dalla perdita degli affetti originari;
  • Per i genitori è l’immagine di sé legata al vuoto procreativo e al potersi legittimare come genitore di un bambino così danneggiato e sofferente.

In questa prospettiva, la scelta adottiva può rappresentare veramente una buona riparazione della propria incapacità procreativa: “Un bisogno imperioso di rendere felici le persone unito a un forte sentimento di responsabilità e interesse nei loro riguardi” (Klein & Riviere, 1969). Ciò diventa verosimile a patto di non essere lasciati soli (genitori e bambino) ma accompagnati in un contesto di sostegno psicologico nel lungo percorso dell’anno di affido preadottivo e ben oltre il tempo prescritto dalla procedura.

Il lavoro terapeutico sul meccanismo della riparazione, così bene descritto da Malacrea (1998) in Trauma e riparazione, appare quindi un momento molto importante per consentire di sopravvivere in senso psichico, ma ritengo sia utile ricordare come la riparazione tragga origini da un atto aggressivo e come, nel lavoro clinico, non sia possibile operare una riparazione che ripristini l’integrità dell’oggetto originario come se nulla fosse mai accaduto (infatti, gli abusanti hanno prodotto un grave danno sul bambino e sono stati per questo puniti; i coniugi hanno tentato a lungo e dolorosamente di fare un figlio da soli senza riuscirci).

L’esperienza di abuso sessuale lascia delle cicatrici interne che sono il segno permanente e indelebile dell’atto aggressivo consumatosi ai danni del soggetto, da parte degli oggetti primari.

La riparazione, infatti, non annulla le cicatrici della ferita subita, ma può permettere di continuare a vivere attraverso la “costruzione creativa” (costruire nuovi legami con altri adulti, altri coetanei, imparare nuove abilità e sviluppare nuove competenze) e, quindi, attraverso l’investimento affettivo su altri oggetti che vengono a sostituire quelli originari. Inoltre, un’operazione siffatta permette di salvaguardare le capacità di simbolizzare, cioè il processo cognitivo in senso lato (quello che Malacrea chiama il canale di alimentazione della vita psichica delle piccole vittime) e ciò significa, per il bambino, mantenere le vie di apprendimento non ostruite, libere di accogliere il nuovo e lo sconosciuto, quindi di interiorizzare nuovi contenuti. Sappiamo tutti quanto sia importante per il bambino essere in grado di apprendere, processo indispensabile per introiezioni positive ed esperienze socializzanti a contatto con altri coetanei. “L’unica via per liberare il Sé e ridargli coesione sembra passare inevitabilmente dalla riparazione dell’oggetto anche se si tratta di un oggetto colpevole” (Meotti, 1998).

Una buona riparazione porta con sé, come inevitabile e necessario, il senso della consapevolezza dei propri limiti e del proprio potere, quello che lo psicoanalista Speziale Bagliacca chiama “il senso tragico di responsabilità”. Egli sostiene che l’assunzione di questo vertice di osservazione vuol dire accettare gli eventi tragici della vita, aiutando a recuperare il senso del limite del cambiamento, e a prendere consapevolezza dolente del lutto nei confronti delle proprie parti eroiche. Ricordiamoci ancora una volta che, generalmente, le vittime abusate pensano che l’accaduto sia proprio colpa loro e sono spesso annientate dal doppio dolore per il danno che hanno procurato ad altri con la loro rivelazione. Una buona riparazione, quindi, ha bisogno di un tempo nel quale dispiegarsi, cioè di una processualità del fenomeno, con i suoi limiti, la sua temporalità, le ricadute e le ambivalenze. E il traghettamento verso nuovi oggetti di investimento affettivo (nel caso dell’adozione sono i nuovi genitori a cui voler bene) non si presenta privo di conflitti, ma popolato dal senso di colpa.

R., 6 anni, più volte in seduta con espressione triste mi diceva: “…sai, in casa sto bene, ma ogni giorno penso ai miei genitori…me li ricordo e non riesco a non pensare a loro…, a scuola non riesco a concentrarmi…è colpa mia se sono andati in carcere…se io non dicevo niente…” oppure, in un’altra occasione, “…ma perché anche la mia mamma è andata in carcere?…quel gioco era papà a farmelo fare…la mamma era solo li…”. E., 3 anni e mezzo, attraverso i personaggi delle storie fantastiche, cominciava a mostrare i primi movimenti riparatori: i cattivi erano puniti, “la volpe dispettosa non usciva più di notte a mangiare i pulcini della gallina perché il cane se ne accorse e le abbaiò forte…allora la volpe scappò nella camera del bambino che non aveva la mamma, morta in Bosnia. Così il bambino si salvò e fu cresciuto dalla sorella che non aveva mai conosciuto…”.

In un panorama in cui gli interventi di sostegno sono così complessi e prolungati, è indispensabile un grande investimento di energie onde operare contemporaneamente su due fronti:

  • Sul bambino, per creare o alimentare la fiducia in nuovi legami affettivi e mitigare i danni del vissuto di tradimento operato dalle figure più significative
  • Sui genitori adottivi, per sostenerli ad accogliere il bambino e costruire una relazione affettiva con un figlio, non con un bambino di serie B.

Sullo scenario intrapsichico e relazionale del bambino abusato che va in adozione, si incontrano bisogno di appartenenza e struggente nostalgia, rabbia, disperazione e senso di colpa per il danno arrecato alle figure familiari, che magari sono state punite con il carcere in seguito alle sue rivelazioni, oppure perché l’adozione è vissuta come conseguenza di una propria colpa per aver fatto qualcosa di male.

Sul versante degli adottanti, l’identificazione con l’esperienza traumatica vissuta dal bambino mobilita intrecci di emozioni e pensieri che vanno da sentimenti di rabbia impotente a solidale compassione, dal pensiero inconfessato che forse “sarebbe meglio dimenticare” fino al senso di fallimento e alla negazione dei segnali di malessere, come per salvare la propria decisione di aver scelto di adottare.

FASI DEL PERCORSO PSICOLOGICO DEI GENITORI ADOTTIVI

L’avvio della relazione adottiva vede genitori e bambino impegnati nella costruzione di un rapporto delicato e complesso che schematicamente potrebbe essere cosi sintetizzato:

  • Fase dello studiarsi reciprocamente, in cui prevalgono negazione-minimizzazione, forte fiducia nel cambiamento, nel potere terapeutico di amore e affetto, idealizzazione del potere educativo dell’apprendimento e della socializzazione, ma anche forte cautela nei contatti con l’ambiente esterno;
  • Fase della consapevolezza delle difficoltà della sfida adottiva, in cui emerge il disagio e la sofferenza del bambino, denuncia del disagio, presa d’atto delle difficoltà (problemi emotivi, comportamentali, scolastici), emergere di vissuti depressivi, frustrazione (il bambino non è e forse non sarà mai come ce lo si immaginava). Prevalgono senso di impotenza, disperazione, rabbia verso i genitori naturali e a volte anche verso le istituzioni che li hanno scelti per una situazione così complessa;
  • Fase dell’elaborazione con l’attivazione di meccanismi riparativi, in cui si valorizzano i piccoli progressi compiuti dal bambino, non va sempre tutto male, diminuisce il meccanismo proiettivo e anche i residui comportamentali sono meglio tollerati, si riduce l’idealizzazione, aumenta l’autostima e si recupera il senso delle proporzioni degli eventi subiti, aumenta la legittimazione di se stessi in quanto genitori.

Inoltre perché l’adozione possa avere realistiche probabilità di riuscita, occorre che nella coppia siano stati sufficientemente elaborati il problema della sterilità e la sua influenza sul vissuto corporeo e sulla sessualità. Tali aspetti dei coniugi sono, in particolare, ben presenti ed esplorati dall’operatore deputato alla selezione delle coppie adottive, poiché in questa dimensione si consumano e si ricompongono:

  • la ricerca del figlio a volte esasperata (il figlio a tutti i costi);
  • il fallimento procreativo e la sua elaborazione;
  • la rinuncia al biologico;
  • l’investimento adottivo come buona riparazione all’incapacità a procreare;

Se osserviamo bene, queste sono, di fatto, le fasi dell’esperienza del lutto descritte da Bowlby:

  • fase del torpore con manifestazioni di angoscia e/o collera;
  • fase dello struggimento e della ricerca;
  • fase della disperazione e disorganizzazione;
  • fase di riorganizzazione (che porta a nuove scelte e nuovi investimenti).

Appare evidente come il corpo, con le sue rappresentazioni e vissuti relativi e la sessualità, comprensiva di erotismo ed affettività, siano dimensioni fortemente interpellate e messe alla prova nella scelta adottiva, ancor più qualora alla coppia venga abbinato un bambino/a vittima di abuso sessuale.

Pensiero e sessualità, secondo lo psicoanalista Fornari (1975), sono due funzioni che per essere adeguatamente esplorare devono correre su due binari di sviluppo paralleli, dove il livello di simbolizzazione raggiunto dal pensiero dovrebbe correlarsi con il grado di soddisfacimento della sessualità. Dice Fornari: “Le singole tappe dello sviluppo della sessualità umana curiosamente coincidono con specifiche tappe nello sviluppo del pensiero umano”. Una coppia che viva in generale una sessualità ben integrata ha più possibilità di possedere anche buone facoltà di pensiero ed elaborazione mentale.

Si comprende, quindi, come alla coppia adottiva venga demandato un compito molto impegnativo e per questo essa dovrebbe possedere alcune funzioni emotive e cognitive che si richiamano alle funzioni introiettive della mente individuate dagli psicoanalisti Meltzer e Harris (1983) per descrivere il modello di funzionamento mentale della famiglia centrata sulla coppia.

Punti centrali di questo modello sono il contenimento emotivo e la distribuzione della sofferenza psichica in cui è la mente genitoriale a contenere le funzioni emotive che possono favorire od ostacolare una buona relazione, nell’alternarsi di stabilità e regressione come accade inevitabilmente nelle situazioni di grave disagio emotivo conseguenti ad esperienze di abuso sessuale che attaccano e compromettono la struttura portante della personalità. Le funzioni introiettive positive sono: generare amore, infondere speranza, contenere la sofferenza depressiva e pensare.

Vorrei provare a tradurle in quelle caratteristiche che di fatto si cerca di trovare in una coppia aspirante all’adozione. Alcuni requisiti proponibili sono:

  • disponibilità affettiva, accoglienza e apertura all’altro da sé senza pregiudizi o preconcetti troppo rigidi (generare amore);
  • capacità di ascoltare senza giudicare, capire e dare valore alle opinioni del bambino sostenendone l’autostima e mantenendo il senso delle proporzioni anche in presenza di eventi dolorosi o traumatici (infondere speranza);
  • comprensione dei vissuti e tolleranza della sofferenza presente in sé, avendo dovuto affrontare la ferita narcisistica della sterilità ed essendo diventato genitore di un bambino investito della fantasia di un’integrità perduta. Tolleranza della sofferenza del bambino stesso, vittima e protagonista inconsapevole dell’abuso, ma portatore di pesanti vissuti di colpa, vergogna e tradimento (contenere la sofferenza depressiva);
  • capacità di rispettare i sentimenti più intimi, di differenziare e conferire un nome preciso a ogni vago sentimento, senza attivare barriere difensive (pensare).

In questo modo nella dinamica relazionale familiare si promuovono:

  • sentimenti di fiducia e sicurezza, si sostiene un buon livello di autostima nel bambino, permettendogli di tollerare la dipendenza, la sofferenza del sentirsi bisognoso e iniziare così a ripercorrere il cammino dell’individuazione e della crescita bruscamente interrotto dall’evento traumatico;
  • progettualità ed iniziativa, sollecitate e sostenute dalla speranza che si infonde nella relazione, permettendo il cambiamento, il desiderio di conoscere ed imparare;
  • forze costruttive tese alla modulazione della sofferenza che rende possibile il binomio “apprendere dall’esperienza”;
  • uso intelligente della mente che si legittima capace di conoscere, affrontare gli stati d’animo più inquietanti grazie alla sicurezza di essere empaticamente accolti e compresi. In questo senso si promuove un alto livello di integrazione mentale ed il desiderio di imparare e pensare in modo creativo.

Inoltre, nella coppia risultano utili risorse:

  • la tendenza a non drammatizzare le situazioni;
  • la tendenza a non idealizzare, bensì essere realistici, per coniugare e integrare meglio, nella dinamica familiare e con il bambino, aspettative adeguate alle condizioni del minore e sempre commisurate al suo reale modo di essere e fare in quella particolare fase evolutiva;
  • essere comprensivi, ma non compiacenti;
  • essere protettivi, ma non bisognosi di instaurare relazioni narcisistiche di dipendenza;
  • essere autorevoli, ma non autoritari, con modelli di costellazione familiare non troppo conformisti, flessibili e non rigidi;
  • la tendenza a non identificarsi con l’aggressore;
  • non essere competitivi;
  • essere soddisfatti del proprio ruolo sociale e non alla ricerca di rivincite o riconoscimenti sociali;
  • essere in grado di affrontare la realtà in maniera socialmente costruttiva e soddisfacente.

In uno scenario così tratteggiato, l’accompagnamento del minore alla progressiva consapevolezza che non era possibile per lui fare molto di più o di diverso, che egli non aveva, da solo, il potere di opporsi all’imbroglio affettivo perpetrato, vuol dire in qualche modo aiutarlo ad elaborare la fallibilità delle proprie parti eroiche. Questo non significa renderlo sconfitto ed impotente per sempre, ma mostrargli che gli eventi accaduti sono potuti succedere per una responsabilità degli adulti e per i limiti del bambino stesso, per responsabilità individuali e corresponsabilità gruppali (famiglia allargata non tutelante). Infine, proprio per questo, serve aiutarlo ad accettare che ora occorre cambiare mete, alimentare la speranza di un futuro migliore, affrontare dei cambiamenti.

In questo modo si aiuta il bambino a non incolpare più né se stesso né gli altri, a non farsi distruggere dalla logica della colpa per iniziare a riconciliarsi così con i propri oggetti interni, depurati da valenze persecutorie, investendo di conseguenza su altri oggetti esterni, fonte di vita e di speranza nel futuro.

In questa dimensione si aiuta il bambino a “perdonare” nel senso non di dimenticare l’esperienza traumatica (perché ciò è impossibile e l’adozione ne rimarrà un richiamo permanente). Ma di dare: “…una diversa sistemazione del passato che consenta di evitare, oltre alla coazione a ripetere, la condanna a ricordare senza variazioni i pesanti carichi del rancore e delle rivendicazioni” (Meotti, 1998).

Il sostegno continuo e tenace della famiglia adottiva, quale riconoscimento senza condizioni dell’identità stessa del bambino, può rappresentare talvolta l’ancora di salvezza senza la quale la sua mente sarebbe rimasta avvolta nelle nebbie di una disperante confusione. Ma il lavoro di pensiero e confronto tra gli operatori, nelle diverse fasi della costruzione della relazione adottiva, risulta determinante e deve integrarsi in un lavoro di rete tra tutti i protagonisti dell’intervento. Sarà utile valutare, di volta in volta sul caso, se, per esempio, un’esperienza intermedia di affidamento familiare a famiglie particolarmente preparate potrebbe risultare una tappa propedeutica all’inserimento adottivo, dando modo al bambino di cominciare ad elaborare la perdita dei legami originari contemporaneamente all’elaborazione del trauma subito.

Alcune esperienze significative sono già in atto in alcune regioni ed è utile continuare a riflettere insieme. Tutto ciò richiede, tuttavia, tempo, fatica e la motivazione convinta sia da parte degli operatori, sia a livello delle istituzioni preposte, che tutto ciò sia efficace nell’interesse del minore. Continuare a fare e confrontare le esperienze su questo tipo di intervento può rappresentare un utile contributo a chi, quotidianamente, è chiamato a decidere, di fatto, sulla vita di bambini già così duramente provati da non consentire più di sbagliare nei loro confronti.

Investire risorse per riparare e continuare a costruire è pratica necessaria quando si incontrano due necessità di superamento e, insieme, di ricostruzione, diverse ma convergenti, come possono esserlo quelle di genitori adottanti e bambini vittime di abuso. Alcune riflessioni scaturite da quattro casi clinici.

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