Indagine sui ragazzi cinesi affetti da dipendenza da internet, centri di riabilitazione, terapia, isolamento e marce militari.
La ragazza cammina lentamente lungo una fila di panchine di cemento, alta e magra nella sua uniforme militare. E’ sola. Si avvicina e squadra l’intruso attraverso le spesse lenti da vista: “Sei europeo, vero? Conosci Amélie (Tianshi ai meili)?”. Prima che si riesca a capire il riferimento al film francese con Audrey Tautou, una voce di donna abbaia un ordine che la porta via. Deve continuare a girare intorno alle panchine nel grande cortile.
“Quella ragazza è troppo debole” spiega Li Huan, vice direttore del Centro di Sviluppo Mentale per Giovani Cinesi. “Non può marciare con gli altri. Deve camminare da sola, per irrobustire le gambe”.
Pechino, quartiere meridionale di Daxing. Tra i capannoni di un parco industriale sorge un grande centro di riabilitazione. Qui non si combattono droga o alcol, ma una dipendenza ben più al passo coi tempi: Internet. “I miei mi hanno fregato”, dice Wang Dewei (pseudonimo), 18 anni, che viene dalla provincia dell’Hebei. “Hanno detto che andavamo a Pechino in gita e invece mi hanno portato qui. Li ho odiati”. E’ quasi alla fine del suo trattamento di sei mesi. Il personale lo definisce un “paziente modello” e quindi può vestire con orgoglio la stessa divisa mimetica degli istruttori militari, invece di quella verde standard degli altri ragazzi. “Invece di tornare a casa dopo la scuola, avevo preso l’abitudine di infilarmi in un Internet caffè. Adesso mi piace soprattutto giocare a basket”.
Come si fa stabilire se un ragazzo ha un problema psicologico chiamato dipendenza da Internet? “Non è soltanto il fatto che trascorrono troppe ore al computer”, dice il dottor Tao Ran, creatore della terapia di riabilitazione, psicologo riconosciuto a livello mondiale nonché generale dell’esercito. “Di solito diventano più aggressivi nelle relazioni familiari, si trascurano fisicamente e non vanno bene a scuola. Quando i genitori se ne accorgono e riescono a superare la vergogna, li trascinano qui come ultima spiaggia”. Mianzi (faccia) è la parola chiave nella cultura cinese. “Soltanto mamma, papà e i nonni sanno sono qui”, dice Wang Dewei. “I miei insegnanti pensano che sia stato spedito a studiare per un semestre all’estero e neppure i miei amici ne sanno nulla”. Come tutti gli altri qui dentro, Wang è figlio unico: una viziatissima calamita di aspettative e pressioni psicologiche. “Ai miei importava solo che studiassi per fare soldi”. Il novanta per cento sono maschi, solo il dieci femmine. In una grande aula, circa sessanta ragazzi guardano un megaschermo che trasmette un documentario della BBC. Sullo schermo immagini di caucasici nudi, di età e sesso diversi. Alcuni spettatori ridacchiano imbarazzati. “L’obiettivo è quello di metterli in contatto con il proprio corpo – spiega Li – perché quando vengono qui sono privi di energia fisica e sono imprigionati in una realtà virtuale”. Su una fila di sedie ai lati della stanza sono accatastati giacche a vento e cappotti; ma un’occhiata ulteriore rivela un giovane che se la dorme alla grande sotto i vestiti dei suoi compagni di classe. “Non li costringiamo. Se uno non mostra alcun interesse verso le attività, è libero di farsi gli affari suoi”. Dopo tutto, tra un paio d’ore, dovrà comunque marciare con i suoi compagni.
Il Centro di Daxing è una joint venture tra la Lega della Gioventù Comunista e una società che fa capo al dottor Tao. “Il Partito ci mette l’investimento: noi esperienza, scienza e tecnologia”, dice, aggiungendo che intervengono anche sponsor, tra cui la fondazione Li Ka-shing, charity fondata dall’uomo più ricco d’Asia.
“Noi siamo sessanta per cento psicoanalisi occidentale, quaranta per cento caratteristiche cinesi”, aggiunge il dottor Tao. “Questo significa che il sottoscritto non è uno psicologo che se ne sta seduto e ascolta senza interferire con la vita interiore del suo paziente. Gli dico che cosa è buono e che cosa non lo è. Questa è la parte cinese, così come l’addestramento fisico”.
“Marciando imparano come essere parte di un gruppo – spiega Li Huan – e, per estensione, come essere parte della società”. Per spiegare meglio quello di cui i medici stanno parlando, bisogna buttare un occhio a una stanza chiusa a chiave in fondo al corridoio del dormitorio maschile. Si chiama terapia Morita, probabilmente il trattamento più harcore qui dentro. “E’ una tecnica giapponese – spiega Li – i ragazzi possono scegliere, senza alcuna pressione, di trascorrere una settimana in isolamento assoluto dentro la stanza. Non possono neanche portarsi dietro un libro, devono soltanto meditare. Se hanno bisogno del bagno, un addetto li porta fuori, in corridoio”. Questa è la “fase di riposo”, punto di partenza della terapia Morita, chiamata così perché elaborata dallo psichiatra giapponese Shoma Morita all’inizio del secolo scorso. La premessa è che, durante la fase iniziale del trattamento, un paziente si debba isolare da pressioni e incombenze quotidiane. Poi, lentamente, può tornare alla vita sociale, lavorativa: può cooperare.
Fino a pochi anni fa tutti i ragazzi avevano sui 17-18 anni. IL boom di Internet ha ampliato la forbice di età: si va dai dodicenni agli ultra trentenni. In questo momento gli ospiti sono nella stragrande maggioranza adolescenti, ma in prima fila, nel plotone in marcia, spicca un tipo più anziano. “Ha 32 anni – dice Li – il suo problema è il gioco d’azzardo online”.
“Il novant’uno per cento dei nostri pazienti ha il problema dei giochi di ruolo”, dice Tao, “il restante nove per cento, è equamente suddiviso tra chat, porno e gioco d’azzardo”. Qui non troverete la prole di contadini o lavoratori migranti. Tutti i ragazzi sono figli della nuova classe media cinese, o del suo segmento superiore, piuttosto benestante. “Vengono da famiglie di funzionari o uomini d’affari – riconosce Li – e anche i genitori partecipano alla terapia”.
“La retta è di 9700 RMB al mese (circa 1000 euro) – spiega il dottor Tao Ran – se una famiglia non può permetterselo, concediamo sconti del quindici per cento”. I genitori si riuniscono in un edificio sul lato opposto del cortile rispetto ai dormitori e alle aule dei figli. Qui seguono lezioni degli psicologi su come trattare i figli senza schiacciarli sotto troppe pressioni. Fanno inoltre sessioni di psicoanalisi individuale e di gruppo. Ci sono anche sedute a cui genitori e figli partecipano insieme, sotto la supervisione dei medici. Questo è in genere il programma del mattino. Al pomeriggio i ragazzi marciano, mentre alcuni padri prestano servizio come Bao’an (sorveglianti volontari): indossano la tipica fascetta rossa al braccio e controllano che nessuno cerchi di filarsela scavalcando il muro di cinta. “Succede a volte – riconosce Li – quindi dobbiamo sempre tenerli d’occhio”. Peng Xin è una delle psicoanaliste del campo. Lavora qui da dieci anni, “mi occupo sia delle sessioni individuali sia di quelle collettive; sia con i ragazzi sia con i genitori”, spiega. “Gli psicologi occidentali spesso si focalizzano su una specifica scuola o metodologia, noi preferiamo mescolare diversi approcci a seconda delle esigenze dei pazienti”, aggiunge. “L’altra differenza è abbastanza chiara: un paziente occidentale sceglie di seguire una terapia, qui abbiamo a che fare con ragazzi che sono stati trascinati a forza al campo dai loro genitori: sono tutt’altro che felici quando ci vedono la prima volta”. “Questo è il motivo per cui, in genere, nei primi due mesi lottano sia contro noi sia contro gli istruttori fisici. Se si chiede loro “perché sei qui?” continuano a ripetere “non lo so”, chiudendosi a riccio. “Ogni psicologo si occupa di otto-dieci ragazzi, che condividono la routine quotidiana del campo”, spiega Tao.
“Le sedute di gruppo sono utili perché così, se qualcuno non dice la verità, gli altri lo rettificano. Quelle individuali riguardano problemi personali come il sesso e la masturbazione, mentre gli incontri con i genitori sono utili per far emergere il rancore reciproco. E poi, attraverso i corsi di psicologia, scoprono l’esistenza di problemi come il complesso di inferiorità e si rendono conto che è una patologia curabile. A volte li portiamo in visita in luoghi come le carceri minorili e gli orfanotrofi, per farli comunicare con casi peggiori del loro. A volte li mettiamo di fronte a ‘casi modello’ per dar loro modo di ispirarsi”.
Guo Ming è un istruttore militare. Ha 24 anni, è dunque soltanto un po’ più grande rispetto alla maggior parte dei ragazzi in cura. Ha concluso il suo servizio militare nell’Esercito Popolare di Liberazione, un anno fa. “Ci diamo molto da fare, qui: basket, pallavolo, calcio. Ma nessuno sport di combattimento: se devono liberare la propria aggressività c’è una stanza speciale dove possono sfogarsi picchiando un cuscino”.
“A causa del loro stile di vita lento e disordinato, arrivano qui in stato di debolezza e prostrazione. Noi provvediamo quindi all’allenamento fisico per aumentare i loro livelli di energia”, dice Li Huan. “E migliorano molto rapidamente”, aggiunge il preparatore fisico Guo. “Per me questo è un buon lavoro, anche abbastanza facile, dato che vengo dall’esercito. Per adesso mi va bene così, in futuro vedremo”. “Ci siamo resi conto che la dipendenza da Internet è una conseguenza della depressione o del deficit di attenzione e iperattività (ADHL)”, spiega il dottor Tao. “Ma la mia ultima ricerca dimostra che in molti casi queste patologia discendono a loro volta da un problema di metabolismo e quindi c’è bisogno della terapia fisica. I ragazzi hanno di solito una carenza di vitamine e di minerali e la risonanza magnetica spesso rivela poca circolazione di sangue e di ossigeno a livello cerebrale. Finora abbiamo dato a circa il venti per cento di loro farmaci antidepressivi, ma la maggior parte avrebbe invece bisogno di qualcosa per i problemi metabolici. Perciò penso che in futuro toglierò di mezzo gli antidepressivi e mi concentrerò sugli integratori alimentari”. Secondo Tao, fino al 2008 i pazienti recuperati si aggiravano sul trenta per cento circa. Ora, la stima è dell’ottantacinque per cento. Per determinare se un ospite è pienamente de-internettizzato sono presi in considerazione due parametri. “Il primo è il suso recupero sociale – spiega il dottore – vale a dire se torna a scuola o al lavoro, se ha una vita normale. Il secondo è relativo al suo rapporto con i genitori, gli amici, la società nel suo complesso. E’ particolarmente importante monitorare se è in grado di gestire correttamente i conflitti quotidiani o se ricorre al comportamento violento come prima. Seguiamo i ragazzi per circa tre mesi dopo la fine della riabilitazione, spesso li chiamiamo a casa per gli aggiornamenti. Del quindici per cento che ha una ricaduta, il dieci per cento torna al nostro Centro per un periodo più breve rispetto a prima. In questi casi, si tende a privilegiare il trattamento individuale”. Wang Yaxuan e Yin Xuechun hanno entrambe diciannove anni.
Le due ragazze sono state temporaneamente tolte dall’Università, dove studiano rispettivamente logistica e sicurezza informatica. Tutte e due hanno già passato al campo tre mesi, sono a metà della riabilitazione. “Sono qui perché avevo qualche problema di comunicazione”, sussurra una timidissima Yin, senza raccontare ulteriori dettagli. “La prima volta che ho visto gli psicologi, l’ho presa piuttosto male. Ma ora qui dentro ho molti amici, più di quanti ne avessi prima, e quindi mi sono resa conto che avevo un problema. Quando mi hanno portato qui, ho odiato i miei”, rivela; e si avverte che un po’ di rabbia soffusa c’è ancora. “Ogni giorno stavo almeno dodici ore a giocare online”, aggiunge Wang. “Che cosa ho pensato quando ho visto per la prima volta uno psicologo? Beh, ho pensato che qualcuno mi stava ad ascoltare”.
Gabriele Battaglia. Inserto Alias del giornale “Il Manifesto quotidiano” del 4 Aprile 2015.
Giornalista. Ha lavorato per “E il mensile”, “Peace Reporter”, “Matrix”. Ha studiato presso l’Università degli Studi di Milano. Vive a Pechino.