La lunghezza, le difficoltà e l’efficacia di una psicoanalisi con uno specifico paziente non possono non essere, almeno in parte, responsabilità dell’analista.

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Il mio stare in terapia col paziente va sempre più configurandosi come un non-attendermi qualcosa da lui.

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Non c’è creatività senza una soggettiva e personale capacità di avvicinarsi ai propri nuclei più profondi. La vera creatività è estemporanea, discontinua, sciolta, variegata nelle sue forme, non assoggettabile a rigidi criteri temporali e indipendente dalle manifestazioni di giudizio altrui o dai limiti connaturati alla realtà. La creatività è un fuoco alimentato dalla legna del conflitto e dal vento della consapevolezza.

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L’atteggiamento analitico è fatto di un’attenzione leggera e scabra, in sospesa e trepidante attesa del teatro del paziente.

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Non penso che ci si possa attendere libere associazioni significative dai pazienti incapaci di stare in silenzio in presenza di qualcun altro.

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Psicoanalisi: sentimento, intuizione, arte, relazione.

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L’interpretazione non potrebbe essere considerata un’ermeneutica dell’essere del paziente in quello specifico momento?

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La psicoanalisi non è una scienza; è una disciplina ermeneutica.

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Per quanto la si possa definire corretta, l’interpretazione del terapeuta è sempre e soltanto un’interpretazione.

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L’interpretazione come comunicazione condivisibile nella diade; l’interpretazione come veicolo del desiderio di conoscere l’altro.

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Un modo per essere veramente neutrale potrebbe essere quello di sapere di non poterlo essere. Se mi impongo di esserlo (ammettendo anche che ciò sia possibile) sto già attuando un atteggiamento silenziosamente di parte, quindi non neutrale. Se l’analista ha ben presente il senso del setting dentro di sé, se lo ha autenticamente interiorizzato, può permettersi col paziente anche errori grossolani.

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La capacità di creare, ossia di generare la nascita di qualcosa di nuovo, implica una distanza, una separazione, uno iato tra sé e l’altro da sé, come fu necessaria, nella mitologia, la separazione della simbiosi primordiale tra Gea e Urano affinché emergessero Crono e tutte le altre creature. Nel mito, quindi, il Tempo (Crono) nasce dalla separazione e la separazione è, a sua volta, resa possibile dalla contemporanea presenza di un desiderio (il desiderio di Gea di cambiare lo status quo) e da un atto di ribellione o aggressività verso il dominio dell’autorità (la presenza ingombrante e asfissiante di Urano). Secondo il mito, quindi, si può essere veramente creativi e presenti a se stessi (ossia con un adeguato senso del tempo) solo se si possiede dentro di noi uno spazio inviolabile separato da tutto e il desiderio di distruggere la tradizione e l’autorità troppo opprimenti.

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La creatività potrebbe essere definita come la capacità di elaborare e rielaborare continuamente il proprio mondo interno generando idee, affetti e fantasie prima ignote. La creatività implica il piacere di dare e condividere con l’altro quanto creato, per un associato sentimento di valore del processo della propria creazione personale. Se c’è salute (nel senso di sentirsi veri nella propria pelle), c’è creatività; se c’è creatività, c’è il desiderio di condividere qualcosa di prezioso e intimamente vitale. Si potrebbe anche dire che se ci si sente creativi, in fondo, si è anche grati per ciò che si è.

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“Sbagliare” in una psicoterapia psicoanalitica, nel senso di essere meno interpretativi di quanto si potrebbe, comporta la possibilità di rinforzare nel paziente le proprie difese e la propria naturale tendenza a nascondere l’inconscio: paziente e terapeuta colludono reciprocamente nella tendenza altrettanto naturale di non approfondire il percorso di conoscenza. Ugualmente, essere più esplorativi del necessario comporta il rischio di far regredire il paziente, di renderlo ancora più “malato”, di sottoporlo a carichi di ansia non sempre tollerabili. A meno che non si abbia a che fare con un autentico nevrotico, tollerante e rispettoso del setting fin da subito e molto motivato alla terapia, è più conveniente “sbagliare” più nel primo che nel secondo senso.

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Ulisse, simbolo della coscienza che mantiene un legame emotivamente vivo col suo Sé profondo, col suo sogno personale di vita. Ulisse come simbolo della coerenza col proprio più autentico desiderio personale e di un’autenticità non idealizzata, erroneamente umana. Il sonno di Ulisse come simbolo di quei cedimenti della consapevolezza che fanno smarrire la rotta, il contatto col Sé, pur potendo essere in fondo forieri di ulteriori esplorazioni in zone non ancora conosciute. Il suo viaggio come simbolo della lotta contro le tendenze regressive e dispersive della nostra mente.

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Ho notato che una difficoltà insistente a ricordare il nome di un paziente adolescente è sistematicamente collegato in me con una grande difficoltà nello stabilire un abbozzo di alleanza terapeutica. Lo storpiamento del nome come un non voler riconoscere l’identità di quel soggetto (agito controtransferale) o come una comunicazione inconscia del paziente della sua forte difficoltà a tollerare che un altro si interessi veramente a lui?

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Cosa significa veramente interpretare? Proporre spiegazioni con nessi di causa-effetto relative a certe comunicazioni del paziente? Stabilire anche dei legami tra eventi presenti e passati? Dare un senso alle comunicazioni del paziente, una struttura, riducendo il caos? Applicare uno schema teorico che calzi in quel particolare momento della seduta? Introdurre coerenza nella comunicazione che ci viene fatta? Credo che interpretare significhi tutto questo, con l’aggiunta di un elemento fondamentale: il substrato da cui nascono le interpretazioni, ossia l’esperienza mentale dell’analista che si relaziona col paziente. Solo se essa si opacizza, o meglio, si destruttura – lasciando cadere per brevi porzioni di seduta i propri riferimenti concettuali e identitari abituali – egli riuscirà ad immergersi nell’esperienza profonda del paziente, quella che sottende la sua comunicazione cosciente e razionale. Un aprirsi, quindi, al mondo dell’altro, temporaneamente dimentichi di sé.

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Non mi interessa molto elaborare o imparare delle teorie della mente, perché esse presuppongono architetture, il più possibile complete, utili a dare spiegazioni. Preferisco piuttosto fornire spunti, individuare punti critici, incoerenze, e da questi partire per espandere la teoria esistente oppure per affrontare aspetti specifici del funzionamento della mente, provando a chiarirli o a costruire altre configurazioni plausibili, da sottoporre sempre e comunque al vaglio della clinica. Le teorie hanno senso solo se possono essere di una qualche utilità clinica, cioè solo se possono essere di aiuto ai pazienti.

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Per il colloquio, nessuno schema. Soltanto il tenersi aperti alla possibilità di sentire e di fantasticare.

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Permettersi di essere banali in ciò che si dice ai pazienti e, al contempo, essere delicatamente empatici. Non c’è connubio più umano, per me, nell’arte della psicoterapia.

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Il dramma ˗ e la sfida ˗ di ogni adolescente è ridurre le paure più invalidanti e le pastoie ambientali che lo affliggono al fine di poter assaporare liberamente l’ebbrezza di una libertà di essere e di sperimentare che difficilmente potrà concedersi in altri momenti della sua vita. Dall’ampiezza di questa esplorazione dipenderà la solidità del suo Io nei periodi a venire.

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L’aggancio in terapia di un paziente avviene quando, il più spontaneamente possibile, entrambi i membri della diade giungono ad intravvedere ed esplicitare un senso al percorso terapeutico. A volte questo si presenta sotto forma di immagine o come una fantasia condivisa o all’interno di un sogno. Spesso, per individuarlo e verbalizzarlo, le capacità metaforiche del terapeuta giocheranno un ruolo essenziale.

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Rispettare in modo profondo l’unicità del paziente significa anche sopportare il fatto che lui possa non tollerare questo rispetto ˗ perché vorrebbe che qualcuno lo etichettasse o gli fornisse una guida o delle risposte chiare e definitive ˗ e che quindi possa, per rabbia contro di noi, abbandonare il percorso terapeutico perché troppo individualizzante per lui. Preferisco che un paziente interrompa il trattamento perché incapace di tollerare la sua separazione da me, piuttosto che lo continui perché gli fornisco supporti eccessivi e non necessari, che indeboliscono la sua capacità di farcela da solo. In quel caso, un drop-out posso considerarlo perfino come un gesto individualizzante del paziente che, seppur rompendo definitivamente la comunicazione verbale, riesce a prendere comunque una sua decisione, nonostante me.

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L’acquisizione di una capacità creativa, oltre che dal possedere una qualche forma di talento, potrebbe essere decisamente influenzata dal raggiungimento di un’autentica spinta generativa, quindi da una completa e definitiva identificazione sessuale. La capacità di creare ˗ un’opera d’arte, un manufatto, una nuova soluzione o qualunque cosa che prima non c’era ˗ come caratteristica che corrisponde al desiderio profondo di generare qualcuno.

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La bellezza ha un enorme potere terapeutico. Anzi, da un certo punto di vista, la psicoterapia può essere intesa anche come la riscoperta del potenziale di bellezza presente in ognuno di noi.

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Le analisi o psicoterapie interminabili non si concludono; si interrompono soltanto, in qualche modo.

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I motivi per cui amo praticare terapie a tempo limitato:

– Ridimensiono l’aspettativa di una guarigione completa, in me e nel paziente.

– Pongo limiti alla mia avidità.

– Non stimolo oltre il dovuto la dipendenza del paziente.

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È importante non dare troppa rilevanza alla teoria, mentre si segue un caso. Il terapeuta, come un sarto, deve essere capace di tagliare una storia che stia bene addosso al paziente. Egli deve essere capace di costruire storie sempre nuove, come sempre nuove sono le persone che si troverà di fronte.

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Nessun clinico potrà mai conoscere veramente un paziente se non riesce a tollerare il fatto di dover attraversare lunghi momenti di solitudine e disorientamento nel suo percorso di esplorazione di un’altra mente o realtà individuale. L’ignoranza e l’impotenza come condizioni di base difficilissime da mantenere ma necessarie per avvicinarsi adeguatamente alla misteriosa esperienza dell’altro.

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Due pazienti di quindici anni, di recente. La prima: “ma lei è psicologo o psichiatra?” mi chiede curiosamente dopo quasi un anno di terapia a cadenza settimanale. “Psicologo”, rispondo. “E che differenza c’è con uno psichiatra?” continua. “Lo psichiatra è un medico specializzato in psichiatria. Lo psicologo studia psicologia – e non medicina – e poi fa un’ulteriore specializzazione in psicoterapia. Inoltre lo psichiatra, essendo un medico, può prescrivere farmaci”. “ah…” riflette un attimo “ed è la stessa cosa dello psicoanalista, quello che usa il lettino…” “no, lo psicoanalista può essere uno psicologo o un medico, indifferentemente, che usa una particolare tecnica, quella appunto della psicoanalisi, del lettino”. “ah…” (qualche secondo di silenzio) “però in una cosa così, con una persona distesa…non mi piace, perché non ci vedo nessun tipo di relazione, nessun contatto umano, come c’è con chi si può guardare”. La seconda, dopo quattro mesi di psicoterapia, quasi giunta alla conclusione: “ma lei non dice mai niente, mi dica qualcosa, io non ho tanto da dire oggi.” “beh, in effetti non parlo molto nei nostri incontri. Lo faccio perché voglio lasciarti il più libera possibile ed evitare di influenzarti.”, le dico chiaramente. Dopo un po’ di silenzio, riprende: “devo dire che questa esperienza mi è servita, se una persona che conosco dovesse star male le direi di rivolgersi ad uno psicologo. Può aiutare ad uscire dai problemi.” In realtà sempre più spesso mi verrebbe da pensare che, pur parlando poco in terapia, non sia così importante neanche quel poco che riesco a blaterare. Probabilmente, più che altro, per il paziente diventa importante soprattutto come io riesco a stare in terapia.

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Per me la psicoterapia è quella pratica attraverso la quale il terapeuta riesce a mettere il paziente gradualmente dinanzi alla sua verità, unica e irripetibile, all’interno di una relazione sufficientemente rassicurante da tranquillizzarlo nei momenti in cui il contatto con quella verità gli arrecherà angoscia. Il silenzio è l’unica condizione utile che riesco a trovare dinanzi all’essere di ogni paziente. Il silenzio, poi, è anche il punto finale del processo di comprensione di sé di ogni paziente.

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Uno psicoterapeuta dovrebbe essere sufficientemente folle per capire quanta follia c’è nel paziente e sufficientemente sano per capire quanta dovrebbe essercene.

Marco Nicastro è uno psicologo specializzato in Psicologia clinica. Si è formato presso la clinica psichiatrica dell’Ospedale di Padova, nel gruppo di ricerca per le psicoterapie brevi del Prof. Luigi Pavan, psicoanalista SPI e nel consultorio per adolescenti “Contatto Giovani” dell’Ulss 16 di Padova, dove ha prestato servizio come libero professionista psicoterapeuta, sotto la supervisione del Prof. O. Esteve, psicoanalista di Barcellona da qualche anno in Italia. Si occupa di psicoterapia a orientamento psicoanalitico con adolescenti, famiglie e adulti. Ha prestato servizio in diverse scuole superiori di Padova come responsabile dello sportello ascolto del CIC e come conduttore di gruppi di educazione affettivo-sessuale di adolescenti presso varie scuole pubbliche.

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