Regia: Ferzan Ozpetek
Sceneggiatura: Gianni Romoli, Ferzan Ozpetek
Fotografia: Gianfilippo Corticelli
Montaggio: Patrizio Marone
Scenografia: Andrea Frisanti
Musica: Andrea Guerra
Costumi: Catia Dottori
Interpreti e personaggi: Giovanna Mezzogiorno (Giovanna), Massimo Girotti (Davide), Raoul Bova (Lorenzo),Filippo Nigro (Filippo), Serra Yilmaz (Eminè).
Produttore: Tilde Corsi, Gianni Romoli per R&C Produzioni/Redwawe Films/Afs Film/Clap Filmes
Distribuzione: Mikado
Durata: 1h e 55′.
Origine: Italia, 2003.
Box-office: Euro 10.774,022
Giovanna e Filippo, pur essendo molto giovani, sono sposati da otto anni e hanno due figli. Il loro menage quotidiano procede tra difficoltà economiche e frequenti litigi. Giovanna lavora presso un’azienda che macella pollame; Filippo passa da un lavoro precario all’altro. La donna si distrae dalla propria vita solo concedendosi di spiare il bel vicino di casa, Lorenzo, dalla finestra della cucina. Un giorno, nella vita della coppia, irrompe un anziano signore, incontrato casualmente per le strade di Roma, privo di memoria. Nonostante le rimostranze di Giovanna, Filippo accoglie l’uomo, nell’attesa che in Questura qualcuno lo identifichi.
I giorni passano e dell’anziano, che dice di chiamarsi Simone, nessuno sembra ricordarsi. Eppure, dopo la diffidenza iniziale, a Giovanna quel “vecchio” comincia a piacere. Non solo: è proprio grazie a lui che la donna conosce il dirimpettaio. Tra Lorenzo e Giovanna, coinvolti dalla storia misteriosa dell’anziano, un’attrazione che giaceva da tempo pare esplodere di colpo. Giovanna scopre che anche Lorenzo la spiava dalla finestra. Ma proprio quando la donna è maggiormente combattuta tra l’amore del marito e l’attrazione per Lorenzo, Simone sparisce.
Grazie ad un lettera, la giovane riesce a rintracciarlo, per scoprire che Simone è in realtà Davide, ex artista della pasticceria e salvatore, nell’Ottobre del 1943, di tanta gente scampata ai rastrellamenti dei nazifascisti. Simone era il nome dell’uomo amato da Davide in gioventù: l’uomo che Davide. Senza riuscirci, decise di avvertire solo dopo aver allertato il maggior numero di potenziali deportati. E’ a questo punto, grazie a Davide, che Giovanna decide di riappropriarsi della propria vita, riscoprendo la passione per la pasticceria e decidendo di non seguire Lorenzo, nel frattempo trasferitosi.
Ed è in questa nuova vita che Giovanna parla a quella presenza anziana, ormai indelebile nei suoi ricordi, in una lettera forse nemmeno spedita. [1]
È un film sulla memoria, sul passato oscurato che ritorna (Davide), sul presente che si trasforma per la conoscenza di un passato e la ricerca di un vero Sé (Giovanna), sulle tante persone invisibili che custodiscono il passato e proteggono la vita di un giusto.
La finestra da cui Giovanna spia Lorenzo, un “presente” che lo attrae come vita immaginaria e immaginata è un alter ego della cinepresa, l’occhio che vede, attraverso quello che c’è ( in altre parole l’immagine data), quello che non c’è, tutto il fuori inquadratura, che è appunto memoria, immagine futura, proiezione, identificazione, falso movimento depressivo, ma anche slancio vitale che trae appunto, dalla memoria (ri)scoperta, la possibilità di una catarsi individuale e di una rigenerazione familiare ( per il personaggio di Giovanna, soprattutto).
La vicenda, dal punto di vista di Giovanna si istituisce completamente tra un vissuto e un voler vivere che, apparentemente, evade nella figura di Lorenzo, simbolicamente un “falso bersaglio”, un uscir fuori, in un agito sentimentale.
Un insieme di presenze-assenze tesse una tela di ragno del riconoscimento, della memoria passata come quieto presente e del presente come istituto rigoroso del futuro.
La deviazione “en telenovela” di Giovanna è un ponte di passaggio, una vicenda strumentale.
A questo proposito sembra costruito con un ruolo fotografico il personaggio di Lorenzo (interpretato da Raoul Bova): un profilo da bello fotoromanzato sbarbato di fresco che, per quanto si sforzi di apparire profondo, lascia tutto sulla superficie di un volto fatto espressivo soltanto dai movimenti di macchina.
Contemporaneamente l’inno alla passione si insinua fra le pieghe della vita logorata di Giovanna e Filippo e, tramite il veicolo del personaggio femminile e l’io ausiliario di Simone-Davide, costruisce una realtà reale che è tale proprio perché non si arrende ai falsi movimenti di una quotidianità a luci spente. La dolcezza della pasticceria è il viatico di una futura e matura dolcezza di una vita che rifugge dallo specchietto delle allodole della finestra di fronte.
In effetti la finestra di fronte è un’avventura dell’interiorità (e prima, cinematograficamente, degli occhi) per riuscire a vedere la propria soggettività: quando Giovanna va nell’appartamento di Lorenzo può vedere la sua casa dall’altra finestra di fronte, quella della sua fantasia. A questo punto la tensione dell’immaginario banale, previsto e prevedibile, si trasforma in coscienza di una maturazione tardiva, ma sicura. Nella sequenza della mancata avventura tra Giovanna e il suo dirimpettaio, Lorenzo si rivela per quello che è: l’uomo che non c’era.
Il mondo di Giovanna è costituito da suo marito Filippo, dai suoi figli e dalla insperata scoperta di Davide, psicopompo in vita della sua nuova vita. Gli agiti cancellano la memoria, le azioni rinnovate la rinforzano e le ridanno linfa vitale.
Lorenzo è l’uomo-schermo, che serve a Giovanna per ritrovare una memoria fondante che diventi il contrario di una nostalgia da anima morta: “…donarsi allo sguardo di un altro per inscenarsi finalmente davanti ai propri occhi” [2].
E, come in un gioco di specchi deformanti ci troviamo di fronte ad un personaggio smemorato incarnato da un attore carico di memoria filmica: Massimo Girotti; in un passato che coesiste col presente (i luoghi del rastrellamento degli ebrei romani, il 16 Ottobre del 1943, presente e passato accostati da un semplice passaggio dalla notte del 43 al giorno dell’attualità, in un memorabile movimento di macchina).
Gli occhi di Davide sono “interiorizzati”, nella ricerca di una nuova vita del ricordo, in cui anche l’amore per Simone (all’inizio Davide dice di chiamarsi Simone) non è soltanto dolore attuale e inattuale per la perdita, ma anche possibilità di salvezza, nel trasmettere a Giovanna l’amore per il suo amore coniugale che si trasforma.
Forse non è secondario leggere il film come la storia della trasformazione di una vicenda coniugale, anche se probabilmente improprio, in quanto soltanto il personaggio di Giovanna è in progess, mentre Filippo è un po’ oscurato nella sua figura sincera, ma un po’ ottusa, che viaggia a rimorchio della moglie. Giovanna ha come vissuto per tutti e due, ragion per cui non può non accogliere la collateralità della sua passione per la pasticceria, con Davide mallevadore della sapienza del mestiere. La trasformazione è di Giovanna che con occhi nuovi vede la sua vita e quella di coloro che più le sono vicini.
Il film è anche un gran gioco di occhi, di una memoria che vuole essere vista o di sguardi che non riescono a vedere oltre la finestra di fronte: gli occhi di Davide, liquidamene persi nel mondo dei sommersi (ma anche dei salvati), di Giovanna che va incontro al mistero del suo avvenire con gli occhi aperti (l’ultima inquadratura), gli occhi di Lorenzo, che si accorgono di non capire ciò Giovanna invece va a vedere, quelli di Filippo, che assistono impotenti ad una scena per lui incomprensibile.
Va dato atto a Ozpetek [3] di aver costruito un film con una evidente sapienza visiva usando gli ingredienti del melò più smaccato: un amore insoddisfatto, un innamoramento nuovo, un personaggio schermo (Davide), una vicenda passata che riflette la sua parte di mistero sul presente (l’uccisione, da parte di Davide, della spia che lo aveva venduto ai nazisti), un fatto “visivo” fuori dal normale (i dolci di Davide, fatti a regola d’arte). In mezzo a tutto ciò personaggi di contorno della quotidianità (come l’amica di Giovanna che lavora alla macellazione dei polli e che la consiglia col buon senso della quotidianità, in questo caso del tutto insufficiente).
Tutti questi elementi formano però dei composti visivi con un impatto filologico di forte emozione, come le scene notturne del ghetto di Roma percorse dalle ombre dei nazisti, la statua del parco dietro la quale Simone e Davide lasciavano i loro biglietti di una relazione omoerotica non inscenabile per l’epoca, il vagare di Davide nella solarità mediterranea di una Roma contemporanea, l’amore sublime per Davide della fanciulla ebrea che per merito suo è stata salvata a suo tempo dalla deportazione e che ora, anche lei anziana, custodisce la vita del suo salvatore.
Da un punto di vista psicologico Giovanna compie un cammino per ritrovare il suo vero Sé, quella dimensione esistenziale che la fa vivere in armonia con se stessa e con gli altri e la vicenda del film può essere interpretata come una riappropriazione di una memoria all’interno della quale riemergono i rimossi della storia, ciò che nelle carni e nell’anima hanno inferto le violenze della guerra o le frustrazioni della quotidianità.
Il risultato finale sono i quieti occhi di Giovanna che guardano al futuro sapendo che a nulla possono le facili sirene di un agito inutile e privo dello spessore sicuro del tempo e che l’acquisizione di una nuova realtà non è l’happy end hollywoodiano, ma il possesso ulteriore di un Io che guarda all’Es col sorriso profondo delle creature diventate essenziali attraverso il coraggio di guardare se stesse.
[1] Riporto la trama come si trova in testa all’articolo di Emilio Cozzi “L’ombra del passato che ritorna, La finestra di fronte, di Ferzan Ozpetek” in “Cineforum” n. 424, Aprile 2003.
[2] Elisa Venco “La finestra di fronte: il sapore del tempo”, in “Duel”n. 103, Aprile 2003.
[3] Ferzan Ozpetek, nato a Istambul, il 3 Febbraio 1959, si è trasferito in Italia nel 1977, per studiare storia del cinema all’Università La Sapienza di Roma. Ha frequentato i corsi di regia all’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico” di Roma. Dopo aver collaborato con Julian Beck ed il Living Theatre, ha iniziato, nel 1982, l’attività di aiutoregista, prima con Massimo Troisi (“Scusate il ritardo”), poi con Maurizio Ponzi (“Son contento”). Da allora ha lavorato a lungo come aiuto regista a fianco di Ponzi, partecipando a tutti i suoi film. Ha lavorato anche con altri cineasti, tra cui Lombardo Bava, Ricky Tognazzi, Francesco Nuti, Sergio Citti, Marco Risi. Durante la collaborazione con quest’ultimo è nato il progetto del suo primo lungometraggio “Il bagno turco”, prodotto dallo stesso Risi assieme a Maurizio Tedesco. Il film, lanciato a Cannes 1997 nella sezione “Quinzaine des rèalizateurs”, ottenne un notevole successo di critica e di pubblico, in Italia e all’estero. Nel 1999 è uscito il suo secondo film, “Harem Suare”, presentato sempre a Cannes nella sezione “Un certain regard” e successivamente inviato al Festival di Toronto, Palm Spring, Londra. Acclamata dal pubblico e critica, la pellicola è stata venduta in trenta paesi. Nel 2001 Ozpetek ha diretto “Le fate ignoranti”, presentato in concorso al Festival di Berlino, dove ha avuto una grande accoglienza, così come in Italia, dove si è rivelato un vero e proprio trionfo. (da www.ferzanozpetek.com).
Psicologo psicoterapeuta SCRIPT Centro Psicologia Umanistica