Mangiare quando si ha fame e gustare il cibo nei suoi odori, sapori, colori sono attività che procurano sensazioni piacevoli. Ognuno mangia in funzione delle proprie abitudini, dei propri bisogni e della percezione di benessere che avverte.
I segnali del corpo – di fame e di sazietà – regolano in primo luogo il comportamento alimentare, ma esso tuttavia è intimamente connesso alla dimensione psicologica della persona, perché sin dalla nascita mangiare significa entrare in un’esperienza di relazione molto importante, quella con la madre.
Anche la cultura, le credenze personali e di gruppo, i valori religiosi e i rituali influenzano in maniera molto significativa l’alimentazione ed il comportamento alimentare delle persone. Mangiare insieme è un modo per incontrarsi, per conoscersi, per mediare discussioni di affari, per combinare matrimoni… significa essere in contatto ed essere in armonia con noi stessi, il nostro corpo e gli altri.
Le cose non sempre sono così regolari, non sempre viviamo in armonia con il nostro corpo, con il mondo e con gli altri; inoltre vi sono periodi della nostra vita in cui conflitti e delusioni inevitabili si ripercuotono sulla nostra modalità di nutrimento. Quando, a causa di queste tensioni, l’armonia tra le esigenze del corpo e i desideri della mente si interrompe, può accadere che si smetta di mangiare, trascurando i messaggi della fame, o che si ecceda reiteratamente, trascurando quelli della sazietà. Insorgono allora quelli che sono definiti disturbi alimentari: anoressia e bulimia, patologia che colpisce soprattutto le donne e, molto raramente, gli uomini.
A proposito di questa rilevanza sono state avanzate numerose ipotesi, ma un fatto è certo: la cultura femminile occidentale identifica in un corpo sottile, efebico, leggero e attivo l’ideale di bellezza. Le donne si mettono a dieta per influenzare e controllare il proprio peso, per rispondere alle aspettative che il mondo esterno ha su di loro, attese che influiscono sulla rappresentazione di sé. L’anoressia è una forma di sofferenza psicologica e corporea.
La persona che ne soffre è così assorta nelle proprie preoccupazioni e sofferenze da perdere il contatto con il corpo, quasi se ne distacca, vivendo in uno stato di sospensione e diventando fortemente inappetente.
Il disturbo insorge dai 16-17 anni (ci sono casi in cui si presenta fra i 12 e 13) fino ai 30 anni e si manifesta con due sintomi:- sul piano fisico si ha una forte perdita di peso (fino al 25% del peso normale), con conseguente deperimento organico e sofferenza degli organi interni, comparsa di colorito giallastro, perdita dei capelli, scomparsa delle mestruazioni;- sul piano psicologico vediamo che il pensiero si concentra sull’immagine del proprio corpo, sul terrore di perdere peso, e si forma la convinzione, del tutto disancorata dalla realtà, da parte delle donne affette da questo disturbo, di essere grasse. Il corpo è considerato un nemico da combattere.
Anche nella bulimia la persona sembra non tollerare la sofferenza psicologica e si può affermare che la converta in sofferenza fisica.
Questo disturbo è caratterizzato dall’ingerire con frenesia irresistibile, al di fuori della volontà della persona, una gran quantità di cibi, tendenzialmente grassi, dolci e cioccolata, rispetto ad altri cibi, come ad esempio i carboidrati.
In termini medici si parla di bulimia quando questi episodi durano almeno due ore, nel corso della giornata, e si ripetono come minimo due volte la settimana.
In successione alle abbuffate le persone possono ricorrere a contromisure come il vomito indotto, l’assunzione di diuretici e lassativi, la scelta di giornate di digiuno. Anche in questo caso, come per l’anoressia, le persone sono ossessionate dalla preoccupazione del peso corporeo.
I casi puri di anoressia e bulimia sono rari, è molto più frequente che la stessa persona alterni periodi anoressici e crisi bulimiche.
Un altro disturbo alimentare molto importante è l’obesità diversa dalla bulimia che, per le crisi di vomito e le crisi di vomito, è più vicina, come dinamica psicologica, all’anoressia.
L’obesità è un eccesso di grasso che supera di almeno il 20% il massimo previsto.
Si possono distinguere almeno due tipi di obesità: – l’obesità di sviluppo, che inizia nell’infanzia, ma non riguarda tutti i bambini obesi: il disturbo associa fattori costituzionali a distorsioni della personalità,
– l’obesità reattiva, che si sviluppa in reazione ad una forma di trauma, manifesto oppure segreto, che rientra nell’ordine della perdita, del lutto, della separazione oppure, ad esempio di un intervento chirurgico demolitore, come la mastectomia.Ci sono tre periodi critici per l’insorgere dell’obesità: la pubertà, la gravidanza e la menopausa.
Nella mezza età è possibile che si sviluppi un’obesità di questo tipo: il cibo viene vissuto come piacere sostitutivo di una carenza, può colmare il senso di vuoto, di perdita, può avere una funzione rassicurante, consolatoria, può essere un tentativo di autocura.
Spesso l’obesità viene vissuta come colpa, sia perché la società non gradisce la persona (e soprattutto la donna) obesa, sia perché la persona stessa sa di mangiare troppo, più di quanto il suo fabbisogno energetico individuale richiederebbe.
Il disturbo dell’obesità può avere varie funzioni per la persona, sia dal punto di vista intrapsichico che interpersonale.
Nel lavoro clinico si rivela di frequente come l’obesità possa costituire il massimo compromesso cui la persona può giungere per tutelarsi dalla paura, dall’angoscia di essere soffocata, ingoiata dall’altro e, nello stesso tempo, per poter un rapporto interpersonale. Un modo cioè per garantire a se stessi una forma di funzionamento autonomo, in assenza di altre opzioni.Le persone anoressiche, bulimiche ed obese sembrano avere degli elementi in comune, riguardo alle dinamiche della vita interiore: senso di vuoto e depressione.
Le terapie variano in funzione delle situazioni, della gravità, delle inclinazioni della persona, degli orientamenti del curante cui ci si rivolge.
Gli psicofarmaci possono essere utili in relazione ad un’ipotetica origine biologica del problema.
Più frequentemente la complessità dei casi consiglia un intervento che colleghi psichiatra, psicologo, dietologo e medico di base, dal momento che quest’ultimo è il primo professionista al quale ci si rivolge.
Affiancare una cura farmacologica con una psicoterapia può essere un valido strumento per sostenere la persona disturbata a prendersi cura di se stessa e ad aiutarsi per affrontare le difficoltà della vita che stanno alla base delle patologie alimentari, in modo che tutto ciò avvenga in modo più rispettoso, meno doloroso e con maggiori opportunità.
La psicoterapia può anche costituire uno spazio molto importante per la persona affetta da disturbi alimentari perché diventi per gradi essa stessa protagonista della propria esistenza, imparando così a riconoscere i propri sentimenti e i propri bisogni, a lungo sepolti e nascosti. Un cammino per imparare o reimparare ad avere un’amorevole autotutela e ad amare il corpo così com’è fatto.