Perché proprio Giulia?
Ho deciso di presentare un caso che lega la depressione al vissuto dei lutti perché culturalmente non sembriamo ancora in grado di dare il giusto valore a quello che il lutto per la morte di una persona significativa può rappresentare sul piano di strutturazione della personalità. Il dolore e lo spavento che derivano dal lutto “contro natura” per la morte di un figlio o di un genitore giovane di cui il figlio ha ancora molto bisogno, ne sono conseguenze naturali, ma questo non significa affatto che, in quanto “naturali”, possano essere superati senza lasciare tracce profonde in chi li ha vissuti.
Svolgo con passione la mia professione di psicoterapeuta, una passione legata al convincimento che una psicoterapia riuscita cambi la vita di una persona e influenzi la vita di coloro che vivono a contatto con quella persona. La mia esperienza con la Psicoterapia Centrata sul Cliente ha reso evidente ai miei occhi quanta poca attenzione le famiglie dedichino alle tracce che i lutti lasciano nei loro membri, soprattutto se bambini o adolescenti. Quelle tracce durano nelle persone e si tramandano di generazione in generazione come vissuti mai elaborati che, lentamente, si trasformano in costrutti rigidi e invisibili (Bowlby, 1961, 1969, 1988; Crittenden, 1994; Anfossi, 1999; Verlato, 2001; Ainsworth, 2006), L’ampia letteratura sulla teoria dell’attaccamento, gli studi svolti (Bowlby, 1961, 1969, 1988; Liotti, 1999; Liotti, 1999a) sugli effetti che una madre “spaventata e spaventante” possono avere su un bambino, dicono con chiarezza quello che ogni psicologo clinico sperimenta nella pratica professionale, e che a mio avviso trovano conferma nel caso di Giulia. Questa Cliente ha quarantacinque anni, è sposata con figli, ed approda alla psicoterapia dopo una lunga storia di depressione. Un originario contesto familiare “normale”, di impianto tradizionale, in cui i ruoli e i compiti erano chiari ed in cui scorrevano sentimenti autentici, pareva averle assicurato un’adeguata protezione. Il percorso psicoterapeutico, svolto con me nell’arco di quasi sei anni con alcune interruzioni concordate, rivelerà però come quella stessa famiglia, pur avendo evitato a Giulia il rischio della disorganizzazione, non sia stata in grado di proteggere la figlia dalla solitudine di vissuti indicibili. Vissuti che l’hanno accompagnata da sempre, legati alla scomparsa di una sorella di due anni e mezzo morta poco prima della sua nascita.
A lei, Giulia, la mia Cliente, va l’onore e il merito di avere reso visibile a se stessa le tracce di quei lutti, particolarmente di quello avvenuto nella sua famiglia prima della sua nascita. In questo modo, è riuscita a spezzare la trasmissione intergenerazionale della paura di vivere e di non avere diritto a una vita piena.
Il linguaggio della metafora
Il percorso psicoterapico con Giulia è stato caratterizzato dall’utilizzo del linguaggio metaforico. È una modalità che personalmente uso spesso nei rimandi empatici e che, e che in questa terapia è risultato molto efficace, facilitando nella Cliente l’emersione di altre metafore, in uno scambio comunicativo a lei congeniale. Le sue immagini, una volta affiorate dentro di lei, sono diventate strumenti potenti del lavoro con se stessa.
Giulia ha acconsentito ad essere “co-autrice” del presente lavoro, mettendomi a disposizione il diario che ha tenuto nel corso della terapia, e che descrivono appunto le immagini sulle quali abbiamo lavorato. Nel testo verranno riportati in corsivo sia brani dal diario, indicati da apposita dicitura che le frasi pronunciate in seduta.
Ecco come Giulia descrive la consapevolezza del proprio malessere e del ruolo delle “immagini”:
(dal diario di Giulia)
Quando iniziai questo percorso non avevo immagini. O forse sì, una c’era… Mi vedevo camminare verso una nebbia densa, chiara ma opaca, mi allontanavo e lentamente sparivo, mi dissolvevo là dentro, in quel vuoto di niente, annientata, al ‘nulla andata’, e con me annientavo finalmente quel grumo di dolore insopportabile, incontenibile, inestinguibile, che aveva contaminato tutta la mia vita e quella di chi mi stava vicino. Pensavo con pericolosa insistenza che solo ‘dissolvendomi’ in qualche modo, sparendo appunto, avrei annientato anche tutto quel ‘male’, che non potevo più sopportare.
Mi illudevo sempre che andando altrove, se quelle persone fossero cambiate, o la nostra relazione (di coppia) migliorata, se fosse successo questo piuttosto che quello, se mi fossi impegnata di più e bene, allora sarei riuscita a stare meglio…. Ma non succedeva mai. (…) Intanto il mio ‘male’ stava avvelenando tutto ciò che mi circondava, soprattutto il mio rapporto con le persone che amavo di più.
Non era là fuori che dovevo cercare, alla fine l’avevo capito. Era qualcosa dentro di me che non funzionava. Era qui dentro che dovevo cercare le risposte, per capire almeno ‘se’ fosse possibile stare un po’ meglio. (…) Iniziai così con M. una lunga, faticosa, ulteriormente dolorosa ricerca, un lungo percorso fatto di brevi tratti ‘illuminanti’, ma anche di lunghe, sfibranti, paludose pause, ed estenuanti salite…. oltre le quali però, via via sempre più spesso, ho svoltato su nuovi affascinanti panorami….senza nebbie dense…complessi magari, ma lucidi, trasparenti e chiari.
Le ‘immagini’ mi hanno aiutato fin dall’inizio a spiegare meglio, innanzitutto a me stessa, le sensazioni, le emozioni, i ‘vissuti’ su cui ero costantemente interrogata: ‘Ma lei come se lo vive tutto questo?’… ‘Che cosa prova mentre me lo racconta, quale è l’emozione che affiora in questo momento?’, ‘Cosa dice di lei, tutto questo?
Chi è Giulia
Giulia arriva in terapia all’inizio di ottobre del 2007. Si definisce una persona che fa sacrifici ma poi si aspetta un ritorno che non arriva, e non riesce ad evitare di starci male. Vive da pochi mesi in Toscana, e la ragione del trasferimento è il lavoro del marito, che ha chiesto ed ottenuto di poter lavorare in una sede universitaria dopo avere vissuto per parecchi anni nel Sud Italia. Il marito di Giulia, figlio unico, ha perso entrambi i genitori da molti anni, la famiglia di origine di Giulia, madre e due sorelle, vive nel Nord Italia. La Toscana è sembrata loro un giusto compromesso per avvicinarsi alla famiglia di lei senza tuttavia tornare nei luoghi di origine, pensando che questa sarebbe stata una buona soluzione per i loro tre figli.
Nonostante la difficoltà che sta vivendo, c’è in Giulia un barlume di energia, come se stesse seguendo un’ intuizione. Ed ha già fatto due tentativi di psicoterapia, che ha interrotto: il primo alla vigilia del suo trasferimento nel Sud: la nascita del primo figlio, seguita da una fase depressiva acuta, l’ha spinta a rivolgersi ad uno psicoterapeuta con cui ha avuto una decina di sedute. Al momento della partenza, le era stato consigliato di proseguire il percorso nel nuovo luogo di residenza, ma Giulia aveva sperato che il cambiamento di luogo e di vita, fosse sufficienti a farla stare bene. Dopo alcuni anni e la nascita di altri due figli, si era rivolta ad una psicoterapeuta di un servizio pubblico, che le era stata consigliata da amici. Anche in quel caso il percorso era durato una decina di incontri, al termine dei quali il feedback che le era stato restituito descriveva una depressione reattiva al trasferimento. Era esattamente quello che Giulia sperava di sentirsi dire: la sua sofferenza aveva a che fare con qualcosa di concreto che, in quanto tale, si poteva correggere cambiando un dato di realtà esterno.
Ora, già dopo pochi mesi dal nuovo trasferimento in Toscana, il marito di Giulia manifesta la sua insoddisfazione per questo trasferimento, e pensa con nostalgia al luogo in cui hanno vissuto per anni, dove lui ha costruito amicizie significative. È molto scontento di avere lasciato luoghi e persone che ha amato ed ipotizza di tornare nella zona dalla quale sono arrivati.
Senso di colpa e terrore
La “paralisi” emotiva e mentale, che Giulia condivide con me sin da subito, era iniziata nel periodo primaverile: “Un senso di colpa pazzesco, un senso di colpa che è degenerato in terrore”. Non sapeva rispondere alla domanda che gli amici le facevano: “Tu, che cosa vuoi?” Già nella prima seduta Giulia manifesta una grande paura di sbagliare e afferma: “Tutti stanno aspettando da me una scelta (…) Stavolta deve essere la cosa giusta per me”. Al costante senso di colpa per la sua incapacità di decidere si aggiunge desiderio di sparire, legato a un senso di grande inadeguatezza che la porta a chiedersi : “Se io non esistessi?”.
Si interroga sul marito e sui figli e fa i conti con l’incapacità di portare dati che riguardino se stessa. Pur se compaiono alcune espressioni riguardanti il sé, predomina il senso di colpa, non il senso di responsabilità personale rispetto ai problemi; i sentimenti sono descritti ma non sembrano vissuti, l’esperienza attuale è condizionata dalla struttura di quella passata. I costrutti personali sono rigidi e, in quanto tali, non vengono riconosciuti, i significati sono descritti in termini di “sempre” e “mai”. (Rogers, 1970).
Già nelle prime sedute del nostro percorso, emerge come per Giulia sia difficile rispondere alla domanda “Cosa vuoi?” perché la risposta presuppone un desiderio che non può percepire: “Nella mia testa (volere qualcosa) presuppone un merito (…) la necessità di meritarsi queste cose, io me le devo meritare”.
Nel frattempo, comincia a concretizzarsi l’ipotesi che il marito riprenda il suo lavoro nel Sud. Questo definisce una vita diversa da quella che la famiglia ha sempre, almeno apparentemente, vissuto: in breve Giulia si trova ad occuparsi in modo esclusivo dei figli, poiché il marito si è trasferito e torna a casa per trascorrere il week end con la famiglia ogni due settimane. Giulia parla della stanchezza che prova, un calo di energia, qualcosa che non riesce a capire bene e che chiama “pigrizia”, giustificata dalla sua stanchezza. Tutto questo la porta a non pensare, il non pensare come spazio di evasione; incomincia ad emergere la lunga serie di meccanismi di difesa che ha costruito per proteggersi. Giulia non sa ancora da cosa si deve proteggere e questa inconsapevolezza manifesta il suo livello di incongruenza: la distanza tra l’esperienza e la sua rappresentazione nella coscienza, sembra essere significativa (Rogers e Kinget; 1965, Rogers, 1970).
Al quarto colloquio Giulia parla di brevi momenti in cui, in passato, ha provato sorpresa nel far emergere alcuni suoi contenuti in modo chiaro e lucido. In ognuna di queste occasioni ricorda di avere provato la sensazione di non essere padrona del suo sentire e che quel sentire fosse solo una parentesi, ed ogni volta che si è sentita più chiara e più lucida, suo marito ha avuto un suo momento di crisi. Qui Giulia descrive la reazione automatica che ha sempre messo in atto in quei momenti: “Se uno ha bisogno, io lo aiuto. (…) Come se avesse importanza, valesse, solo quello che io posso fare per gli altri”. Se l’altro non riconosce il suo valore nel fare questo Giulia dice: “Mi sento distruggere dentro. ( …) Non so trovare un bandolo, capire dove è l’origine, mi sembra di avere sempre funzionato così. Questa è la vita, siamo nati per portare ciascuno la propria pena, a casa mia si ragiona così”, e riferendosi a questo “a casa mia”, aggiunge: “Mi sembra così lontano, l’ho sempre voluto negare…” ma non completa la frase. Dalle parole di Giulia comincia ad emergere lentamente ma con chiarezza che il malessere che prova da tanto tempo non può essere collegato dentro di sé alla sua storia di vita, perché questa ipotesi la fa sentire in colpa: “Sento questa cosa di non avere diritto di cercare fuori, soprattutto in cose che possono essere state così dolorose, giustificazioni (…) mi pare di non avere diritto di giustificarmi”.
Esplorando la storia di vita
Dopo i primi quattro colloqui iniziali, che di solito utilizzo per dare a me e al Cliente la possibilità di valutare se Il trattamento di elezione è la psicoterapia, se possiamo creare un’ alleanza terapeutica e se ritengo di essere la terapeuta giusta per il tipo di problema che il Cliente porta in seduta, ho proposto a Giulia di raccontarmi la sua storia di vita, spiegandole le ragioni della richiesta.
Ritengo che raccogliere in modo organico questi dati permetta di formalizzare una prima ipotesi sulle caratteristiche del Cliente, sul suo modo di costruire la realtà, e di fare altre ipotesi sulla natura del problema che ha portato il Cliente in terapia (Cionini e Mattei in Cionini 1993). Ugualmente, ripercorrere la storia di vita in un setting caratterizzato da mancanza di giudizio ed empatia del professionista, può facilitare nel Cliente l’emergere di emozioni, sentimenti e significati fino a quel momento lasciati in disparte nella coscienza. Generalmente propongo la raccolta della storia di vita all’interno dei quattro colloqui iniziali, ma in questo caso, come in altri, ho aspettato perché ho avvertito e rispettato il bisogno della Cliente di portare nelle prime sedute la sofferenza del “qui ed ora”. Le ho chiesto di raccontare la sua storia seguendo un criterio cronologico, per facilitare il tentativo di iniziare a dare un senso, un significato alle proprie esperienze. Ed ecco la storia di Giulia.
La madre si è sposata a 22 anni con un uomo di 13 anni più vecchio di lei. Giulia la descrive come una persona molto precisa nell’accudimento ma priva di manifestazioni affettive. Una donna molto presente e dominante in famiglia. Il padre era, nelle sue parole: “affettuosissimo (…) mi ricordo alcuni abbracci di mio padre, non mi ricordo quelli di mia madre”. Dopo Giulia sono nate due altre bambine, nell’arco di nove anni, mentre una figura importante della sua infanzia è stato un cuginetto coetaneo. Emerge la sensazione che sua madre non riuscisse a godersi i figli: “E mi riconosco molto e mi dispiace. E non me li godo i figli”. L’affettuosità del padre era diminuita con il passare degli anni. Giulia riporta di avere avuto l’impressione che lui avesse paura di vederla crescere. Ricorda con precisione il giorno in cui, a 5 anni, ha scoperto che la famiglia del cuginetto si era trasferita: “Mi ricordo un grandissimo dolore”. Le sorelle non sostituiranno mai il legame stretto con il cugino.
Giulia ricorda che a 7/8 anni non aveva paura dei mostri, ma aveva paura di morire. Porta come dato rilevante che a casa sua non si parlava di niente; per esempio i suoi non dichiaravano le loro posizioni politiche, che invece lei ha intuito.
Durante l‘adolescenza, in seguito ad una lunga malattia durata 5 anni il padre muore, unica fonte di reddito della famiglia. Questi eventi creano dunque non solo dolore ma anche molti problemi economici e finite le scuole superiori, Giulia cerca e trova lavoro portando nel frattempo avanti una storia con un ragazzo. Nei suoi ricordi, il primo episodio depressivo risale a questo periodo, durato circa un anno e mezzo. Era scontenta, si sentiva soffocare, era molto aumentata di peso. Fu portata da un medico che diagnosticò un “esaurimento nervoso”. Ricorda con piacere che, a un certo punto, provò una ribellione rispetto al lavoro che stava facendo. Decise di proseguire gli studi frequentando la Scuola Infermieri e lasciò il ragazzo a cui era legata, rimanendo sola per un paio di anni. In seduta riconosce che: “Finché non è questione di vita o di morte non mi sento in diritto di scegliere, non ho il coraggio. (…) È come se per occuparmi di me ci debba essere dolore. Non può essere un desiderio”. E aggiunge: “È qui il nocciolo della questione”.
Dalla storia di Giulia emerge un dato che mi sembra subito importante: lei non è la prima figlia bensì la seconda nella famiglia. La sorella maggiore è morta per una malformazione congenita all’età di due anni e mezzo, sei mesi prima della nascita di Giulia, alla quale viene imposto lo stesso nome della sorellina morta. Nello stesso periodo erano morti, a breve distanza l’uno dall’altro, i nonni paterni con cui la famiglia viveva. Giulia è nata in una situazione di lutto per la madre, che aveva perso una figlia ed i suoceri a cui era legata, e per il padre, che aveva perso una figlia ed entrambi i genitori.
È tra la sesta e la settima seduta che Giulia condivide questa parte della sua storia, ma non sembra riuscire ad attribuirle nessun significato che metta in relazione la sua sofferenza attuale a quegli eventi. Nella seduta successiva, porta una sensazione di spossatezza e racconta che solo dopo la nascita del suo primo figlio ha messo a fuoco la storia di sua madre: “Sapevamo che cosa era successo ma lei non ne ha mai parlato. Nessuno ha mai parlato di questa storia in maniera cronologica. Mia madre aveva ventiquattro anni quando è successo”. Giulia parla della nascita del suo primo figlio come di un momento straordinario, bellissimo, del senso di onnipotenza per avere dato la vita e, subito dopo, ricorda un’angoscia duratura e un grande senso di inadeguatezza. Le sue parole sono eloquenti: “(mio figlio, nascendo) era esposto a un mondo da cui non potevo difenderlo in maniera completa. Ho pensato che se lo avessi avuto chiaro prima non lo avrei fatto”, “L’ho fatto nascere e quale è la sua fine?”, “L’ho messo al mondo e lo espongo al rischio di soffrire”. Un pensiero che era insopportabile.
Il senso di colpa era tormentoso, ma Giulia capisce che è proprio il rischio della sofferenza quello che sua madre ha sempre cercato di evitare alle figlie, non parlando. Ricorda che quando si era ammalato il padre, la malattia “era lampante. Avevo sedici anni. Tutti sapevano però nessuno diceva niente”, e condivide poi di avere vissuto con la paura costante che il padre morisse e, con fatica, dice che si sentiva anche arrabbiata con lui e sperava che la morte avvenisse, provando, allo stesso tempo vergogna. Si vergognava anche dei voti bellissimi che otteneva a scuola perché si diceva: “Mio padre muore ed io penso a studiare!”
Alle radici del processo di cambiamento
La Cliente ha condiviso fatti, emozioni, sentimenti, che fin dall’inizio fanno ipotizzare una situazione di accudimento caratterizzata da figure di attaccamento a lutto, un lutto non elaborato, di cui non sono state valutate le conseguenze sulle generazioni successive. La Cliente stessa racconta ma non sembra assolutamente in grado, a questo stadio del processo, di connettere gli elementi.
Raccolta la storia di vita, definiamo l’obiettivo terapeutico, che per Giulia è quello di comprendere il malessere profondo che inquina la sua vita, per non provare più quel continuo desiderio di sparire che sente, come madre di tre figli, di non potersi permettere. Qui inizia il percorso vero e proprio di terapia, in questo caso Psicoterapia Centrata sul Cliente. La possibilità di essere accolta in una relazione in cui ho cercato di garantire costantemente presenza, accettazione positiva incondizionata ed empatia (Rogers 1957), permette a Giulia di esplorarsi, seppure con fatica e sofferenza, ed in questa fase, come in tutto il resto del percorso, è stato fondamentale rispettare le difese, alte, utilizzate dalla Cliente per costruire la sua realtà.
Paradossalmente, in questa terapia la fatica e la sofferenza provate sono state di aiuto. La Cliente, per la sua struttura, per le sue problematiche, aveva “bisogno” di passare attraverso un percorso doloroso che, in quanto tale, non la minacciasse, un percorso simile a quello nel parto e nella nascita . Come emergerà in seguito, la colpa aveva caratterizzato tutta la sua vita: Giulia doveva guadagnarsi il diritto di essere viva, Giulia non poteva accettare percorsi facili e la sofferenza l’autorizzava a continuare a vivere. Cosa della quale, all’inizio della terapia, non era consapevole.
In seduta inizia ad emergere quanto in Giulia il “locus of control” (Rotter, 1954) sia esterno: con sorpresa, considera che non aveva mai pensato di costruire la fiducia e la sicurezza cercandole dentro di sé, ma di avere sempre creduto di poterle trovare al di fuori. In questo senso, tipici meccanismi di difesa utilizzati da Giulia erano il distrarsi pensando ad altro, o fare le cose in modo meccanico, quasi scisso dal sentire. A due mesi dall’inizio della terapia, Giulia si è rinforzata nell’obiettivo di comprendere se stessa e un po’ si stupisce nel verificare che questo obiettivo non si annulla quando pensa che forse non servirà a salvare il suo matrimonio. Dal suo diario, ecco due immagini che si riferiscono a come si percepiva all’inizio della psicoterapia.
In diversi momenti del percorso, ma soprattutto all’inizio, prima di vedere ogni cosa, mi sono sentita molto fragile e vulnerabile.
Vedevo allora un fiume in piena, possente e vorticoso. Io lo dovevo attraversare per lasciarmi alle spalle una landa sterile, senza vita, e vedere se dall’altra parte ci fosse un luogo più ospitale. Ero certa di non potere più restare nel deserto, ma avevo solo la speranza di poter stare meglio di là, e anche il grande dubbio che chi stava con me prima non avesse alcuna intenzione di seguirmi. (…) Mi allontanavo da una sponda arida e assolata, ma ben nota, mi immergevo tra correnti impetuose e fredde, sbattuta da flutti violenti, trascinata, spaventata, verso una meta, un’altra sponda non ben visibile, forse verde e rigogliosa, forse no.
Prima di vedere ogni cosa, quando iniziai a cercare, parlavo di me, della mia vita di ogni giorno: io madre, io moglie, io casalinga, io lontana dai miei luoghi d’origine, la mia quotidianità insomma, a prima vista abbastanza “normale”, se non per il fatto che stavo malissimo.
Quando mi si chiedeva però – Cosa dice di lei questo fatto, questa reazione, questa emozione che affiora mentre racconta? – o peggio – Cosa vorrebbe per sé, cosa desidera?-, quando insomma mi si chiedeva di guardare dentro, per dare un senso a quello che succedeva intorno a me, una forte angoscia, un senso di affanno si affacciavano alla bocca dello stomaco e allontanarsi da lì diventava un imperativo. Seppur molto garbatamente, non mi era mai concesso di scappare, solo qualche volta ho potuto prendere un po’ di tempo.
Quel giorno invece diedi un nome a quella tremenda sensazione: era “vuoto”, angosciante, opprimente, soffocante vuoto.
Disegnai con la mente una enorme margherita, con grandi petali trasparenti di un tenue colore diverso l’uno dall’altro, attaccati, non si sa come, ad un “ centro vuoto”, al nulla , al niente. Nei petali vedevo me e le mie “mansioni”, i doveri, di moglie, di madre, di figlia, di sorella, di amica, di casalinga, di ex infermiera, di cittadina… circoscritti ciascuno nel proprio contorno, tanti e pesanti doveri, tante estenuanti sterili mansioni, petali di plastica sbiaditi attaccati al nulla, sostenuti da niente per me allora percepibile. Cosa dava un senso a tutto quel lavoro? Cosa aveva reso tutto così finto e sterile? Il vuoto.
Mi faceva troppa paura quel vuoto, mi ci perdevo. Guardarmi dentro mi spaventava:- ho la sensazione, appena mi cerco, di perdermi nel vuoto, che somiglia molto alla morte che temo tanto-. Non sapevo cosa ci dovesse stare in quel centro, se c’era mai stato qualcosa, se e cosa avrei potuto recuperare da metterci dentro.
Ora però sapevo che c’era, l’avevo visto, potevo affrontarlo, potevo cercare …
È in questa fase che emerge qualcosa che sarà molto importante all’interno del percorso. Giulia offre così, come una specie di ovvietà, un vero esempio di costrutto rigido, una convinzione apparentemente incrollabile che viene confusa con un dato di realtà: “L’atteggiamento di mia madre è ‘stai attenta, tanto le cose belle finiscono’ e io vivo al risparmio. Più sto bene, più questa cosa diventa minacciosa. Se mi lascio andare a stare bene, è come se questa minaccia fosse più vicina (…) dentro di me è come se non ci fosse dubbio rispetto a questa realtà”.
In questa fase i costrutti sono appunto ancora molto rigidi, ma inizia ad emergere l’inizio, flebile, di una messa in discussione. Dalle parole di Giulia emergono le modalità di scelta nelle relazioni: “Non scelgo, chiedo alle circostanze e a chi mi sta intorno di indurmi a fare una cosa. (Cerco) il bene per tutti e non per me. (…) per questo non hanno funzionato, per questo non capivo perché non funzionavano”. Giulia si apre con coraggio a nuove definizioni, realizza che i figli soffrono la nostalgia di avere lasciato i luoghi in cui hanno vissuto per anni, ma quello di cui soffrono di più è la precarietà ed incertezza della situazione famigliare.
Durante il percorso di psicoterapia, Giulia era consapevole del fatto che gli elementi di sé su cui lavorava non erano del tutto nuovi o estranei, e questo un po’ la stupiva: fino alla fine del percorso ha provato sorpresa, raramente compiacimento – per utilizzare la terminologia di Carl Rogers (1951) – nel “conoscere” pienamente cose che aveva visto già tanto tempo prima.
A 7/8 mesi dall’inizio della terapia, vedo Giulia molto sofferente, e che questa sofferenza l’affatica. Di fatto, gestisce praticamente da sola i suoi tre figli che, in questa fase del percorso terapeutico, hanno un’età che li colloca tra l’infanzia e l’adolescenza. Personalmente, sono preoccupata dal ripetersi di momenti di crisi, penso agli episodi depressivi che hanno segnato tutta la vita, salvo per pochi rari momenti che lei stessa ha riferito durante le sedute. Le propongo un consulto psichiatrico, che ritengo sia utile per valutare se affiancare alla psicoterapia una terapia farmacologica che possa dare sollievo ai suoi sintomi depressivi: stanchezza, senso di inutilità, sensazione di girare a vuoto, senso di sfiducia nella propria possibilità di stare meglio, difficoltà a relazionarsi sulla base delle emozioni e non solo dei compiti, incapacità a godere della vita, sia delle piccole cose che dei rapporti importanti. Giulia non accetterà e, molto tempo dopo, mi dirà che era così difficile per lei dare credito ai suoi vissuti che non sarebbe mai riuscita a dare credito a se stessa se avesse accettato la somministrazione di farmaci.
Molto dopo questa fase, il processo psicoterapeutico mette Giulia in grado di elaborare la ragione per cui, a suo tempo, non era stato possibile per lei accettare il consulto psichiatrico: riconoscere che la sua depressione, fino a quel momento cronica, non fosse dovuta a ragioni contingenti come aveva sempre creduto ma fosse legata alla sua impossibilità di riconoscere a se stessa il diritto all’esistenza, era un dato così drammatico che modificava radicalmente l’idea che aveva di se stessa, del suo rapporto con gli altri e con il mondo. Una eventuale farmacoterapia era percepita da Giulia, ex infermiera professionale, come un elemento che avrebbe diminuito la sua fiducia nel processo personale che stava percorrendo, avvertendo il rischio di attribuire ai farmaci quello che stava esperendo. lei stessa valuterà come importante questo momento del percorso, perché le ha dato l’occasione di trovare la forza per reagire.
Ho accolto la scelta di Giulia sentendo tutta la responsabilità nel proseguire il percorso psicoterapico. Si è trattato di una decisione che mi ha messa in gioco come professionista: la mia valutazione clinica è stata che non c’erano rischi di vita per la Cliente, nonostante il grado alto di sofferenza, né per i cari affidati alle sue cure – nonostante questa fosse povera di aspetti emotivi- ed ho continuato a monitorare la situazione.
Giulia osservava sempre con precisione il contratto che avevamo stabilito, puntuale e attenta nel rispetto degli appuntamenti, che si interrompevano per i periodi di vacanze scolastiche quando, per ragioni di gestione della famiglia, non poteva garantire la sua presenza, nel rispetto di quanto era stato stabilito come parte del contratto terapeutico.
Dalla platea al palcoscenico
Dopo circa due anni dall’inizio della terapia Giulia dice: “C’erano tutti i tasselli del puzzle però non erano agganciati” e aggiunge “Il mio funzionamento di prima comportava che non potessi sentirmi bene se un altro stava male, e tanto meno potevo manifestarlo. (…) ora sembra che io possa farlo. Comincia a venirmi in maniera naturale. Sì, questa è una sorpresa, mi aspetterei reazioni diverse da me”.
Emerge poi con chiarezza che la poca comunicazione con i figli ha a che fare con “essere una margherita senza il centro”. Lei è sempre stata presente nella loro vita, li ha sempre accuditi, ma la sua modalità di difesa dell’estraniamento può avere reso difficile per quei bambini ora diventati ragazzi rapportarsi con lei. Come ci si rapporta con un’ombra? Mano a mano che il centro di quella margherita si riempiva, mano a mano che quel fiore diventava tale e non era più un vuoto a cui erano attaccati dei petali di plastica trasparente, mano a mano che lei diventava persona, la comunicazione diventava possibile. Giulia madre diventa una persona reale, che ha, in quanto tale, anche dei bisogni: in questo modo, prende consapevolezza del fatto di avere sopportato i problemi dei figli creando un distacco per non soffrirne in modo insopportabile.
Allo scadere del secondo anno di terapia, le viene offerto quello che lei stessa definisce “un lavoretto”. Alla fine lo rifiuterà perché male si concilia con le esigenze famigliari, con un marito che lavora molto lontano da casa e che torna ogni due settimane e i figli che si aspettano di passare le pause scolastiche in vacanza lontano da casa. La proposta ricevuta diventa un’occasione preziosa per lavorare sulla sua difficoltà quando è davanti a una scelta: “Se non sono io a scegliere veramente, non sono io responsabile. Se qualcosa non va bene mi sento più giustificata. Ho questo bisogno. Mi devo sempre difendere dal sentirmi in colpa. Il senso di colpa mina in realtà… (pausa) è qualcosa che va ben al di là della situazione. Entra dentro, non può non entrare dentro. Non c’è un confine, non c’è una barriera. L’errore entra dentro e un po’ mi distrugge. È una minaccia molto più grossa di quanto sia il banale contesto esterno. Se poi non va bene, che cosa mi succede? Per come sono stata io, mi potrebbe demolire”. Subito dopo, nella stessa seduta, Giulia dice: “L’emozione, quando entro così in fondo, è sempre di sorpresa e di commozione positiva. Sono pensieri che illuminano, come dire, delle aree sopite o oscurate”.
In questo periodo ritorna l’immagine accennata in altri momenti del percorso, “la candela accesa”, quel sentirsi una candela che può stare accesa per poco tempo per non consumarsi. Si lavora insieme sull’ipotesi sofferta che, nel rapporto con i figli, questo abbia portato a una tendenza a frenare, frenare se stessa, frenare loro. Vivere è pauroso, ci si consuma, si rischia di morire. Questa terapia è stata caratterizzata dal ritorno continuo su temi che pure si erano presentati già all’inizio. L’esperienza emozionale correttiva (Alexander e French, 1946) ha bisogno di tempo per diventare reale, profonda, modificante. Verificare la pervasività del proprio modo di costruire la realtà richiede tempo, attenzione, disponibilità ad essere in contatto con il proprio processo anche fuori dalle ore di terapia.
Un’altra immagine creata da Giulia è stata un potente strumento di lavoro: c’è un teatro, c’è un palcoscenico, c’è una platea. Sul palcoscenico ci sono gli attori, che vivono la scena, la scena della vita. Per molto tempo Giulia è stata in platea, ha visto scorrere la vita che non poteva permettersi di vivere. Ora, in questa fase della terapia, lei non è più in platea, ha salito anche la scaletta che porta al palcoscenico. È sul palcoscenico e da un po’ di tempo sta cercando di vivere, ma nei momenti di difficoltà la sua immagine sul palcoscenico è sdoppiata. Recita i suoi ruoli ma non vive veramente, anche se oggi si osserva molto da vicino. Quando la parte più vera si avvicina, Giulia non ce la fa a fondersi con la sua controfigura, e dice: “C’è un meccanismo che devo smantellare, un meccanismo che è così potente!” In questi momenti Giulia contatta la sua profonda solitudine, accompagnata da un pensiero che si insinua nella sua mente: “Dovresti accontentarti!” È un pensiero che ha un tono di rimprovero, diventa giudicante e colpisce là dove è il senso di colpa. Con dolore Giulia riconosce che questa incapacità di vivere e di gioire è stata forse determinante nella relazione di coppia: “Mio marito mi chiedeva di stare serena, di non affliggermi, ma il meccanismo è micidiale, incontrollabile”. Questo è il momento della terapia in cui per Giulia diventa chiaro che non può concedersi di non sentirsi in colpa. Non sentirsi in colpa è una colpa grave: “Bisogna meritarselo di stare al mondo. Se non stai male e non ti patisci le giornate, quella giornata lì è un regalo, perché a te sì e a un altro no? È un’ingiustizia. L’unica cosa che cambia è che me ne accorgo. Più o meno velocemente ma me ne accorgo. È un debito inestinguibile”.
(dal diario di Giulia)
Della vita mi sono negata soprattutto la parte buona. Se si potesse semplificare l’idea di vita come l’insieme delle “cose belle” di cui poter godere e gioire, e di ”cose brutte” di cui soffrire e piangere, ecco io mi sono negata in modo quasi assoluto le prime; le altre invece le ho tenute care, cercate, qualche volta inventate, purché non mancassero mai. Ho acceso poco “ la mia candela”, e quasi sempre solo per vivermi le “cose brutte”, le paure, le ansie, le preoccupazioni, i problemi, le fatiche, le sconfitte, gli insuccessi…Ho scoperto presto con cupo stupore quali pensieri, finora inconsapevoli, stavano dietro a tutto ciò (…) L’ultimo, il debito infinito, è in realtà la vera sorgente di tutto il mio “male.
Io sono viva, lei no . PERCHÉ?
Lei è mia sorella, è morta sei mesi prima che io nascessi, porto il suo nome, l’ho sostituita, ho preso il suo posto, io resto viva, lei no! Perché?
Se mi è concesso “il privilegio” di continuare a vivere, di non finire là sotto, me lo devo meritare, guadagnare ogni giorno, ogni ora, ogni minuto… Devo essere brava, piacere a tutti, aiutare tutti, consolare tutti, sempre, per sempre. È un debito infinito. (…) Come posso pensare di poter essere “anche felice”, di godermi questa vita, al posto suo? Non è giusto e se non è giusto non vale, la mia vita “ non vale”, io non ho il diritto di esistere, né tanto meno di stare bene.
È un delirio ora lo so, sono pazzesche e distruttive le difese che ho messo in atto, ma ero troppo piccola quando ho cominciato a lottare contro questi fantasmi oscuri, così piccola che non ero ancora capace di chiedere aiuto. Mentre crescevo, poi, tutto si è confuso in un’apparente normalità, sotto la quale io covavo quel subdolo dolore che è diventato il mio “male oscuro”.
Ho sempre avuto una grande paura di morire, in realtà, sin da bambina piccolissima, paura di finire in una tomba fredda e grigia , come quella di mia sorella, quella che andavo a lucidare ogni domenica, con i miei genitori.
Probabilmente sin da allora ho elaborato la mia distruttiva strategia di difesa da quell’angoscioso terrore: “ Se non vivo, non muoio!”, “ Se vivo, mi consumo, come una candela accesa, e alla fine mi spengo, muoio, quindi meglio stare spenta, accesa con parsimonia, poco poco, ogni tanto, per durare di più. È così che la paura di morire è diventata paura di vivere.
L’experiencing, ovvero l’apertura all’esperienza, (Rogers, 1961) è molto cambiato in Giulia: “Gran parte del processo terapeutico consiste proprio nella scoperta continua, che il cliente fa, di stare sperimentando sentimenti e atteggiamenti di cui prima non riusciva a rendersi conto e che non riusciva ad “accettare come parte di sé” (Rogers, 1951, p. 186). In questa fase della terapia, i costrutti sono guardati dal Cliente come tali e non più come dati di fatto. Le modalità delle relazioni sono riconosciute come riflesso del proprio modo di essere. Le soluzioni ai problemi sono viste ma si teme ancora che non siano efficaci. Il processo terapeutico così come teorizzato da Carl Rogers (1942, 1951), trova qui una esemplificazione, la trova proprio attraverso le parole che la Cliente porta nelle sedute come pure in quello che scrive nel diario che ha accompagnato, a parte un periodo di alcuni mesi, tutto il percorso della psicoterapia.
L’approccio psicoterapeutico è stato, come ho detto all’inizio di questa trattazione, la Psicoterapia Centrata sul Cliente, una terapia non direttiva che non impone al Cliente strade ed obiettivi da perseguire ma che è, allo stesso tempo, profondamente direzionale in quanto orientata alla funzionalità della persona. In questa visione, una persona “sana”, ben funzionante, è una persona che si relaziona con se stessa, con gli altri e con il mondo in modo flessibile. Fa suoi i dati dell’esperienza e trova i modi per fare fronte a esperienza inattese, fiduciosa nella propria creatività davanti ai problemi. È una persona che sa di poter trovare dentro di sé i significati e le soluzioni, una persona, quindi, dotata di capacità di empowerment. A questo punto del processo terapeutico Giulia sembra essersi incamminata su questa strada.
Una nuova realtà
Il periodo della pausa estiva è un momento importante nella vita della Cliente e della sua famiglia. I compiti si allentano e, allo stesso tempo, la famiglia si riunisce. Interrompiamo la terapia fino a dopo l’inizio del nuovo anno scolastico, come sempre. Nell’estate 2009 Giulia riesce a trascorrere delle buone vacanze: è in maggiore contatto con se stessa, percepisce il ruolo che ha avuto nel suo matrimonio, come si sia sempre aspettata di esistere in quanto riflessa nell’altro. Sente di stare sempre di più sul palcoscenico. Realizza con chiarezza che è importante, per lei, iniziare a parlare “in prima persona”. Apprezza il benessere che prova in questo periodo e, pur addolorandosi nel vedere che suo marito sta male, non se ne fa carico, non definisce la sofferenza dell’altro una sua colpa. Mano a mano che il cuore della margherita si riempie, aumenta la possibilità di differenziarsi dalle persone significative della sua vita.
Riprendiamo la terapia dopo l’estate e arriviamo alla vigilia delle vacanze natalizie. Questo è un momento in cui Giulia si confronta con la propria realtà interna ed esterna: la famiglia trascorre il periodo nel luogo di origine di Giulia che si trova esposta allo sguardo di chi la conosce bene. Ecco come si catalizza ciò che sta vivendo: “Non è un buon periodo. Sono sostanzialmente, non voglio dire depressa, ma scoraggiata, sfiduciata”. È aumentata la sua capacità di differenziare gli stati d’animo e di simbolizzarli in modo accurato: “Mi metto da parte, mi siedo sul bordo del palcoscenico. Più mi avvicino più le cose che avvengono mi sconvolgono. Quasi per difendermi mi metto da parte (…) Ora capisco che tutto dipende da come mi vivo queste cose però non riesco ad andare oltre (…). Ho anche un’idea di come dovrei reagire ma uscire dalla routine è minaccioso. La controfigura lavora meglio nella routine. Lo so, ma l’unica differenza è che mi fa arrabbiare. Mi dico che non è giusto (…). Se io morissi, che ricordo lascerei ai miei figli? Solo questa madre che non riesce a vivere la sua vita. Dovrei essere abbastanza forte e sentirmi abbastanza, meritando di vivere la mia vita serenamente”. Seppure retta da un “dovrei”, qui Giulia inizia ad esprimersi in una forma positiva, affermativa, e progressivamente a potersi permettere di dire “Voglio”, di chiedersi “Cosa voglio?” e rispondersi senza quella paura paralizzante che conosce così bene. È qui che l’obiettivo della terapia diventa quello di “migliorare la propria vita”.
È stato fin qui un viaggio lungo e faticoso. Ora la barca è pronta, sono state caricate le provviste e Giulia ha una mappa di sé che l’aiuta ad orientarsi. Può definire la sua meta e le tappe intermedie per arrivare al benessere di cui ha avuto tanta paura. Anche la prossima parte del viaggio non sarà facile, ci saranno le giornate senza vento dove sembra che la barca resti arenata per sempre, ci saranno lunghi momenti di stallo, ma poi il vento si alzerà e sarà possibile ripartire. Giulia simbolizza che la dinamica relazionale con il marito che doveva essere la sua salvezza, “Tu mi riconoscerai che ho diritto di stare al mondo”, è diventata la sua rovina. Riconosce che se il matrimonio finirà non avrà senso cercare il o i colpevoli. Inizia a vedere il cambiamento non come una catastrofe imminente ma come la possibilità di “non continuare una vita così orribile”. Prova rabbia per gli eventi che si stanno verificando nella vita di coppia e non si sente in colpa per quello che prova, perché riconosce alla rabbia la funzione di essere fonte di energia. Percepisce il rischio e le potenzialità del restare sola, teme l’impatto di una possibile separazione sui figli. Nei primi mesi del 2010, parlando del suo stato d’animo in seduta dice: “Sono stata, non usiamo la parola ‘depressa’, giù di tono, molto giù di tono. Appena non conservo la rabbia, mi deprimo”. Definisce la relazione di coppia una dipendenza e aggiunge: “Dovrei riuscire a vedere la mia vita indipendentemente da questo”. A fine seduta conclude: “Quando ho questi momenti di chiarezza, mi sento molto meno depressa. Il vedere mi toglie il malumore”.
Tra la seconda parte del 2009 e la prima del 2010, Giulia non scrive nulla sul suo diario. Il 2010 è un anno complesso nella vita di questa Cliente. La crisi di coppia crea in lei un senso di vulnerabilità e un’alternanza tra senso di colpa per il passato e per come lo ha vissuto, e rabbia ma anche speranza di riuscire a modificare profondamente la relazione. In questo periodo due dei figli attraversano l’adolescenza e uno si avvicina alla pre-adolescenza. Il rapporto con la figlia è difficile: è una ragazzina vitale, capace di desiderare e di volere, molto diversa da come è stata ed è Giulia. I ragazzi rispondono, ognuno a suo modo, alla crisi della coppia genitoriale.
Giulia non ha mai abbandonato la speranza che la sua “guarigione” possa giovare al suo matrimonio. Eppure adesso verifica che non è così, ed anzi, il suo stare meglio sembra allontanare suo marito poiché modifica gli equilibri della loro coppia, che sono anche gli equilibri della loro sofferenza. Questo la scuote emotivamente e la paralizza nei comportamenti. Contatta con spavento, ma anche con sorpresa e commozione, che non le basta il bene del marito e quello della famiglia e dice: “Nuova è la sensazione di non poter prescindere da questo (…) ho paura che non ci sia proprio, che non possa esistere ‘io voglio, io desidero’. Quando abbiamo aperto quello scrigno dei miei fantasmi ho detto la mia paura che non ci fosse niente lì dentro. Che avere costruito quell’armatura non abbia lasciato niente dentro. Ho questa sensazione. (…) Mi fa paura non vederlo questo desiderio, ho paura di non trovarlo, vanificherebbe tutto questo lavoro, questa fatica. E ci sono momenti della vita in cui queste parole ‘voglio, desidero’ sono più ‘normali’”.
Questi momenti della terapia sono stati difficili anche per me. Ho sentito la sua sofferenza, la paura di non farcela, di tornare indietro e di inabissarsi nel buco nero. Ma sempre vedevo una fiammella là in fondo e provavo la fiducia nel fatto che non si torna indietro quando si è contattata la propria verità interiore e si è a lungo sostato a guardarla, toccarla, assaporarla. Quella verità interiore che rimette in contatto con il proprio Sé organismico (Rogers, 1970), quella che dice che ci si è allontanati dalle proprie risorse per diventare altro da Sé. Ci sono stati momenti in cui Giulia si è sentita incoraggiata proprio dal suo sentire: “Ho riconosciuto due giorni fa, l’ho proprio espresso un giorno fa e forse solo in questi giorni mi sono concessa di promuoverlo da bisogno nel senso di, non mi viene la parola, di dipendenza, come quando hai bisogno di una medicina, a bisogno nel senso di desiderio (…) . Se io riesco a vedere il desiderio, posso fare delle cose, se lo vedo come necessità, scatta il meccanismo del meritare (…)”. Questi sentimenti si alternano alle constatazioni più amare: “Quando ci sei senza esserci non c’è soddisfazione, c’è solo fatica. Come se ci fosse una voce che è dentro di me ma che io sento non mia, che dice tre parole ‘Sei viva , accontentati’. E il buco nero è là, non si esce da lì”. Giulia parla della sua depressione di ieri come di “depressione opaca” e di quella che ancora la tormenta come di “depressione lucida”, che toglie le prospettive ma ne conosci il perché: “Provi anche rabbia, devi sforzarti per fare ogni cosa e la tendenza sarebbe ancora di sparire ma non si può”. Continua, nella relazione di coppia, a intrappolarsi nel ruolo di capro espiatorio ma poi dice: “Ho letto quei quaderni e ho ritrovato alcune immagini di cui ci servivamo. Quando leggo quei quaderni, è come se ritrovassi il timone”.
Per l’estate esprime i suoi desideri: “La vacanza si sta definendo come va bene a me. Si, mi sento più assertiva”. Inizia a riconoscersi competente nei confronti dei figli che, di fatto, ha cresciuto autonomamente, soprattutto in questi ultimi tre anni in cui ha vissuto da sola con loro. È questo il momento in cui emerge con chiarezza una dinamica relazionale presente soprattutto, ma non solo, nella coppia. Riuscire a leggerla le sarà di aiuto nel definire gli obiettivi di vita: “Quando li dico a lui sono molto più fragili, sono pensieri che si frantumano. Come se si scontrassero con questo muro. Qui (in terapia) ho la sensazione di non dire mai qualcosa di sbagliato, con lui ho sempre la sensazione di dire qualcosa di sbagliato (…). Una volta i miei pensieri, i miei sentimenti, cambiavano se dovevo contrappormi a una persona che la pensava non come me. Ora perdo energia nell’esprimerli, mi confonde (…). Più la persona è vicina, più incide. Non mi impedisce di vedere chiaro il pensiero, mi influenza nel modo di esprimerlo, lo esprimo in maniera meno efficace (…). Rispetto a prima, riesco a salvarlo”.
Giulia scopre nuovi significati e il trasferimento in Toscana, che sembrava essere stata la ragione ultima della crisi personale e di coppia, la causa di destabilizzazione del sistema, viene così decodificato: “A me non è andata male, diciamolo. Non ho più bisogno di pensare che da un’altra parte sarebbe meglio”. Incomincia ad intuire che dietro l’apparente spensieratezza e volitività della figlia ci siano conflitti e dolori accantonati: “Non lo so, quelle cose che deposita là che fine fanno. Lei cerca di evitare di stare male”. Diventa consapevole che le sue reazioni rispetto alla figlia sono reazioni di paura, la paura dello slancio vitale, quello slancio che lei si è sempre negata per paura di morirne. Giulia ha, nel frattempo, imparato a non avere paura dei momenti in cui si sente nelle sabbie mobili. Ha fiducia nel fatto che quei momenti non saranno per sempre. Nell’esperienza clinica questa è un’acquisizione fondamentale nelle situazioni di depressione ricorrente. La fiducia di stare attraversando un momento doloroso e difficile ma che non sarà per sempre così, è di grande aiuto. Quando i Clienti raggiungono, non perché “imparano” ma acquisiscono questa consapevolezza, la depressione perde una delle sue più angoscianti connotazioni, quella che fa sentire preda di qualcosa che rende impotenti, e si riacquista la speranza.
All’attacco della “bestia”
Dopo le vacanze natalizie, momento in cui le dinamiche di coppia diventano più evidenti, in cui subentra la delusione rispetto ad aspettative che ancora ci sono rispetto alla coppia, Giulia attraversa nuovamente una fase depressiva. La depressione, “ la bestia”, in fondo è un’amica fedele a cui rimanere abbracciata e che importa se sul palcoscenico c’è chi vive? Stare accanto nei momenti di ricaduta è una delle cose più difficili nella nostra professione. È qui che si misura la nostra fiducia nella Tendenza Attualizzante del Cliente (Rogers, 1951). La Tendenza Attualizzante è il postulato di base della Terapia Centrata sul Cliente. La fiducia nella innata capacità di ogni essere vivente di tendere alla realizzazione del sé. Un sé che si svilupperà in modo armonico se facilitato dalle condizioni che favoriscono la crescita. La psicoterapia offre alle persone che ne fanno richiesta la possibilità di realizzare la propria tendenza all’attualizzazione del sé, proprio perché facilitate nel setting terapeutico poiché, in questo approccio, il setting garantisce costantemente accettazione positiva incondizionata, congruenza del terapeuta – vale a dire autenticità e trasparenza – ed empatia (Rogers, 1951, 1961, 1962, 1977, 1980). Nei momenti di impasse è qui che si misura il nostro equilibrio, la nostra capacità di non farci invadere dalla sofferenza dell’altro che si potrebbe confondere con il timore di essere inadeguati: sto facendo la cosa giusta? Sto facilitando il suo processo? Cosa sta accadendo al processo di questa Persona che da tre anni viene con regolarità in terapia, di cui sento la rabbia anche nei miei confronti, di cui vedo la delusione, la delusione nei confronti di se stessa, di una Giulia che ha creduto di avere diritto alla vita? Accetto, accolgo, faccio rimandi empatici, gestisco il mio dispiacere e i miei dubbi riconoscendo cose che “dicono di me” e non della Cliente.
Giulia esce da una seduta angosciosa e angosciante con il sollievo di “essersi spiegata bene” ed io verifico ancora una volta quanto sia importante non aver paura e non rinunciare mai al responso empatico, perché sentirsi compreso aumenta nel Cliente, il senso di autoefficacia: se la psicoterapeuta mi capisce vuol dire che mi sono saputa spiegare, non sono un fallimento, non sono nel caos. Nelle sedute successive aumenta in Giulia la capacità di differenziazione, la simbolizzazione è molto più accurata. Si definisce : “…passiva, non paralizzata”, una passività che è una forma di protesta: “protesta è meno azzardato di rabbia, c’è una cosa di questo genere che contrasta la depressione assoluta, la disperazione. (…) questa protesta prima non c’era mai”. Qui comincia a delinearsi quella che è la realtà della vita di coppia con cui sta facendo i conti: “Sto cercando di tenermi lontana” (per proteggermi). Emerge in modo nitido un ricordo, di essere stata più aperta, più pronta alla vita tra il 1987 e l’88, nel periodo in cui ha incontrato il marito e dice: “Intuivo che non era reale, ricordo anche di averglielo detto: «Non sono come tu mi vedi»”. Rivela che il suo crollo di umore attuale è iniziato nel periodo delle ultime vacanze natalizie per una ragione ben precisa. Il marito le ha chiesto aiuto, le ha proposto di tornare a vivere nella città del Sud dove hanno vissuto per molti anni, le ha chiesto “di condividere in modo entusiasta e devoto il suo sogno”.
Giulia oggi sa che non è quello che vuole, che non crede più che i luoghi, le circostanze, cambino una persona, cambino una relazione. Dice: “Invece io ho bisogno di qualcuno che mi vuole bene indipendentemente da quanto io lo aiuti a realizzare il suo sogno!” e ancora: “Io devo affrancarmi da quest’uomo, se no, non ne vengo fuori”. Qui comincia la risalita: “Mi devo affrancare, non riesco a trovare un termine migliore, che non significa che me ne devo andare ma che devo diventare autonoma, il mio stato d’animo non deve (dipendere) da questa relazione. (…) Sì, è questo il punto. L’equilibrio malsano che abbiamo retto è questo. Io ho bisogno di (pausa) il solito, di valutare (pausa) di vedere ciò che sono attraverso il rimando della persona più vicina. Continuo ad armeggiare intorno a questo meccanismo semiautomatico, e se i rimandi non sono positivi, io sparisco. (…) i rimandi sono di colpevolizzazione, sei sbagliata, non sei stata capace di farmi stare bene, io sto male, tu mi devi aiutare però non c’è niente che puoi fare per me. E io sparisco. L’ultima volta non mi sono solo depressa, mi sono anche arrabbiata, forse è stata questa la cosa che mi ha fatto stare male però mi ha anche aiutata a non annegare in quella depressione, perché di solito (nella relazione con lui), ci annego”.
Nel colloquio successivo, Giulia comunica che è tornata l’energia: il setting terapeutico, dove può esprimersi liberamente, senza timore di giudizio, le ha consentito di “dirsi la verità” e cominciare a definire obiettivi non relativi al mondo esterno, ma a sé stessa. Ora quello che sembrava intollerabile ha acquistato una dimensione diversa. Porta con orgoglio di avere la sensazione che ci sia corrispondenza tra il sentire e l’agire: “Uno pensa a un cambiamento progressivo, piano piano, invece in questo percorso si va un po’ a spirale e uno ha l’impressione di essere di nuovo a un punto di partenza… (ma) Il sentirmi bene mi dà la conferma”. Nel periodo successivo continua la sensazione di “sintonia tra quello che dico, quello che penso, quello che sento e quello che faccio, che è difficile mettermi in dubbio. Non sono sicura dell’esito positivo di questa cosa, sto attenta a non illudermi, però sto bene e me la godo. (…) Una sensazione così chiara di come potrebbe essere la mia vita, indipendentemente da chi mi sta intorno, non perché non voglia averci a che fare (…), effettivamente è una cosa nuova”. Aumenta l’empatia nei confronti del marito, Giulia vede quanto siano stati speculari: “(dall’altro) mi arriva solo lo sforzo di accontentarmi, per il bene della mia famiglia, dei ragazzi. Non sono cose che non hanno valore. Ma è sempre una cosa che ci sforziamo di fare. Nessuno di noi due si sente amato, sostenuto; entrambi ci sentiamo solissimi. Io devo fare delle scelte, mi rendo conto che le devo fare io. ( …) Devo andare oltre questa cosa qua. Devo far girare la mia voglia di vivere intorno a qualcos’altro. Devo riuscire ad andare oltre, proprio come dopo un lutto. In fondo, è un vissuto molto simile, ma più complicato. (Lui) non c’è più, però c’è. Mi devo anche io rassegnare, nel senso di accettare, e andare oltre”.
Inizia qui un periodo in cui Giulia vive la sua quotidianità, che è sempre la stessa, con maggiore leggerezza, una leggerezza che non significa superficialità. Sembra un momento di sintesi: “Forse inconsciamente ho sempre avuto l’obiettivo della sopravvivenza non avendo il diritto all’esistenza. Quando lo pensi sembra banale, quando lo senti non lo è”. L’estate 2011 viene definita, al ritorno, “Un’estate proficua, un’estate non subita, mai”. L’ansia di sentirsi in colpa, che l’aveva portata a cercare di tenere sotto controllo la sua vita, si è evoluta in una diversa forma di gestione dei problemi: “vedendoli distinti, mi aiuta a controllarli”.
In questo periodo, il marito di Giulia decide di chiedere un ulteriore trasferimento e di tornare a lavorare il Toscana. Questo crea uno scompenso in Giulia: ha paura che la sua presenza la porti a confrontarsi quotidianamente con il proprio cambiamento nei suoi confronti. È a questo punto che Giulia chiede di passare a sedute quindicinali. Sento la sua stanchezza, le rimando i timori che porta. Accetto la sua proposta, ritengo che sia diventata molto capace di attraversare i suoi momenti depressivi, di riconoscerli e leggerli. Non dipendono dal cambiamento di stagione, sono strettamente legati ad eventi che fanno emergere vissuti emotivi che la riportano nella spirale, alla paura di ripartire da capo. Poi vengono lasciati alle spalle con l’acquisizione di nuove consapevolezze. È il momento in cui ritengo importante ri-contrattare, ridefinire un obiettivo terapeutico.
Verso l’obiettivo
La “capricciosità” che Giulia descrive e porta si presenta anche in seduta. Dice di non avere più un obiettivo, che si aspetta che io lo definisca. Inizia un periodo nella terapia che non esito a definire drammatico: sei mesi contrassegnati da sedute quindicinali in cui la Cliente ha faticato a definire un obiettivo pur continuando a venire con puntualità. La crisi matrimoniale è sempre più acuta, la presenza del marito in casa tutti i giorni, non più solo per un weekend ogni quindici, riattiva le vecchie dinamiche. Giulia sa di essere cambiata ma fa fatica a mettere in pratica il cambiamento nella quotidianità di una relazione che da lungo tempo significa tanto, nel bene e nel male. Nei colloqui ha portato tutto il suo scontento, la sua rabbia, a tratti la vergogna nel vedersi, fare i conti con se stessa, dirsi: “Ci risiamo, hai visto, questa sei e questa rimani, dice una parte di me, l’altra si arrabbia e dice, ma allora, a cosa serve avere cercato, sperato, resistito?” . Fa i conti anche con la delusione: “Una rinuncia alla speranza che vedere, capire, equivalesse automaticamente a cambiare”, ammette che “si, e non ci dobbiamo dimenticare che è molto più difficile cambiare se il cambiamento va verso il meglio”.
Le immagini prevalenti con cui Giulia porta se stessa sono ancora il teatro, platea e palcoscenico, la candela da non consumare, ma anche quella del puzzle. Ha i pezzi ma non riesce a tenerli insieme, è come se mancasse una forza che permetta ai pezzi di stare insieme e invece ci siano forze di repulsione. Lo spazio tra i pezzi è pericoloso, se ci si cade ci si deprime. Il momento più doloroso è quello in cui simbolizza che è stato per lei impossibile stare bene nel matrimonio: “Se va bene non ho la possibilità di meritarmi di stare in questo mondo”. La volta successiva rivela: “La seduta dell’ultima volta è di quelle che valgono sei mesi di agonia (…) vederlo è calmante”. Porta lucidamente la speranza che ha nutrito, che “la medicina” prima o poi avrebbe fatto effetto, che una mattina si sarebbe svegliata e sentita guarita, “come quando passa l’influenza”. Oggi sente e pensa cose diverse: “Con questo puzzle devo imparare a convivere”. Chiede a se stessa e verbalizza, con fatica: “(Vorrei) accettare questa cosa. È diverso accettare da rassegnarsi, vorrei distinguere questa cosa qua, riuscire ad accettare vuol dire comunque, non può essere una soluzione… mi sono persa… un significato calmante e non pessimista come la rassegnazione. Uno si rassegna e dice ‘non c’è più niente da fare’ ed è altrettanto depressivo. Accettare è ‘accetto questa situazione, quello che è stato non si può più cambiare’. Non so se mi spiego. Ecco, ho l’impressione che questo potrebbe agire in maniera positiva su quelle forze respingenti che dicevamo nel puzzle. Potrebbe attenuarle perché credo che in queste forze abbia inciso molto… anche questa idea… che è qualcosa che deve passare… ‘Ora guarisco’ e tutto torna, non posso neanche dire ‘come prima’, bello e buono’”.
Ci confrontiamo sulla rabbia che sta emergendo, sulla carica distruttiva che accompagna questo momento della terapia. Giulia riconosce che questo è “un sentimento recente” che ha a che fare con la sensazione dolorosa di non riuscire a scalfire il “ peccato originale” che la porta a trasformare tutto in espiazione. Questo è il momento, delicatissimo, del confronto della Cliente con la propria resistenza al cambiamento. Allo stesso tempo, c’è il riconoscimento che nel puzzle c’è una parte in cui “ci sono solo io, una parte che vedo da pochissimo tempo, è ancora un po’ velata. (…) Ho funzionato per mansioni senza vivermele, stavo giù dal palcoscenico ed assumevo dei ruoli. Quello che si vede adesso, è l’immagine di me e intorno ci sono ancora le mansioni”. Si interroga sulla dicotomia “paura versus incapacità”. Nel colloquio successivo Giulia condivide un insight: da un anno la famiglia ha acquistato una casa, una casa che non l’ha mai convinta. Se ne è occupata senza mai riuscire a sentirla sua: “La casa non è una cosa mia. È quasi tutta sviluppata sotto, è una tomba. Ha presente il mio problema con le tombe? Ho avuto tutto chiaro dall’inizio ma non l’ho saputo affrontare con la dovuta determinazione per non scegliere. Questa casa sintetizza i miei problemi. Vederli, sentirli, non affrontarli, oppure affrontarli in seconda linea, pretendere di dirigerli dalla platea. Con la frustrazione di avere messo la controfigura sul palcoscenico mentre l’anima, che era in platea, non è rappresentata”. Nella stessa seduta porta l’amara considerazione che ha cercato di non consumare la vita, non facendo, non scegliendo, senza gioia non vivendo, in attesa di poter vivere, “ma la vita passa lo stesso”. In questo periodo si lascia festeggiare per il suo cinquantesimo compleanno e si ritrova, subito dopo, svogliata. Affiora l’inquietudine, il turbamento, lo spavento per come si vede: “Ieri avevo la sensazione di avere un bisogno, faccio fatica perché è una sensazione, non tanto una cosa razionale, come se avessi la sensazione non di trovare qualcosa di nuovo, ma è come se dovessi perdere qualcosa, se solo io, potessi lasciar perdere, abbandonare queste forze contrastanti che mi tengono sempre in tensione tra passato-presente-futuro, giusto-sbagliato, io-gli altri, ( …) tormento-nostalgia; se guardo avanti, ansia; se guardo indietro rimpianto; se guardo ora scontento e malavoglia. Se è così, (vorrei) poter sottrarre”. E, nella stessa seduta: “Del resto, c’è un cortocircuito fondamentale che non riusciamo ad evitare mai. Se quando comincio a stare bene, appena comincio a stare meglio scatta il meccanismo che questo mi mette ansia e devo per forza stare male, mi sento più sicura quando sto male”.
Subito prima della pausa estiva, che è sempre stato un periodo di lungo distacco dalla terapia, Giulia parla di sé dicendo: “Anche i bambini fanno i capricci finché non trovano, cercando, un’altra modalità”. Le chiedo se è questo che lei sta facendo, nella vita e nella terapia. Esita, poi sorride: “Se fossi depressa piangerei, ma non è questa la situazione ora. ( …) È un’impotenza consapevole, lucida e capricciosa. L’unica cosa che mi viene da fare è ribellarmi, per quanto abbia poco senso e non serva a niente”.
Dopo la pausa estiva, aspetto che Giulia mi contatti per prendere un appuntamento. Non si fa sentire. Scelgo di non chiamarla. Non sono preoccupata per lei, da molto tempo non ha più avuto una depressione profonda e prolungata. Se, in qualche momento, ricade tra i pezzi del puzzle, è in grado di ascoltarsi, leggersi, calmarsi dando significato alla sua esperienza. Ha in mano le carte per giocarsi la partita della sua vita, è pronta a farlo seppure con le sottili, profonde e pervasive paure che l’hanno accompagnata dalla nascita e che lei ha visualizzato con le metafore. Valuto che la relazione terapeutica sia stata lunga, autentica, significativa per entrambe. Qualsiasi cosa deciderà di fare, è la sua vita. Voglio essere base sicura (Bowlby, 1969), per scelta. La base resta lì, ed è per questo che è sicura.
Ecco alcune delle metafore che Giulia riporta nel suo diario, così come erano vissute all’inizio della terapia e come si trasformano:
I fantasmi dello scrigno sono due: la paura di morire …. innanzitutto, e la paura di non avere diritto a vivere…. Gli spettri… all’apparenza banali, in realtà devastanti terrori atavici che mi hanno sempre abitata.
La bestia è l’espressione animata della mia depressione. Vive nel buco nero, dove tutto è immobile e buio si, ma lei fa parte integrante di quel vuoto.
È un’evanescente gialla presenza dagli occhi suadenti, ha vissuto a lungo con me, più o meno avvinghiata a me. Quando ho iniziato questo percorso e un paio di altre volte nella mia vita, è quasi riuscita ad annientarmi. Va e viene…Ad un certo punto ne parlo così: “È tornata con tutta la sua forza travolgente… è questa la BESTIA nel mio CUORE. È tornata con tutta la sua violenta, efficace, travolgente, annichilente, paralizzante, forza distruttiva.
Non mi sorprende…in fondo l’aspettavo. ..non mi difendo ora…non posso.
È bene che sia tornata a ricordarmi chi sono veramente, a ricordarmi con che cosa devo fare i conti se ancora penso di voler e poter cambiare….
È bene che anche M. l’abbia guardata in faccia.
Da quando parlo con lei, la bestia è rimasta sopita… ma io ho continuato a sentirla respirare dentro di me. È sempre una questione di tempo…prima o poi si risveglia. Bisogna sempre tenerne conto!
Lei è forte, contiene tutto il senso di colpa, la vergogna, l’errore, il peccato, la condanna e la pena.
È lei che mi tira ancora una volta sul fondo del pozzo… è lei che riempie il vuoto al centro del mio fiore è lei seduta accanto a me, abbracciata a me laggiù in platea.
La mia bestia.. sembra nata con me…non riesco a scinderla. E oltretutto “mi fa buona compagnia…è come se con lei mi sentissi più sicura…come se solo lei potesse proteggermi…da chi? Da cosa? Solo lei non mi abbandona torna sempre e se mi ribello…se cerco altro.. lei mi perdona e torna lo stesso!. Compagna fedele mi mantiene nella condizione di prigioniera del mio dolore, unica condizione che mi fa sentire meritevole di esistere..
Un altro bel delirio.
Fare delle scelte
Dopo un anno esatto, in giugno, Giulia mi telefona e mi chiede un appuntamento. Si scusa per la sua sparizione, mi ricorda la frustrazione dell’ultimo periodo della terapia, quanto era stato difficile sentirsi ferma e impotente davanti a una possibilità di cambiamento che non si sentiva in grado di attuare. In questo anno in cui non ci siamo incontrate ha vissuto, si è presa degli spazi per sé, seppure nell’ottica di migliorare la relazione con i figli. Ha preso delle decisioni rispetto a come relazionarsi con suo marito e a quelle decisioni sta tenendo fede. Ora sente che è un momento in cui operare delle scelte e che ha bisogno di uno spazio in cui elaborarle. Ci accordiamo sulla possibilità di incontrarci a scadenze non regolari, tra le due e le tre settimane.
La relazione con la Cliente è cambiata nel tempo, la Cliente è cambiata. Visualizzo questa fase come un passaggio ad un rapporto più alla pari. La sofferenza di Giulia non è più quella di una volta, le sedute sono fatte più di confronto che di esplorazione: ora Giulia si sperimenta, ed usa i colloqui come lo spazio protetto dove può riflettere e misurare i suoi cambiamenti. I problemi sono, apparentemente, quelli di sempre: il rapporto di coppia ed il rapporto con i figli, due dei quali in piena adolescenza ed uno pronto ad uscire di casa per gli studi universitari. I nostri Clienti portano in seduta se stessi e le persone per loro significative, che spesso sono i figli. Personalmente, ho la profonda convinzione che la psicoterapia sia un processo di cambiamento per chi la intraprende ma che sia anche un potente strumento di cambiamento della trasmissione intergenerazionale. Sapere di avere accompagnato un genitore, una madre in questo caso, verso la possibilità di prendersi cura in modo più efficace e più soddisfacente di se stessa, e di conseguenza anche dei propri figli, è uno degli aspetti più gratificanti della mia professione. Se possiamo parlare di “amore non possessivo” per i nostri Clienti, sento di poter dire che è un sentimento che mi appartiene, e che è molto speciale in quanto diverso da tutti gli altri: è un amore privo di aspettative, che lascia l’altro integralmente libero nelle azioni e nelle emozioni.
I problemi di Giulia sono quelli di sempre, ma Il modo in cui li vive, li porta nel colloquio, li elabora, li gestisce, è molto diverso. Adesso tiene conto dei suoi limiti e li accetta. Quando parla del “buco nero” dice: “Sono stata per anni sull’orlo del buco, è un’attrattiva. Il fuori ti acceca: bello, luminoso. Immenso, ma non ho punti di riferimento là fuori. Quanto mi ha paralizzato sul bordo, per mesi e per anni. Credevo, uscendo di là, che avrei trovato l’Eden, il giardino. Ora, se lo costruisco mi allontano dal buco nero, altrimenti resto sul bordo. In quel giardino c’è un altro buco nero che è il suo (del marito). Mi devo mettere in sicurezza, non c’è vantaggio a precipitare tutti e due; ho l’impressione che sono sulla strada giusta, che a forza di allenarmi diventerà più rassicurante. Stare più fuori che lì dentro. Questo va visto. Del resto non è che abbandono mio marito là dentro. Urlo, dico che ci sono. Se qualcosa a lui può arrivare, arriverà”.
Si sta di nuovo avvicinando la fine dell’anno scolastico e le vacanze estive sono vicine. Questa volta Giulia ha deciso che non trascorrerà le vacanze con il marito e i figli, farà qualcosa che desidera fare da tempo. Questa è la conclusione, meditata e concordata, del nostro percorso di psicoterapia. Vedo che ora la Cliente è molto meno in difensiva sia nei confronti di se stessa che degli altri. Ha una maggiore capacità di socializzazione, che si esplica all’interno della famiglia con relazioni basate sulla sua capacità di empatizzare con i figli e di relazionarsi con loro ben al di là dei compiti che l’hanno sempre guidata; ha fatto delle scelte personali significative valutando di riprendere un percorso di studi coerente con i suoi interessi, non ha mai dimenticato di essere stata un’infermiera, ha fatto esperienze di gruppi PET (Genitori Efficaci secondo il Metodo Gordon) dove ha condiviso i suoi vissuti, non crede più che il suo matrimonio sarà salvo perché lei sarà in grado di salvarlo, dimostrandosi in questo più realista e, allo stesso tempo, molto più accettante nei confronti di se stessa e dei vissuti dell’altro. Il dato che ritengo più interessante è quello della qualità dell’esperienza che la porta a vivere “momento per momento”, con fiducia nella sua possibilità di trovare le soluzioni ai problemi che, inevitabilmente, si presenteranno nel corso della vita.
Voglio concludere con quelle metafore di Giulia che tanta parte hanno avuto in questo processo terapeutico. Lascio a lei la parola perché è il Cliente l’esperto della sua vita, colui che sa dove andare, dove cercare, quando fermarsi, quando riprendere il cammino. A noi l’onore e l’onere di accompagnarlo tenendo in mano la luce perché non perda la strada che vuole percorrere. Considerare questo percorso terapeutico concluso non vuol dire che io non sia disponibile a ricevere la Cliente se dovesse avere bisogno di esplorare un aspetto nuovo della sua esperienza esistenziale o richiedesse un confronto su un tema specifico: la metafora della “base sicura” (Bowlby 1988) ci dice che da essa ci si può allontanare quanto più si sa di poterle rivolgere lo sguardo fino anche a decidere di ritornarvi. Trovo coerente con l’Approccio Centrato sulla Persona lasciare sempre la porta aperta non per creare dipendenza, ma per sostenere, anche a distanza, l’indipendenza.
(dal diario di Giulia)
La grande opera, è l’immagine che meglio ha reso il tentativo di mettere insieme le mie due “non” vite.. Quella non vissuta da sola laggiù nel pozzo, e quella vissuta solo apparentemente fuori nel mondo reale, come figlia, sorella, amica, studente, infermiera, fidanzata, moglie, madre, casalinga…
Ho immaginato un grande palcoscenico con di fronte una grande platea.
Immensi, occupano tutto lo spazio immaginabile.
Sul palcoscenico si svolge la vita della gente, vedo meglio intorno a me quella delle persone che ho più vicino, nei luoghi a me consueti, ma so che una veduta dall’alto darebbe una prospettiva planetaria, di miliardi di vite, formicolanti insieme, le une strettamente collegate alle altre.
Mi vedo là in mezzo, ma non sono veramente io, non tutta almeno. È il mio involucro vuoto, che lassù recita la sua parte, via via nel tempo di figlia, sorella, amica…moglie, madre…ruoli diversi nel tempo, nelle situazioni che si susseguono, ruoli (o anche petali di plastica sbiadita) recitati al meglio possibile, non certo vissuti.
Il “buco nero” e “la grande opera” sono le immagini fondamentali, visto le quali è stato facile individuare obiettivi: occorre uscire dal pozzo verso la vita vera, bisogna ricongiungere le due parti sul palcoscenico, per dare vita vera alla recita. Il percorso per provare a raggiungerli invece, questi obiettivi, è stato lungo e doloroso, direi anche che non è ancora concluso, che impegnerà forse buona parte di quello che mi resta da vivere, ma è diventato irrinunciabile e questo mi fa sentire già molto “fuori”, molto più vicina alla “sintesi”, molto più vicina alla vita vera.
Ora mi vedo fuori dal pozzo, quindi lontana dalla Bestia che dorme là sotto.
Sono stata a lungo seduta sul bordo, un piede dentro e uno fuori, uno sguardo al mondo di fuori e uno a LEI, incapace di affrontare quell’esterno troppo luminoso e rumoroso e pieno di vita. Ora comincio ad avere il coraggio di allontanarmi un po’ da lì, verso territori nuovi, perciò un po’ inquietanti, ma che piano piano diventano più familiari e gradevoli, con lo sguardo sempre meno disposto a volgersi indietro…..
Ora mi vedo su quel palcoscenico, non ancora sicura e completamente integra, immagino una figura di me ancora sdoppiata, sfalsata, come quelle foto “mosse”, in cui i contorni sono doppi appunto, ma ben sovrapposti. Ma già così ciò che mi circonda e le relazioni con tutto e tutti hanno colore e sapore e odore e suoni e sfumature infiniti rispetto a prima, quando tutto era grigio, si stanno raVIVAndo.
Il centro del fiore vuoto si è riempito di scrigni, fantasmi, bestie e costrutti, non è più vuoto. Lo guardo, lo vedo il fiore, plastica era, plasticaccia è rimasta, lo conservo laggiù nel pozzo, è il ricordo del punto di partenza.
Ho ancora in mano un delicato filo di seta…qui e ora mi basta…
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L’articolo “Il caso di Giulia” di Mariangela Bucci è stato pubblicato, nel 2015, nel volume di AAVV LA PROMOZIONE DEL CAMBIAMENTO, per i tipi della Casa Editrice ALPES. Ringraziamo la Casa Editrice, nella persona del dottor Roberto Ciarlantini, per la concessione alla pubblicazione dell’articolo sulla nostra rivista.
Mariangela Bucci, psicologa, psicoterapeuta, socia SCRIPT