Prefazione di Giovanni Lancellotti
La prima pubblicazione in italiano del saggio di Lietaer risale all’Aprile del 1994, con la traduzione dall’inglese di Valeria Vaccari e Maria Luisa Verlato, per la pubblicazione sul numero dell’Aprile 1994 di “Da Persona a Persona. Rivista di Studi Rogersiani”.
Il testo in lingua inglese è comparso nel 1884, nella raccolta, a cura di R.F. Levant e J.M. Shilien “Client-centered Therapy and Person-centered Approach: New Direction in Theory, Research and Practice”, Praeger New York.
L’originale è stato pubblicato nel 1980, in lingua fiamminga, col titolo “Onvoorwaardelijke Aanvaarding: Een Omstreden Grondhoulding in Client-Centered terapie”, in “Gedrag, Dynamische Relative en Betekeniswereld: Liber Amicorum Prof. J.R. Nuttin”, Leuvense Universitarie Pers., pagg. 145-159.
Un sentito ringraziamento all’Istituto per l’Approccio Centrato sulla Persona di Roma e al suo Direttore Dottor Alberto Zucconi per l’autorizzazione alla riproduzione del testo.
Excursus su tutti i gangli della metodologia rogersiana o meglio (senza giocare con le parole, ma per avvicinarci all’essenza di questo concetto) del modo rogersiano di essere terapeuta.
L’accettazione come prodotto complesso derivante da altri elementi semplici (come, ad esempio, la non direttività) e come risposta sensibile al mondo esperienziale della persona in terapia.
Maggiore flessibilità di fronte a “regole” non direttive, purché sia mantenuta l’esperienza della persona in terapia, come pietra di paragone per qualunque stimolo venga proposto dal terapeuta.
Il lungo articolo-saggio di Germani Lietaer (psicoterapeuta rogersiano belga), qui presentato, ha un’età considerevole, data la prima pubblicazione nel 1980, se si tengono presenti le trasformazioni avvenute in questi ultimi trent’anni in campo psicoterapeutico: dalla trasformazione della psicoanalisi dal primitivo e fondamentale nucleo freudiano sino alle attuali concezioni interpersonali, alla comparsa (e anche scomparsa?) delle terapie strategiche brevi e a tutti i tentativi sincretici o integrativi, tesi a costruire come un puzzle teorie e pratiche interessanti ma, a volte, inutilmente complicate.
L’accettazione positiva incondizionata: una condizione di base controversa nella terapia centrata-sul-cliente
Traduzione di V. Vaccari e M. L. Verlato (La traduzione si riferisce al testo inglese, che fa parte della raccolta a cura di R.F. Levant e J.M. Shlien (1984): “Client-centered Therapy and the Person-centered Approach: New Directions in Theory, Research and Practice”, Praeger, New York. Esso è, sua volta, una traduzione dall’originale fiammingo: “Onvoorwaardelijke Aanvaarding: Een Omstreden Grondhouding in Client-Centered Therapie”, in: “Gedrag, Dynamische Relatie en Betekeniswereld. Liber Amicorum ProT. J.R. Nuttin” (1980), Leuvense Universitaire Pers, 145-159.)
Quello di accettazione positiva incondizionata (unconditional positive regard) è probabilmente uno dei concetti più dibattuti nella terapia centrata-sul-cliente. Sia all’interno che all’esterno dell’approccio, questa condizione fondamentale non sempre è stata accolta in modo incondizionatamente positivo. A mio avviso, l’ambivalenza è determinata almeno in parte dal fatto che Rogers non ne ha fornito un’ampia elaborazione o almeno non si è dettagliatamente addentrato nei suoi problemi, fra i quali includiamo:
1) esiste un potenziale conflitto fra la genuinità o congruenza da un lato e l’accettazione incondizionata dall’altro;
2) una costanza nell’accettazione può essere raramente assicurata da ogni terapeuta per ogni cliente. Perciò l’accettazione non è impossibile, ma improbabile;
3) essa richiede al terapeuta di tenersi devotamente in disparte e ciò induce ad una reazione compensatoria in cui ii confronto diviene una forma di auto-asserzione.
I dubbi e ed i problemi riguardo a questa attitudine di base vengono direttamente in primo piano quanto più la terapia centrata-sul-cliente diviene centrata-sulla-relazione e quanto più la genuinità del terapeuta, che implica, fra le altre cose, feedback e confronti, acquista preminenza. Il mio interesse per questo problema deriva dalla pratica clinica e dalla mia esperienza di trainer cui gli allievi esponevano i conflitti con questa condizione fondamentale. Ciò mi ha spinto a riflettere su alcuni aspetti teorici e clinici della accettazione positiva incondizionata.
Dopo avere dato una definizione preliminare del concetto, ne puntualizzerò l’importanza nel processo terapeutico. Come terzo punto considererò brevemente alcune critiche, poi cercherò di fornire una definizione più precisa di questa condizione; infine, usandola come schema di riferimento, tratterò con maggior dettaglio alcuni dei limiti e delle difficoltà che si incontrano nello sperimentare e nel comunicare questa attitudine ed il modo in cui gli interventi di confronto possono essere integrati in un clima di accettazione.
Definizione preliminare dell’accettazione positiva incondizionata
La accettazione positiva incondizionata è un concetto multidimensionale. Nelle descrizioni cliniche di questa attitudine di base si possono distinguere diverse componenti, che sono in una certa misura correlate ma anche abbastanza specifiche per essere trattate separatamente (vedi, fra gli altri: Barrett-Lennard, 1962; Rogers 1957, 1959a, 1961, 1962; Rogers, Truax, 1967; Rogers, Wood, 1974; Truax, Kiesler, 1967; Truax, Mitchell, 1971 pagg. 315-317; Vandevelde, 1977). Inoltre, nella ricerca applicata, nell’analisi fattoriale, questa attitudine sembra essere composta da un certo numero di dimensioni relativamente indipendenti (Barrett-Lennard, 1978; Gurman, 1977 pagg. 508-514; Lietaer, 1976) che sono: considerazione positiva, non-direttività, incondizionalità (unconditionality). È soprattutto quest’ultima dimensione che verrà ampiamente discussa.
La considerazione positiva si riferisce ad un atteggiamento affettivo del terapeuta nei confronti del cliente: il modo in cui lo valorizza, lo accoglie, crede nelle sue potenzialità e lo coinvolge in modo non possessivo. Questo atteggiamento è anche chiamato di ‘cura’ (caring) o di ‘calore non possessivo’ (nonpossesive warmth).
La non-direttività (che, in termini più accurati, viene definita come l’essere ‘centrati-sul-cliente’) si riferisce soprattutto ad un atteggiamento di rispetto: all’accostarsi al cliente come ad una persona unica ed indipendente, con il diritto di vivere secondo il suo punto di vista. Il contrario di tutto ciò è un atteggiamento paternalistico in cui si tratta il cliente in base al nostro schema di riferimento. Alcuni aspetti di questo atteggiamento sono: la mancanza di rispetto per i contenuti personali ed i tempi del cliente, nonché il tentativo di modellarlo entro i propri schemi sia nel campo dei sentimenti sia in quello delle comunicazioni e del comportamento.
Infine, l’incondizionalità si riferisce alla costanza con cui si accetta il cliente, alla misura in cui lo si valuta senza ‘se’. L’accettazione incondizionata significa che l’atteggiamento del terapeuta non fluttua nè in funzione dello stato emotivo e del comportamento del cliente, nè dell’atteggiamento di quest’ultimo nei suoi confronti, né tantomeno di quanto altre persone pensano del cliente stesso (Barrett-Lennard, 1962). Rogers (1961; trad. it. pag. 83), esprime come segue l’importanza che egli annette a questo aspetto della relazione di aiuto: “Un ulteriore problema è questo: posso accettare, dell’altra persona, ogni aspetto che egli mi presenta? Posso accettarlo così com’è? 0 lo accetto solo sotto condizione, approvando alcuni aspetti dei suoi sentimenti e disapprovando tacitamente o apertamente gli altri aspetti? Secondo la mia esperienza, se il mio atteggiamento è condizionato l’altro non cambia, nè cresce, almeno in quegli aspetti che non riesco ad accettare completamente”.
Così l’incondizionalità comporta, fra l’altro, nessun giudizio dall’esterno e nessuna approvazione o disapprovazione basata sullo schema di riferimento del terapeuta. Come hanno lucidamente rilevato Truax e Mitchell (1971, pag. 316), “questo implica l’accettazione di ciò che è, piuttosto che l’aspettativa di ciò che dovrebbe essere”. Il cliente di un collega, che era solito trascrivere le esperienze della propria terapia, espresse il ‘lato insolito’ di questa attitudine del terapeuta come segue: “Sui volti delle persone, anche di quelle ben disposte nei miei confronti, io sempre leggo una regola, una sorta di aspettativa e temo di non esserne all’altezza. Sulla tua faccia, tuttavia, già dal primo colloquio, non ho visto niente del genere”. (Jennen, 1974, pag. 25).
La funzione dell’incondizionalità nel processo terapeutico
Perché Rogers dava tanto peso a questo fattore? Qual’è la sua importanza nel processo terapeutico? La risposta a questa domanda non può essere considerata prescindendo dagli obiettivi della terapia centrata-sul-cliente e dal modo in cui riteniamo di raggiungerli.
Lo scopo principale della terapia centrata-sul-cliente può essere descritto, in generale, come il tentativo di rimettere in moto il processo esperienziale del cliente o di aiutarlo a funzionare in maniera più ricca e flessibile (Rogers, 1961; Gendlin, 1964). Noi vogliamo aiutare il cliente a vivere con maggiore pienezza e ad integrare gli elementi dell’esperienza che non è riuscito finora a fronteggiare. Noi lo aiutiamo a raggiungere una più ampia unità con se stesso, a divenire ‘congruente’. Questo comporta che divenga possibile un continuo zig zag fra l’esperienza più cosciente del sè e la sottostante corrente dell’esperienza. Perciò la persona diviene meno rigida nel suo modo di vivere la propria esperienza (experiencing), si apre a tutti gli aspetti di essa ed inizia ad averne maggiormente fiducia (in tutta la sua complessità, profondità e mutevolezza) come valida guida per vivere secondo un processo di crescita.
In questo ‘viaggio dentro il sè’ noi tentiamo di assistere il cliente restando continuamente centrati e rispondenti al suo mondo esperienziale (Gendlin, 1968; Rogers, 1975b). Il mio ‘lavoro’ quotidiano di terapeuta centrato-sulla-persona consiste principalmente nell’essere in contatto e nel comunicare da un lato gli espliciti e soprattutto gli impliciti significati dei sentimenti (felt meanings) contenuti nel messaggio del cliente, dall’altro ciò che risuona in me stesso e ciò che accade fra noi due. L’empatia e (più raramente) l’auto-espressione costituiscono gli aspetti più tangibili del nostro contributo come terapeuti.
Qual’è l’importanza di un atteggiamento non condizionato? Assieme alla congruenza, considero questa attitudine come una base, un fertile terreno necessario per rendere il terapeuta capace di rispondere con sensibilità al mondo esperienziale del cliente. Entrambi sono atteggiamenti non immediatamente visibili negli interventi del terapeuta ma nondimeno costituiscono delle condizioni indispensabili. In effetti, congruenza e accettazione sono strettamente correlate fra loro; esse fanno parte di un’attitudine ancor più fondamentale, quella di ‘apertura’ (Truax, Carkhuff, 1967, pag.504): apertura nei confronti di me stesso (congruenza) e apertura nei confronti dell’altro (accettazione incondizionata). Più accetto me stesso ed accetto di essere presente sentendomi a mio agio con tutto ciò che scaturisce da me, senza paura o difesa, più posso essere ricettivo verso qualunque cosa trovi nel mio cliente. Senza questa apertura, senza questa accettazione, non è possibile lasciar dispiegare l’esperienza del cliente, lasciarla vivere pienamente; infatti con un atteggiamento condizionato è probabile che io non osi vedere certe parti della sua esperienza e che minimizzi o rifiuti alcune di esse.
L’importanza che Rogers attribuisce ad un atteggiamento di accettazione incondizionata deve essere vista nel contesto della sua visione sull’origine delle disfunzioni psicologiche (Rogers, 1959b; 1963, 1964; Standal, 1954). In effetti egli considera l’amore condizionato dei genitori e delle altre figure significative come causa fondamentale dell’alienazione. Per mantenere l’amore delle persone importanti si interiorizzano norme che possono essere contrarie ai propri desideri ed esperienze. Nasce così una dissociazione fra quello che ci sforziamo di raggiungere consciamente ed il vero sè: così ci alieniamo dal nostro nucleo più profondo. In terapia, allora, l’atteggiamento non condizionato del terapeuta serve da ‘contrappeso’, costituisce una sorta di ‘contro-condizionamento’ nell’esperienza correttiva che il cliente, ci si augura, sviluppa in terapia. Come risultato dell’accettazione incondizionata del terapeuta, il cliente, poco a poco, inizia a sentirsi abbastanza sicuro da esplorare se stesso più profondamente, da affrontare aspetti che fino a quel momento erano stati troppo temibili o imbarazzanti. Così l’accettazione da parte del terapeuta facilita l’auto-accettazione ed il conseguente cambiamento. Quando sperimenta un sufficiente grado di sicurezza interpersonale, il cliente trova il coraggio di abbandonare il suo atteggiamento di difesa e riesce ad instaurare un più stretto contatto con se stesso. Perciò un atteggiamento di accettazione non porta al ristagno ma piuttosto rende possibile l’evoluzione di quegli aspetti di noi stessi che erano, per cosi dire, ‘congelati’. La crescita ed il cambiamento divengono possibili nella misura in cui siamo capaci di accettare noi stessi come siamo. A questo riguardo il cliente sopra menzionato scrisse: “Fin dall’inizio ho sperimentato ciò come se una luce stesse illuminando per la prima volta luoghi freddi e bui dove nessuno era mai stato prima. Non era una fredda luce al neon ma una calda benevolenza dalla quale qualcosa poteva prendere vita. È come se tu passassi una lampada sopra ogni sorta di plaghe dolorose che allora guariscono e riprendono a vivere” (Jennen, 1974, pag.25). Allo stesso tempo, questa assenza di giudizi esterni stimola il cliente verso una maggiore indipendenza ed autoresponsabilità: non ciò che gli altri pensano o si aspettano ma l’esperienza stessa dell’individuo diviene la base prevalente delle sue scelte e delle sue decisioni.
Alcune critiche
All’inizio del capitolo si è detto che il concetto di accettazione incondizionata è stato pesantemente criticato sia dall’interno che dall’esterno dell’approccio rogersiano. Ecco una breve formulazione delle critiche più pertinenti. (Poiché alcune derivano da un fraintendimento del concetto non verranno qui prese in considerazione).
I teorici dell’apprendimento e del comportamento obiettano che è ingenuo pensare che l’accettazione incondizionata sia possibile in assoluto. Dal loro punto di vista un rinforzo selettivo è inevitabile. Essi non credono, a questo proposito, che la cosa sia negativa, per lo meno quando il terapeuta rinforza in maniera positiva cioè in direzione di un comportamento più adattivo. Nelle loro critiche essi si rifanno agli effetti del modellamento (modelling), che ritengono sia presente in ogni incontro terapeutico. In particolare si sottolineano i dati della ricerca (Murray, 1956; Truax, 1966) volta a dimostrare che Rogers rinforza selettivamente.
La teoria dei sistemi afferma che noi non possiamo ‘non influenzare’; di conseguenza una terapia ‘non direttiva’ è pura illusione. In ogni seduta terapeutica è presente un’influenza direttiva, sebbene un terapeuta possa essere più sottile di un altro.
Anche all’interno della terapia centrata-sul-cliente l’accettazione incondizionata è stata messa in discussione. In occasione del lavoro con clienti più seriamente disturbati (Rogers, Gendlin, Kiesler, Truax, 1967), Rogers stesso ha scritto che il cliente spesso sperimenta l’accettazione incondizionata da parte del terapeuta come indifferenza e che, almeno nella prima parte della terapia, un atteggiamento più condizionato ed esigente sarebbe probabilmente più efficace nell’instaurare la relazione (Rogers, 1959a, pag.186). In seguito a questo lavoro con gli schizofrenici ma anche all’esperienza con i gruppi di incontro, nonché per l’influsso dell’orientamento esistenziale nella terapia americana, i terapeuti centrati-sul-cliente cominciarono a porre l’accento sulla genuinità e sul mettere in primo piano la propria esperienza. In questo contesto, l’accettazione incondizionata poteva essere considerata come un’inutile auto-cancellazione nella relazione terapeutica perché il cliente può essere aiutato ad andare avanti tramite il feedback con cui il terapeuta lo confronta (Rogers et al., 1967; Gendlin, 1967).
Queste sono alcune delle critiche al concetto di accettazione incondizionata. Esse forniscono una ragione sufficente per tentare di de¬scrivere con più precisione questa attitudine.
Una più precisa definizione di accettazione incondizionata (unconditionality)
È importante anzitutto fare una distinzione fra l’esperienza ed il comportamento esterno; fra, da un lato, i sentimenti, i pensieri, le fantasie, i desideri del cliente e, dall’altro, il modo in cui si comporta. L’accettazione incondizionata si riferisce alla sua esperienza. Il cliente dovrebbe potere sperimentare la libertà di provare qualsiasi cosa assieme a me; egli dovrebbe sentire che io sono aperto alla sua esperienza e non la giudico. In termini comportamentistici questa è una forma di desensibilizzazione centrata-sul-cliente. Il mio cliente sarà capace di esplorare meglio e di vivere più profondamente quelle esperienze che gli provocano ansia soltanto quando sentirà che io riesco ad essere presente in modo soddisfacente. Quando qualcuno mi rivela di non vedere l’ora che il padre muoia, o di desiderare segretamente che la sua migliore amica abortisca oppure quando qualcuno lascia emergere i suoi profondi sentimenti di disperazione… in questo momento è importante che io sia capace di seguire la sua esperienza senza indignazione nè ansietà. Soltanto così il cliente riuscirà ad esplorare i profondi bisogni che sottendono la sua esperienza. Questo atteggiamento di ricettività verso il più intimo mondo esperienziale del mio cliente non significa che io accolga in egual modo ogni comportamento. Sia all’interno che all’esterno della relazione terapeutica possono esserci delle specifiche condotte che io disapprovo, vorrei cambiare o semplicemente non accetto. Spesso alla persona stessa non piace questo comportamento e ciò può costituire il motivo per cui viene in terapia. Quando un cliente mi racconta che non ha il coraggio di dire di no a nessuno, che ruba, che si ritira sempre più da ogni relazione, che ha picchiato suo figlio e così via… allora questi sono comportamenti che io, tanto quanto lui, vorrei vedere cambiare. Resta tuttavia importante che io non guardi a questi comportamenti soltanto dall’esterno ma tenti di capirli dalla prospettiva di tutto ciò che il cliente ha sperimentato nella sua vita (Rogers, Truax, 1967, pag. 103). Senza approvarlo, io accetto il suo comportamento come qualcosa di contingente e circoscritto e cerco di accompagnarlo nell’esplorazione dei problemi personali che si celano dietro ad esso. Talvolta, comunque, capita che io provi disappunto o irritazione verso il comportamento che il mio cliente con difficoltà mette in discussione o non mette in discussione affatto, oppure che non possa accettare quanto egli mi propone. La prima situazione può portare a dei confronti (confrontations) in cui gli dò un chiaro feedback sulle conseguenze del suo comportamento per sè e per gli altri. Nel caso di difficoltà all’interno della relazione terapeutica stessa, posso esprirnergli quali sono i sentimenti che egli suscita in me e quali sono i miei limiti. Ad esempio, una mia cliente potrebbe assumere una posizione molto dipendente, essere pazza di me, volermi dominare, desiderare un’amicizia informale o addirittura una relazione sessuale. In ogni caso, l’importante è che ella possa esprimere e discutere tutto ciò che sta provando nei miei confronti senza che io divenga riluttante o la rifiuti come persona; piuttosto, rispetto al suo comportamento, la metto a confronto con i miei limiti. L’accettazione incondizionata, allora, significa che io continuo ad assegnare un valore al più profondo nucleo (core) della persona, a ciò che essa in fondo è e può divenire. Il cliente deve avvertire che io rimango al suo fianco, che non lo abbandonerò nonostante le sue inquietanti fantasie, il suo comportamento antisociale o autodistruttivo o le difficoltà nella nostra relazione (1). L’accettazione incondizionata, nella sua espressione ottimale, non ha quindi niente a che vedere con l’indifferenza ma piuttosto punta ad un coinvolgimento più profondo e ad una maggiore fiducia nell’altro. E accettandolo come persona in un processo di sviluppo che posso confermare il cliente nelle sue potenzialità ed aiutarlo nella loro realizzazione (Rogers, 1961, pag.55).
La mia accettazione del cliente è qualcosa che va man mano crescendo. Non posso certo forzarla, ma un atteggiamento di comprensione dall’interno è senza dubbio di aiuto. Truax e Mitchell (1971, pag.325) fanno il paragone con la lettura di un buon romanzo: via via che procedo divento sempre più familiare con il mondo interiore dei protagonisti ed il mio giudizio esterno svanisce. Allo stesso modo, in terapia, io cerco di mantenermi in contatto con ciò che sta dietro al comportamento del cliente. Questo non è sempre facile. Talvolta non riusciamo a ‘trovarci’ l’uno con l’altro, talvolta non sono capace di entrare in contatto con il lato più intimo del cliente ma resto bloccato su particolari comportamenti che mi disturbano. Alcuni momenti di incontro personale possono risvegliare la mia irritazione; però io so che, in fondo, egli è diverso. La terapia in cui ciò non accade non avrà, a mio avviso, un grande successo. A questo punto arriviamo al nocciolo dei limiti e delle difficoltà nel realizzare questa attitudine.
Limiti e difficoltà: fonti di condizionamento nell’accettazione
Come le altre condizioni fondamentali della terapia, l’accettazione incondizionata è descritta da Rogers in termini ideali. Non potremmo mai raggiungere un’apertura completa al mondo esperienziale di un altro ma possiamo ugualmente tentare di superare i nostri limiti personali. Relativamente a questi ultimi, esistono tre fonti di condizionamento: le nostre vulnerabilità personali, le ripercussioni della vita dell’altro sulla nostra ed infine i problemi connessi all’obiettivo fondamentale della terapia, che è quello di facilitare il cliente al cambiamento.
Vulnerabilità e incongruenze del terapeuta
Ho già indicato lo stretto legame che esiste fra congruenza ed accettazione. Talvolta siamo noi a non permettere all’esperienza dei nostri clienti di dispiegarsi pienamente per quella che è, a causa delle nostre difficoltà personali. Temi di vita con cui non siamo ancora venuti a patti, bisogni individuali che interferiscono con la terapia, le nostre vulnerabilità e i nostri ‘punti ciechi’ (blind spots), a volte ci fanno sentire in pericolo ed incapaci di rispondere con serenità a certi sentimenti del cliente (Tiedemann, 1976). Questa mi sembra un’importante fonte di condizionamento nell’accettazione alla quale si dovrebbe dare più rilievo nei programmi di formazione. In effetti lo strumento di lavoro più importante è la nostra stessa persona. Entrare nel mondo esperienziale di qualcuno che ha valori totalmente differenti dai nostri, accogliere sentimenti di sconforto e disperazione, empatizzare con esperienze di massima felicità, rispondere in modo non difensivo a forti sentimenti positivi o negativi del cliente nei nostri confronti: non sono certo cose facili da fare. Per questo motivo io diffido dei ‘corsi accelerati’ in cui le attitudini di base vengono insegnate a ritmo forzato. La crescita personale e lo sviluppo della comprensione dell’impatto che le nostre difficoltà hanno sul lavoro terapeutico sono eventi che possono probabilmente verificarsi soltanto nel corso di training di maggiore durata, in cui la persona del tera¬peuta abbia una posizione più centrale (Lietaer, 1980).
Conflitti di interessi
Spesso non possiamo ascoltare pienamente l’esperienza dell’altro a causa di quello che comporta per la nostra stessa vita. Questo è vero specialmente nelle relazioni extraprofessionali, in cui siamo interdipendenti ed in cui si verificano, ad esempio col nostro partner, conflitti di interessi. Ciò che l’altro sperimenta può essere di ostacolo al mio modo di vedere le cose. Se mia moglie si spaventa a star sola di notte o è gelosa o ha paura della gente o è ordinata in modo ossessivo, per me può essere difficile accettare e capire la sua esperienza. Ciò deriva dal fatto che lei probabilmente non si aspetta da me ‘soltanto’ la comprensione ma vorrebbe anche che io tenessi conto della cosa nella nostra vita comune. In una relazione terapeutica questo problema gioca un ruolo minore perché cliente e terapeuta sono meno interdipendenti nella vita quotidiana. Quello che prova o che fa il cliente non ha di solito una diretta ripercussione sulla mia vita. La struttura della relazione terapeutica mi protegge su questo punto. C’è anzitutto la struttura esterna: egli viene da me una o due volte la settimana, ad orari fissi. Poi c’e la struttura interna, il mio atteggiamento interiore: io ho poche aspettative per me stesso; desidero soprattutto occuparmi del cliente, portare avanti il suo processo. Questa distanza, il fatto che io sono più protetto e meno coinvolto, mi rende capace di accostarmi meglio e di entrare in sintonia con la sua esperienza (Lehmann, 1975). Questo è il motivo per cui i genitori sono spesso cattivi consiglieri per i figli che stanno crescendo: anteponendo le loro aspettative ed i loro bisogni possono non essere capaci di accettare e di comprendere l’evoluzione dei ragazzi verso una maggiore indipendenza.
Il fatto che l’accettazione sia meno difficile da sperimentare in una relazione terapeutica che nella vita di tutti i giorni, pone alcuni problemi particolarmente nell’orientamento centrato-sul-cliente, dove la distinzione fra relazioni professionali-terapeutiche e relazioni della vita reale è meno nettamente delineato che in altri approcci. In primo luogo c’è il problema della ‘competizione sleale’. Talvolta il mio cliente trova che io lo capisco molto meglio del suo partner. Ciò può creare dei problemi secondari nella sua relazione coniugale. A questo riguardo spesso mi domando se non sto fornendo al cliente un modello illusorio, qualcosa che è molto più difficile da raggiungere nelle relazioni della vita reale. Di solito comunque il cliente stesso riconosce che il paragone non è valido ed io non manco di sottolineare ciò quando egli accenna all’argomento. Anche nei gruppi, specialmente in quelli che si incontrano una sola volta, l’accettazione e la comprensione fra i partecipanti talvolta danno luogo ad un doloroso contrasto con l’esperienza di qualcuno nelle sue relazioni interpersonali. Per questa ragione io preferisco nettamente gruppi più continuativi, con i loro vari alti e bassi, i cui membri, fra un incontro e l’altro, riprendono il rapporto con le persone con cui stanno attualmente vivendo. Un’esperienza opposta a quella della competizione sleale è quella di sentirsi ‘accettati a distanza’, in cui il cliente si domanda: “La tua accettazione è davvero autentica? E cosa me ne faccio, se dopotutto non puoi vivere con me?” Può capitare che mi senta gravato, come terapeuta, da un senti¬mento del genere ma questa mi sembra soltanto una forma meschina di accettazione. Se la si intende nel modo migliore, essa non è una qualità isolata ma implica un caldo coinvolgimento con l’altra persona, che è probabilmente sostenuto da un sentimento di affinità. All’interno della struttura di una relazione terapeutica ciò è sicuramente meno difficile ma questa non è una ragione per cui si possa definire meno genuino. In ogni caso una relazione del genere può essere un’importante fonte di aiuto per il cliente: una situazione che differisce dalla vita quotidiana poiché egli può esplorare ‘senza essere disturbato’ tutto ciò che vive in lui, può andare in profondità nei suoi sentimenti e trarre da essi comprensione e forza per la propria crescita.
Rinforzo selettivo ed obiettivo della terapia
L’accettazione è dunque necessariamente selettiva e ‘condizionata’ per il semplice fatto che l’obiettivo della terapia è quello di indurre il cliente al cambiamento? È vero che noi non siamo capaci e spesso non vogliamo essere ‘non direttivi’ perché speriamo di avere un impatto sulla vita del cliente, di essere per lui degli ‘agenti di cambia¬mento’? Una forma di direttività e di selettività è del tutto evidente ed è stata prontamente ammessa da Rogers e da altri terapeuti centrati-sul-cliente e consiste nel fatto che noi siamo orientati verso l’esperienza. Non tutte le affermazioni del cliente ricevono la stessa attenzione; noi cerchiamo sempre di indirizzare la conversazione dal semplice racconto dei fatti verso i sentimenti, dal livello teorico-astratto a ciò che si è concretamente vissuto. Rogers descrive in termini simili il suo intervento nei gruppi di incontro (1970; trad. it. pag. 52): “Certo nell’ascoltare sono selettivo e quindi ‘direttivo’, se la gente desidera muovermi un’accusa del genere. Mi concentro sul membro del gruppo che sta parlando e senza dubbio mi interesso assai meno ai particolari del suo litigio con la moglie o delle sue difficoltà nel lavoro o suo disappunto per quanto è stato detto, che al significato che queste esperienze hanno per lui ora e ai sentimenti che esse destano in lui. Ed è a questi significati e a questi sentimenti che cerco di adeguarmi”.
C’è quindi un tipo formalmente corretto di direttività che consiste in un rinforzo dell’esperienza del cliente. Per di più noi cerchiamo di sostenerlo via via che egli evolve verso un modo di vivere più orientato sull’esperienza, smette di aggrapparsi a norme esterne, intraprende azioni che gli danno una maggiore autonomia, si mette in gioco più intimamente nelle relazioni; in breve quando cambia in direzione del nostro concetto di ‘persona pienamente funzionante’ (Rogers, 1963b).
Rimane tuttavia aperta la questione se noi rinforziamo selettivamente anche l’esperienza stessa, se la nostra direttività sia orientata anche sui contenuti. Rogers spera di no. Egli crede che il modo migliore di fare terapia si realizzi quando tutti i sentimenti del cliente sono benvenuti, quando egli è ‘gratificato’ nel corso della terapia per ciascuna espressione di se stesso, qualunque sia il contenuto del sentimento (Rogers et al., 1967, pag.519). Inoltre, quando un cliente si chiude in se stesso oppure decide di abbandonare la terapia perché indietreggia davanti a tutto ciò che lo può coinvolgere o ricade in un comportamento che sembrava superato e così via … in quei momenti noi possiamo aiutarlo soprattutto accettando la sua posizione in quel momento, focalizzando ed esplorando in profondità ciò che sta provando ora.
Un altro aspetto di questa non-direttività riferita all’esperienza sta nel fatto che nella terapia centrata-sul-cliente non esiste alcuna strategia preliminare e neppure una pianificazione della terapia. Piuttosto, quest’ultima è considerata un’avventura da vivere momento per momento, in cui non è necessario che il terapeuta capisca in anticipo il nucleo del problema del cliente (Rogers et al., 1967 pag.509). Viceversa, noi contiamo sull’assunto che le questioni veramente importanti emergeranno in terapia. La sola istruzione che ci diamo è quella di seguire il più ricettivamente possibile ii flusso esperienziale del nostro cliente. Nè lui nè noi sappiamo in anticipo a cosa questo porterà. Infatti non abbiamo ‘pianificato’ alcunchè, nè abbiamo deciso in anticipo di dover esplorare certi contenuti.
Tenendo a mente questa distinzione tra il contenuto e la forma, occupiamoci della ricerche di Truax (1966) e Murray (1956). I loro risulati sono talvolta portati a sostegno della tesi, non sufficientemente qualificata, che Rogers operi un ‘condizionamento verbale’ (vedi anche Lieberman, 1969 a, 1969 b; Truax, 1969; Wachtel, 1979). Entrambi gli autori si pongono il problema se certi tipi di comportamento del cliente siano rinforzati più di altri e se quelli rinforzati con più frequenza aumentino col progredire della terapia. Truax (1966), in un caso di 85 sedute, analizzò l’empatia, l’accettazione e la non-direttività come rinforzi sociali (2) e verificò se il livello a cui Rogers offre questa attitudine è correlato a nuove dimensioni del comportamento del cliente. Furono ottenute correlazioni positive fra l’atteggiamento terapeutico e cinque dimensioni, mentre quattro mostrarono livelli più alti nelle sessioni terapeutiche successive. Queste ultime sono: la differenziazione dei sentimenti, lo sviluppo della comprensione, l’orientamento verso il problema ed il grado di somiglianza nello stile di espressione fra il cliente ed il terapeuta. I risultati indicano che Rogers rinforza l’esperienza del cliente ma non convalidano alcuna conclusione riguardo alla selettività sul contenuto, poiché le dimensioni considerate si riferiscono alla qualità formale del processo di esplorazione. Ciò non è altrettanto chiaro per quanto riguarda la ‘somiglianza nello stile di espressione’. Truax non definisce ciò che egli intende con questi termini. Altrove nel suo articolo descrive le ‘caratteristiche stilistiche del terapeuta’ come il modo in cui egli si esprime a livello personale, concreto, semplice e informale (Truax, 1966, pag. 4). Queste sono caratteristiche che attraverso un effetto di modellamento, Si può dire, dirigono il cliente in maniera vivida e ricettiva verso la sua esperienza. Inoltre la ricerca dimostra che alle due dimensioni più inerenti al contenuto, il terapeuta non rispondeva in modo selettivo. Queste dimensioni sono il grado di ansia del cliente e la misura in cui egli esprime sentimenti negativi opposti a quelli positivi.
Al contrario la ricerca di Murray (1956) indica che Rogers rinforza alcuni contenuti dell’esperienza piuttosto che altri. Nello studio di un caso di otto sedute, Murray ha esaminato l’effetto di sottili approvazioni e disapprovazioni sul comportamneto verbale del cliente e ha trovato che Rogers approva desideri, progetti e comportamenti che vanno in direzione di una maggiore indipendenza e sicurezza di sè (ad esempio: “e questo ti fa sentire meglio, presumo”, oppure: “questo sembra un passo avanti”), laddove invece risponde leggermente disapprovando alla difesa intellettuale (ad esempio: “puoi considerare realmente le tue reazioni e non un resoconto astratto ed intellettuale di esse”?) e ad alcuni aspetti di problemi sessuali. Murray trovò inoltre che le categorie approvate aumentavano e quelle disapprovate diminuivano nel corso della terapia. Questi dati confermano qualcosa di più di un orientamento formale sull’esperienza, cioè che Rogers accetti alcune esperienze più di altre? Io vorrei rispondere che non è sempre possibile separare forma e contenuto nel processo terapeutico concreto: il tentativo di approfondire il processo dell’esperienza talvolta implica che il terapeuta cerchi delle aperture per spostare la conversazione ad altri livelli di esperienza (e di contenuto). Questo è il caso della sessualità nello studio di Murray. Mentre nella fase iniziale della terapia il cliente credeva che i suoi problemi fossero soprattutto di natura sessuale, Rogers li sentiva (sensed) come l’espressione di un problema più fondamentale di rispetto di sè e di maturità. Per questo motivo egli cercò di spingere verso quello che riteneva un livello più profondo. Inoltre il supporto e l’incoraggiamento verso lo sviluppo di una maggiore indipendenza derivano probabilmente dalla visione di Rogers del funzionamento ottimale: egli considera l’auto-determinazione e l’auto-responsabilità come le basi per uno stile di vita fondato sull’esperienza. Le blande disapprovazioni di certi contenuti (ad esempio, la paura dell’indipendenza) non significano che Rogers manchi di accettare e capire questi sentimenti e neppure che rifiuti il cliente come persona. Piuttosto, egli non appoggia queste esperienze e non le considera un punto di arrivo costruttivo ma al contrario cerca di differenziarle ulteriormente nella speranza che evolvano in modo positivo.
Da tutto ciò potrebbe sembrare che persino la terapia centrata-sul-cliente non sia altro che un processo direttivo. Noi siamo formalmente diretti verso un contatto con ed un’espansione del campo esperienziale del cliente ed abbiamo anche un ideale di funzionamento ottimale che può dirigere al meglio i nostri interventi. Nel corso del processo terapeutico, comunque, rimane importante che noi restiamo aperti a ciò che il cliente prova in ogni momento, qualsiasi possa essere il contenuto. Questo è ovviamente un ideale che non viene mai pienamente realizzato (3). La nostra personalità ed i nostri punti ciechi ci impediscono di rilevare certi contenuti dell’esperienza dei clienti o ci costringono a non toccarli o a non trattarli realmente. Anche il nostro training all’interno di un certo orientamento terapeutico può modellare o accecare la sensibilità per certi contenuti dell’esperienza. Noi possiamo dunque solo sperare che la formazione e l’esperienza professionale ci aiutino a restringere al minimo queste forme di selettività non finalizzate all’obiettivo, in modo da mantenere quanto più pulita possibile la nostra influenza sul processo di cambiamento. Con tutta evidenza, Rogers non pone obiezione all’influenzamento; negli anni recenti egli si rivelato come un ‘ rivoluzionario silenzioso’ (Rogers, 1977). Quello che egli contesta è il controllo, la manipolazione, la pressione esterna e l’uso del potere (Rogers, Skinner, 1956). Un’idea centrale nella terapia centrata-sul-cliente è che, in fin dei conti, chi conduce lo spettacolo è il cliente stesso. Come ‘esperti del processo’ noi contribuiamo ad esso; ma è il cliente a decidere se rispondere o no, quanto veloce e quanto lontano andare, in che misura i nostri interventi portino nuova vita alla sua esperienza e così via. Un processo di questo tipo non è dunque un condizionamento cieco nel senso ortodosso del termine ma un processo di influenza desiderato dalla persona, che si verifica il più consciamente possibile ed in cui il cliente mantiene l’ultima parola.
Confronto ed accettazione incondizionata
Sullo sfondo delle affermazioni precedenti, vorrei formulare alcune riflessioni riguardo al confronto nella terapia centrata-sul-cliente, che è generalmente conosciuta come un approccio ‘soft’.
La domanda è in quale misura un terapeuta può confrontare il suo cliente e se cia è compatibile con un atteggiamento di accettazione incondizionata.
1) Innanzitutto e soprattutto io credo che i terapeuti centrati-sul-cliente mirino ad un alto grado di auto-confrontazione del cliente. L’idea fondamentale di Rogers è sempre stata che il compito principale del terapeuta consiste nel creare una clima di sicurezza in cui il cliente può focalizzarsi sulla sua esperienza più intima. Ciò, riducendo il timore interpersonale ed aumentando la concentrazione sull’interiorità (Rice, 1974, pag.302), permette al cliente di progredire nel profondo della propria esperienza. Si instaura così un meccanismo ‘auto-alimentante’ attraverso il quale il cliente integra le parti dell’esperienza precedentemente negate alla consapevolezza e, partendo da esse, compie un’ulteriore evoluzione. L’accettazione del terapeuta diviene un supporto per il cliente nel suo, a volte penoso, processo di auto-confronto. Contemporaneamente, un atteggiamento accettante assicura che ii terapeuta non ostacolerà nè svierà il cammino del processo esperienziale.
2) Sebbene questa idea centrale mantenga la sua importanza, il contributo del terapeuta è stato riformulato in termini più attivi. Mentre, nel periodo iniziale, la teoria indicava cia che il terapeuta doveva evitare (le cosiddette ‘cose da non fare’), piü recentemente il suo contributo è stato descritto in modo positivo, cioè con 10 scopo di sviluppare al massimo il processo esperienziale del cliente (Gendlin, 1970). In questa prospettiva l’atteggiamento ricettivo del terapeuta rimane importante ma cia non esclude che egli possa, in certi momenti, prendere l’iniziativa per stimolare il processo esperienziale del cliente. E nel contesto di questa evoluzione che gli interventi di confronto hanno ottenuto uno spazio sempre più grande all’interno della terapia centrata-sul-cliente. Senza entrare troppo nei particolari, vorrei illustrare questa asserzione piü accuratamente. Anzitutto, per quanto riguarda l’empatia, e chiaramente indicato nelle formulazioni recenti che il terapeuta riflette significati piü profondamente sottesi (4).
Rogers parla di sentimenti di cui il cliente è a fatica consapevole. Gendlin descrive significati implicitamente sentiti. Rice mette a confronto il riflesso di mantenimento con ii riflesso evocativo; con questo termine ella intende che il terapeuta cerca di ampliare l’esperienza del cliente evocando elementi esperienziali che non sono ancora integrati nel costrutto cognitivo del sè. Perciò un aspetto di confronto, nell’empatia, è ormai esplicitamente riconosciuto. Su un livello più concreto, ciò è stato illustrato in un articolo di Troemel-Ploetz (1980), in cui l’autore analizza gli aspetti ristrutturanti, interpretativi e persino paradossali di tre interventi empatici.
Inoltre, i terapeuti centrati-sul-cliente sono arrivati ad attribuire sempre maggiore importanza all’impiego delle loro esperienze del ‘qui ed ora’. Le impressioni che mi faccio del cliente ed i sentimenti che egli suscita in me possono costituire per lui un materiale importante, uno stimolo ad espiorare ulteriormente se stesso ed i suoi modelli relazionali. Questo implica, tuttavia, una perdita del principio di attenersi al campo esperienziale del cliente (Rogers, 1959a; trad. it. pag. 190): quando dò il mio feedback, in effetti, confronto ii cliente, dal mio schema di riferimento, con qualcosa che non è esplicitamente, e talvolta neppure implicitamente, presente in i lui. Di fatto, la terapia centrata-sul-cliente sta evolvendo verso una psicoterapia esistenziaie dai confini più ampi (Gendlin, 1974). Così, le iniziali regole non-direttive possono essere trascese nella pratica usando concetti clinici, dando ‘compiti a casa’, integrando tecniche ausiliarie; tutto ciò può essere fatto in modo centrato-sul-cliente, cioè mantenedo l’esperienza del cliente come pietra di paragone per qualunque cosa venga proposta dal terapeuta.
3) Questi interventi di confronto sono in disaccordo con un atteggiamento di accettazione incondizionata? Se ci basiamo sul significato che è stato precedentemente descritto, credo di no. Perchè il confronto non significa in alcun modo che io rifiuti ii cliente come persona o che smetta di tentar di capire la sua esperienza (5). Anzitutto, non è detto che ogni confronto derivi da sentirnenti di irritazione. Ad esempio, potrei confrontare il cliente con la sua forza e le sue possibilità o con aspetti della sua esperienza che sono difficilmente consci o anche con sentimenti positivi da parte mia. Inoltre esistono dei confronti che hanno a che fare con la nostra relazione. Questi momenti raggiungono la più alta probabilità di avere un effetto costruttivo quando riesco ad esprimere e a comunicare un profondo coinvolgimento.
In questo contesto, vorrei concludere ii presente lavoro fornendo alcune ‘regole di confrontazione’ quali appaiono nella letteratura centrata-sul-cliente e che trovo molto importanti (vedi, fra gli altri: Boukydis, 1979; Carkhuff, Berenson, 1977; Gendlin, 1968, pagg. 220-225; 1981 pagg. 127-144; Rogers, 1970, pagg. 53-57).
Anzitutto, ii tempo è estremamente importante. In una prima seduta non posso dire ciò che facilmente potrei dire piü avanti. La relazione deve prima acquisire sicurezza e fluidità. Inoltre, credo che le mie impressioni ed i miei sentimenti nel primo colloquio sono ancora troppo superficiali e insufficenti per poter essere messi in campo.
È anche molto importante che io comunichi chiaramente che il mio feedback e le mie reazioni appartengono esclusivamente a me; questa è un’operazione di trasparenza (self-revelation) senza imposizione. Ciò conferisce un tocco personale all’interazione, conferma la sua caratteristica non giudicante ed implica che io voglio affrontare la mia parte di difficoltà. Nel caso di limiti del setting, ad esempio, è importante che io li formuli chiaramente come provenienti da me. Quando mi comporto così, il cliente è messo a confronto con la mia realtà ed è quindi minore la probabilità che egli si senta rifiutato.Io cerco anche di comunicare chiaramente che le mie reazioni sono collegate al suo comportamento concreto e non a lui come persona. E perciò importante che io fornisca un feedback il più dettagliato possibile, descrivendo come questa esperienza si è sviluppata in me e cosa, nel suo modo di interagire, me l’ha suscitata. Allo stesso tempo devo tenere conto dei bisogni situati sotto al comportamento del cliente. Se noto, ad esempio, l’attitudine di una persona a spianare sempre gli spigoli o se faccio notare a due coniugi che non stanno comunicando in maniera diretta, è importante che io metta a fuoco ii significato di questo comportamento. La distinzione che cerco di compiere fra persona e comportamento, tuttavia, non sempre è percepita dal cliente.
Talvolta egli si sente rifiutato come persona persino se questo non è ii mio vissuto. Ciò porta all’ulteriore ‘regola’, all’attitudine di base che ispira tutti i miei interventi di terapeuta centrato-sul-cliente: essere continuamente in contatto con ii modo in cui il mio cliente sperimenta ii confronto e risponde ad esso.
Germain Lietaer
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NOTE:
(1) In una revisione della definizione di accettazione incondizionata, Barrett-Lennard (1978, pag. 5) sottolinea fra l’altro che questa attitudine è diretta alla persona e non al suo effettivo comportamento: “L’accettazione nei confronti di un’altra persona è condizionata nella misura in cui: a) è legata a mutevoli o alternanti comportamenti, attitudini, sentimenti o modi di essere dell’altro e b) è sperimentata sotto forma di una risposta complessiva alla persona o al sè… Nel caso in cui le reazioni positive o negative a comportamenti particolari non veicolino un messaggio di approvazione/disapprovazione, piacere/dispiacere, etc., per il sè o per la personalità di chi le riceve, allora esse non implicano un’accettazione condizionata”. Per un punto di vista opposto, vedi Schmitt, 1980.
(2) Con Gurman (1977, pag. 536), io credo che sia semplicistico interpretare le condizioni necessarie e sufficenti come semplici rinforzi. Alcuni clienti possono sperimentare queste attitudini come ‘avversive stimuli’ a causa della loro storia personale. Questo puà essere ii caso, ad esempio, della non-direttività con i clienti dipendenti e della accettazione calda ed empatica con quelli sospettosi.
(3) Rogers stesso sottolinea ciò con molta forza (1957, pag. 98). Questo atteggiamento appare anche nelle reazioni di alcuni terapeuti di orientamento psicoanalitico o esistenziale nei confronti dei frammenti di tre terapie centrate-sul-cliente. Truax e Carkhuff (1967, pag.503) riassumono i loro commenti in questo modo: “Particolarmente sorprendenti erano le osservazioni, quasi unanimemente condivise, secondo cui il processo della terapia centrata-sul-cliente in qualche modo evita le usuali e prevedibili espressioni di sentirnenti negativi, di ostilità e di aggressività da parte del paziente. L’evidente implicazione e che il terapeuta centrato-sul-cliente per qualche ragione sembra meno disponibile ad accogliere sentimenti negativi, ostili o aggressivi. E perché i terapeuti non accettano o sottovalutano i loro stessi sentirnenti negativi, ostili o aggressivi e perciò sono incapaci di accogliere quelli del paziente? Oppure semplicemente essi ‘non credono’ nell’importanza dei sentimenti negativi?”.
(4) Alcune citazioni per illustrare il problema. Rogers (1975a, pag. 1833): “Nel suo significato migliore, questa comprensione è espressa da risposte che riflettono non soltanto ciò di cui il cliente è pienamente consapevole ma anche ciò che si trova nell’incerta zona ai confini della consapevolezza (edge of awareness)”. Gendlin (1967, pag. 399): “La mia risposta] offre all’esperienza del paziente non solo quello che egli già sa ma anche ciò che egli prova abbastanza ma non del tutto (cosicché lo sente chiaramente dopo che se ne e parlato)”. Rice (1974, pag. 298): “[Il terapeuta] cerca di percepire con la massima accuratezza ‘ciò che il cliente verosimilmente è in quel determinato momento’. È l’insieme dell’esperienza totale che egli cerca di rimandare al cliente il più concretamente e vividamente possibile. Ci si augura che quest’ultimo potrà allora usare questo rimando per approfondire ed arricchire la consapevolezza della propria esperienza e quindi ampliarne la portata”.
(5) In questo senso, Gendlin (1970, pag. 549) scrive: “Ma l’accettazione incondizionata in effetti significa apprezzare ii cliente come persona senza preclusioni per cia che egli trova via via in se stesso (corrispondendo al suo sforzo, sempre positivo, di combattere contro qualunque cosa lo intrappoli). Ciò include le nostre espressioni di disappunto e persino di rabbia ma sempre in un contesto in cui ambedue cerchiamo di incontrarci in modo caldo e leale come persone, nel punto in cui ognuno di noi sente ed è”.