Referenza Bibliografica da: http://schmid.members.1012.at/englindex.htm
Some observations on the organisation of personality
in: American Psychologist 2 (1947) 358–368
[address delivered at the September 1947 Annual Meeting of the American Psychological Association]
Presentazione di Valeria Vaccari
Il testo che, con grande soddisfazione, qui presentiamo, è inedito in Italia. Fu letto da Rogers, quale Presidente uscente, all’assemblea annuale dell’APA tenuta nel settembre 1947 e successivamente pubblicato sul “Journal of Abnormal Psychology”. Ha quindi il tono piuttosto cauto e ipotetico di quando si illustrano ipotesi ancora tutte da verificare e uno stile colloquiale che ha causato non pochi problemi di traduzione al nostro valoroso Orazio Drago. La sua importanza si deve al fatto che è il primo lavoro in cui Rogers, che ha già pubblicato Counseling and Psychotherapy, scrive di teoria della personalità. Come egli stesso afferma, se ne occupa da un punto di vista essenzialmente clinico cercando di raccogliere, organizzare e trovare una chiave di lettura per il materiale che il nuovo approccio terapeutico e la possibilità di registrare le sedute gli forniscono. Perno del suo ragionamento è il tentativo di spiegare come e perché cambia, in conseguenza della terapia, il comportamento di una persona: fatto in apparenza sorprendente, dal momento che il terapeuta non fornisce alcun genere di consiglio, istruzione o prescrizione.
Il punto di partenza che Rogers adotta è di tipo fenomenologico (dal greco “fainomai”, appaio) anche se il termine non compare esplicitamente, cosa che accadrà invece in Client-centered Therapy quattro anni più tardi. Come rilevato in altra sede (Fresa, Vaccari, 1997) si tratta di un approccio sostanzialmente diverso da quello di derivazione husserliana, che trova le sue matrici filosofiche nel pragmatismo e la sua diretta ascendenza nel manoscritto, all’epoca non ancora pubblicato (lo sarà due anni dopo col titolo Individual Behaviour), di D. Snyggs e A. Combs, delle cui idee con molta correttezza Rogers si riconosce debitore.
Il cambiamento del comportamento, egli dice in sostanza, deriva dal cambiamento psicologico interiore della persona, dal vedere le cose in un’ottica diversa o, in termini più teorici, secondo un diverso “schema di riferimento interno”. Perciò il comportamento si evolve in modo spontaneo, senza sforzi volontaristici e di autocontrollo (p. 6). Questo ragionamento però sposta soltanto il problema, perché, a tal punto, è logico chiedersi da cosa derivi il cambiamento dello schema di riferimento interno. In una serie di esempi clinici molto ben scelti e abbastanza impressionanti nella loro evidenza, Rogers individua due elementi: l’insieme organizzato delle percezioni o “campo percettivo” e il “concetto di sé”, e mostra come sia il mutato rapporto fra essi a costituire il cambiamento. Nel fare ciò egli definisce le due principali strutture della personalità, quali vedremo teorizzate in Client-centered Therapy.
Nell’iter del discorso, Rogers si allontana progressivamente dal modello di Snygg e Combs e dalla loro visione puramente fenomenologica (Fresa, Vaccari, 1997). Suppone l’esistenza di percezioni che, non essendo in accordo con il concetto di sé, sono negate, non disponibili alla coscienza. Infatti, come già affermato da P. Lecky, al cui lavoro Rogers rende omaggio, il concetto di sé, per definizione cosciente, “resiste all’incorporare” qualsiasi percezione che sia incoerente con la sua attuale organizzazione (p. 9). A questo punto, il problema si sposta ancora: come avviene che si modifichi il concetto di sé “dall’interno” in modo da permettere l’integrazione di percezioni finora escluse?
Questo è il punto in cui, a mio avviso, il discorso di Rogers si incrina. Egli recupera da Snygg e Combs l’idea che esista una “minaccia”, una “possibilità di attacco” (p. 9) non ulteriormente specificata al concetto di sé la quale, di regola, mantiene attivamente l’impossibilità al cambiamento e che viene esorcizzata dal clima di sicurezza della relazione terapeutica. Si tratta di un fattore motivazionale che si trasformerà, per successive teorizzazioni, nel bisogno di accettazione positiva incondizionata. Sembrerebbe questo il primum (et unicum) movens (oltre al fatto che la terapia si focalizza sul cliente e sul suo vissuto piuttosto che sulle circostanze esterne) e che, per il resto, il terapeuta viva nell’ombra del cliente, divenendo per lui “quasi un altro sé”, “un’espressione alternativa del sé” (p. 10). Da questo punto di vista, tutta la ristrutturazione del concetto di sé del cliente avviene per risorse autonome, senza alcun “inquinamento” di giudizi, valori, pareri da parte del terapeuta. Rogers è convinto che il materiale della terapia non direttiva coincida con “la più ‘pura’ espressione delle istanze personali” (p. 1) e non si accorge che già Freud, nel teorizzare le libere associazioni, aveva le stesse illusioni. E come se egli dicesse: “mettendo ‘benzina’ motivazionale sotto forma di sicurezza ed accettazione, tutto il motore della ristrutturazione simbolica cosciente del concetto di sé si metterà in moto e procederà da solo”. Viceversa, a ben guardare, il terapeuta sarà pure quasi un altro sé, ma con opinioni ben distinte, visto che accoglie con accettazione e comprensione cose che sono, per il cliente, inaccettabili e minacciose. In questo caso egli esprime indubbiamente, e Rogers lo riconosce (p. 1), valori e giudizi propri. E come potrebbe non farlo? Anche il silenzio, anche il non prendere posizione sono, come sappiamo, una forma di comunicazione: il terapeuta non può sottrarsi al suo ruolo di agente significante in quel processo di interazione simbolica presente in ogni rapporto umano. È vero però che la natura dell’intervento rogeriano è molto diversa rispetto ad altri approcci; vale la pena, perciò, di esplorarla più a fondo, perché sembrerebbe che da questa analisi scaturisca il secondo fattore di cambiamento. Potremmo riassumerlo così: quando un individuo vede un’altra persona significativa accogliere tutte le sue percezioni, non soltanto si sente meno minacciato e più sicuro ma anche “impara”, diviene capace di fare altrettanto. È come se il terapeuta trasmettesse al cliente: “guarda che non è necessario che tu elimini o distorca le percezioni incoerenti con il concetto che hai di te stesso; puoi invece ricercare una coerenza più ampia e profonda” e lo appoggiasse emotivamente in questa operazione. In tal modo, il concetto di sé può integrarsi secondo un modello di maggiore complessità funzionale e più maturo dal punto di vista esistenziale che, per quanto concerne la teoria della personalità, dà luogo alla congruenza. Tale ristrutturazione va nella direzione della tendenza attualizzante e si lascia alle spalle, oramai superflui, i meccanismi di difesa. Perché il processo si sviluppi, dunque, sembrerebbe necessario un profondo innesto non di “contenuti” specifici ma di “forme” antropologiche (o, se vogliamo, di strategie di coping) proprio nel cuore della struttura di personalità del cliente. Sennonché, a questo riguardo, Rogers sembrerebbe cadere in una sorta di autofraintendimento perché scambia il fatto che il terapeuta non fornisca pareri, consigli, interpretazioni col fatto che non esista alcuna trasmissione di tipo cognitivo simbolico dal terapeuta al cliente: “È difficile immaginare come ciò potrebbe influenzare il contenuto di un colloquio se non permettendo un’espressione di sé più profonda di quella che il cliente normalmente si concederebbe” (p. 1). Si può capire che la sua posizione sia dettata da vis polemica verso chi di pareri, consigli e interpretazioni ne fornisce fin troppi; però quest’ottica lo porta a sopravvalutare la capacità di autoriorganizzazione del concetto di sé e di conseguenza ad escludere dall’ambito della TCC tutti i grandi disfunzionamenti (depressione maggiore, disturbi di personalità, psicosi) in cui essa è seriamente compromessa o addirittura assente. E non è un caso che proprio quando, più di dieci anni dopo questo articolo, si trova alle prese con la ricerca sugli schizofrenici, egli da un lato sancisca con le sei proposizioni i limiti dell’approccio, dall’altro – sottolineando la congruenza e la trasparenza piuttosto che l’accettazione e l’empatia – dichiari implicitamente l’importanza dell’apporto simbolico del terapeuta. Ciò non basta tuttavia, a mio avviso, per ristabilire l’equilibrio, perché diversi tipi di intervento terapeutico che riguardano proprio questa problematica – quali la confrontazione e il feedback -sono stati spesso usati e citati ma mai teorizzati. Tuttora la TCC risente degli effetti di questa impostazione: esiste un vuoto teorico, clinico e didattico su tutto ciò che non riguarda il binomio accettazione-empatia e una sorta di difficoltà, di remora ad aprire un dibattito approfondito su questo problema, quasi che esso suscitasse vecchie paure, o potesse mettere in crisi l’identità rogeriana. Tale discorso va, comunque, molto al di là dello scopo di questa presentazione che è invece, quello di rilevare come l’articolo contenga, in nuce, tutte le idee innovative, le capacità cliniche e teoriche ma anche i problemi e le contraddizioni del successivo sviluppo dell’opera di Rogers. Per completezza, e per chi trovasse difficoltà di lettura, citiamo anche la mancata distinzione fra significato oggettivo e soggettivo del concetto di sé, già segnalata da B. Smith (Mischel, 1981), e quella fra esperienza e percezione, acutamente analizzata, sulle pagine di questa rivista, da Marilù Gargiulo (1994).
Bibliografia
FRESA M., VAccari V., Rogers fenomenologo? Rogers cognitivista?, Da persona a persona, 1997.
GARGIULO M.L, Esperienza e sirnbolizzazione, Da persona a persona, 1994.
Mischel W. (1981), Lo studio della personalità, Bologna, il Mulino, 1986.
In vari campi della scienza, rapidi passi avanti sono stati compiuti da quando è divenuta possibile l’esplorazione di fenomeni prima conosciuti soltanto per via indiretta. In medicina, ad esempio, da quando le tecniche endoscopiche hanno permesso la visualizzazione del processi digestivi, l’influenza su di essi della tensione emotiva è stata valutata con molta maggiore accuratezza. Nella terapia non direttiva abbiamo spesso l’impressione che ci venga offerta una possibilità analoga, quella di osservare direttamente numerosi processi che riguardano la personalità. Anche prescindendo dalla terapia non direttiva abbiamo comunque davanti un prezioso filone di materiale di prima mano per lo studio della personalità.
Caratteristiche del materiale d’osservazione
Per molti versi, i dati a nostra disposizione hanno un valore unico per la comprensione della personalità. Il fatto che le espressioni verbali delle dinamiche profonde siano registrate col magnetofono rende possibile un’analisi dettagliata come mai prima d’ora. La registrazione ci offre un microscopio col quale possiamo esaminare senza fretta e nel minimo dettaglio quasi ogni aspetto di ciò che era, nel suo verificarsi, un fugace momento, non passibile di accurata osservazione.
Dal punto di vista scientifico, un’altra felice caratteristica di questo materiale è il fatto che le produzioni verbali del cliente siano influenzate in misura minima dal terapeuta. Il materiale dei colloqui centrati sul cliente, rispetto ad altri approcci, giunge probabilmente ad essere la più “pura” espressione delle istanze personali. Si può leggere o ascoltare da cima a fondo una terapia senza trovare più di una mezza dozzina di casi in cui le idee del terapeuta su qualsiasi punto risultino evidenti. Sarebbe impossibile farsi un’idea delle sue opinioni sulle dinamiche della personalità o sulla diagnosi, sui suoi modelli di comportamento o sul suo ceto sociale. L’unico modello o valore cui il terapeuta si rifà, e che si rivela nel tono della voce, nelle risposte e nelle azioni, è un profondo rispetto della personalità e delle istanze del cliente come persona in sé. È difficile immaginare come ciò potrebbe influenzare il contenuto di un colloquio se non permettendo un’espressione di sé più profonda di quella che il cliente normalmente si concederebbe. Questa totale mancanza di qualsiasi atteggiamento inquinante è sentita e talvolta espressa dal cliente.
Una donna afferma:
È quasi impersonale. Tu mi piaci — naturalmente non so perché dovresti piacermi o non piacermi. È una cosa particolare. Non ho mai avuto questa relazione con nessuno prima e ci ho pensato spesso. Spesse volte esco con un sentimento di esaltazione che tu abbia molta stima di me, e naturalmente allo stesso tempo ho una sensazione che ‘Mah, deve pensare che io sia una tremenda stupida’ o qualcosa del genere. Ma veramente no — queste sensazioni non sono così profonde da permettermi di farmi un’opinione su di te in un senso o nell’altro.
Sembra che alla cliente piacerebbe scoprire un qualche tipo di valutazione, ma che non ci riesca. Studi già pubblicati e ricerche ancora inedite confermano questo punto: le risposte del terapeuta in qualche modo valutative o inquinanti sono quasi trascurabili e questo aumenta il valore di tali colloqui per lo studio della personalità.
L’atteggiamento di calore e comprensione del terapeuta, ben descritto da Snyder (9) e Rogers (8) aiuta anche ad aumentare la libertà di espressione. Il cliente sperimenta da parte del terapeuta un tale interesse e una tale accettazione da essere in grado di parlare apertamente non solo di questioni superficiali ma, via via sempre più, di problemi profondi e sentimenti nascosti perfino a se stesso. Quindi, da questi colloqui registrati otteniamo materiale di considerevole profondità per quanto riguarda le dinamiche della personalità e contemporaneamente privo di distorsioni.
Infine, la natura stessa dei colloqui e delle tecniche per mezzo delle quali essi sono condotti ci offre la rara opportunità di vedere attraverso gli occhi di un’altra persona, di percepire il mondo così come le appare, di arrivare almeno parzialmente allo schema di riferimento interno (internal frame of reference). Vediamo il suo comportamento attraverso i suoi occhi e il corrispondente significato psicologico. Vediamo anche i cambiamenti nella personalità e nel comportamento, e i significati che essi hanno per l’interessato. Siamo ammessi dietro le quinte della vita di una persona, dove possiamo osservare dal di dentro il dramma del cambiamento interiore, che sono spesso più coinvolgenti e toccanti di ciò che viene presentato alla ribalta. Soltanto uno scrittore o un poeta potrebbe rendere giustizia delle profonde lotte che noi osserviamo dall’interno nel mondo della realtà del paziente.
Questa rara opportunità di osservare così direttamente e chiaramente le più profonde dinamiche della personalità costituisce una fra le più significative esperienze di apprendimento clinico. La psicologia e la psichiatria comportano per lo più giudizi che riguardano l’individuo: giudizi che devono necessariamente essere basati su un qualche schema di riferimento introdotto nella situazione dal clinico. Cercare continuamente di vedere e di pensare con l’individuo, come nella terapia centrata sul cliente, è un’esperienza di apertura mentale nella quale l’apprendimento si sviluppa velocemente perché il terapeuta non porta alcun parametro predeterminato col quale giudicare il materiale.
In questo scritto vorrei riportare alcune osservazioni cliniche che abbiamo ottenuto guardando dentro alla personalità da queste finestre psicologiche e trattare assieme a voi alcune questioni relative all’organizzazione della personalità che queste osservazioni hanno sollevato in noi. Non cercherò di presentare le cose secondo un filo logico, ma piuttosto secondo l’ordine con cui esse si sono imposte alla nostra attenzione. Ciò che offrirò non è una serie di ritrovati della ricerca, ma soltanto un primo passo in quel processo di graduale approssimazione che chiamiamo scienza, una descrizione di alcuni fenomeni osservati che paiono essere significativi e delle relative, assai provvisorie, spiegazioni.
La relazione del campo percettivo organizzato con il comportamento
Una semplice osservazione, che si ripete più volte in ogni caso clinico di successo, sembra avere implicazioni teoriche piuttosto profonde: quando avvengono cambiamenti nella percezione di sé e nella percezione della realtà, avvengono cambiamenti nel comportamento. In terapia questi cambiamenti percettivi sono più spesso in relazione con il sé che non con il mondo esterno. Perciò, quando la percezione del sé si modifica, il comportamento cambia. Forse un esempio pratico mostrerà il tipo di osservazione su cui si basa questa affermazione.
Una giovane donna di istruzione superiore, che chiameremo Miss Vib, venne per nove colloqui. Se confrontiamo il primo colloquio con l’ultimo sono evidenti notevoli cambiamenti. Alcune caratteristiche di questo cambiamento possono essere fornite prendendo tutte le più importanti affermazioni riguardanti il sé del primo e dell’ultimo colloquio, nonché tutte le principali affermazioni riguardanti il comportamento attuale. Nel primo, per esempio, la sua percezione di sé può essere illustrata a grandi linee, prendendo tutte le sue affermazioni riguardo a se stessa e raggruppando quelle che sembrano simili, con un minimo di revisione, e mantenendo, per quanto possibile, le sue stesse parole. Iniziamo con la percezione consapevole del sé all’inizio del counseling.
“Mi sento disorganizzata, confusa; ho perso del tutto la direzione; la mia vita personale si è disintegrata. In un certo modo faccio esperienza delle cose dalla parte più avanzata della mia consapevolezza, ma niente penetra molto a fondo; le cose non mi sembrano reali; sento che niente ha importanza; non ho alcuna risposta emotiva alle situazioni; sono preoccupata di me stessa.
Non agisco come me stessa; non sembro io; sono una persona completamente diversa da quella che ero in passato. Non mi capisco; non so cosa mi sia successo. Mi sono ritirata da ogni cosa; mi sento bene solo quando sono tutta sola e nessuno pretende che io faccia delle cose. Non mi interessa il mio aspetto personale. Non so più niente. Mi sento in colpa per le cose che ho lasciato incompiute. Non penso che potrei mai assumermi la responsabilità di qualche cosa.”
Se tentiamo di valutare questa immagine del sé da uno schema di riferimento esterno, ci possono venire alla mente vane etichette diagnostiche. Cercando di percepirlo solamente dallo schema di riferimento della cliente, osserviamo che si vede disorganizzata e non si sente sicuramente se stessa. È confusa e quasi ignara di ciò che sta accadendo in lei. Si ritiene incapace e non disposta ad agire in alcun modo responsabile o socievole. Questo è almeno un esempio del modo in cui lei sperimenta o percepisce il suo sé.
Il suo comportamento è del tutto coerente con questa immagine del sé. Se noi astraiamo tutte le sue affermazioni riguardo al comportamento, così come abbiamo fatto con quello relativo al sé, emerge il seguente modello (un modello che in questo caso è avvalorato dall’osservazione esterna):
“Non sono riuscita a trovare il coraggio di venire prima; non mi sono mai avvalsa di un aiuto. Ogni cosa che dovrei o voglio fare, non la faccio. Non sono stata in contatto con gli amici; evito di fare lo sforzo di andare con loro; ho smesso di scrivere lettere a casa; non rispondo alle lettere e alle telefonate; evito contatti che sarebbero professionalmente utili; non sono andata a casa ultimamente, sebbene avessi detto che ci sarei andata. Non ho consegnato un mio lavoro a un corso, sebbene l’avessi fatto tutto; non mi sono persino comprata i vestiti di cui avevo bisogno; non ho nemmeno tenuto curate le mie unghie. Non ho ascoltato il materiale che stavamo studiando; spreco ore leggendo fumetti; riesco a trascorrere l’intero pomeriggio non facendo assolutamente nulla.”
Il quadro del comportamento è strettamente correlato all’immagine di sé ed è riassunto nell’affermazione: “Ogni cosa che dovrei fare o voglio fare, non la faccio”. Il comportamento si sviluppa con modalità che sembrano all’individuo al di là della comprensione e del controllo.
Se confrontiamo questa immagine di sé e del proprio comportamento con quella del nono colloquio, trentotto giorni dopo, la troviamo profondamente mutata. Le affermazioni riguardo il sé sono:
“Mi sento molto meglio; sono più interessata a me stessa.
Ho davvero una certa individualità, degli interessi.
Mi sembra di stare ottenendo una nuova comprensione di me stessa.
Riesco a guardare me stessa un po’ meglio.
Mi rendo conto che sono proprio una persona, con così tante capacità, ma non sono preoccupata di questo; posso accettare il fatto che non ho sempre ragione.
Sento più motivazione, ho più di un desiderio di andare avanti.
Occasionalmente mi rammarico ancora del passato, sebbene mi senta molto infelice riguardo ad esso; ho ancora molta strada da fare; non so se riuscirò a mantenere l’immagine di me stessa, sto incominciando a evolvere.
Posso continuare ad imparare — a scuola o fuori.”
Mi sento davvero di più come una persona normale ora; sento di più che posso gestire la mia vita da sola; penso di essere al punto in cui posso andare avanti da sola.”
Rilevanti in questa percezione di sé sono tre cose: conosce se stessa, può guardare con serenità ai suoi pregi e ai suoi difetti; infine, ha motivazione (drive) e controllo su di essa.
In questo colloquio, l’immagine del comportamento è di nuovo coerente con la percezione del sé. Può essere riassunta in questi termini:
“Ho fatto progetti riguardo la scuola e un lavoro; ho lavorato sodo a un elaborato trimestrale; sono andata in biblioteca per trovare un argomento di speciale interesse ed è stato divertente.
Ho riordinato gli armadi, lavato i vestiti. Ho finalmente scritto ai miei genitori; andrò a casa per le vacanze. Esco ed ho rapporti sociali; reagisco in modo ragionevole a un ragazzo che è interessato a me — vedendo sia i suoi pregi sia i suoi difetti. Lavorerò per la mia laurea; incomincerò a cercare un lavoro questa settimana.”
Il suo comportamento, al contrario di quello del primo colloquio, è ora organizzato, è proattivo, efficace, realistico e progettuale: è in armonia con la visione realistica e organizzata del sé che ha raggiunto.
È questo tipo di osservazione, caso dopo caso, che ci porta a dire con una certa garanzia che, quando le percezioni del sé e della realtà cambiano, cambia anche il comportamento. Similmente, in casi che potremmo definire fallimenti non sembra esserci un apprezzabile cambiamento nell’organizzazione percettiva o nel comportamento.
Che tipo di spiegazione potremmo dare di questi mutamenti concomitanti nel campo della percezione e nel modello di comportamento? Esaminiamo alcune delle probabilità logiche.
In primo luogo, è possibile che fattori non legati alla terapia possano aver determinato il mutamento nella percezione e nel comportamento. Possono essersi verificati processi fisiologici nelle dinamiche sociali, nel panorama educativo o in qualche altra area di influenza culturale che potrebbero spiegare il cambiamento piuttosto drastico nel concetto di sé e nel comportamento.
Ci sono però difficoltà in questo tipo di spiegazione. Non solo non c’erano stati grossi cambiamenti nella situazione fisica e culturale per quanto riguarda Miss Vib, ma questa spiegazione diventa gradualmente inadeguata quando si cerca di applicarla ai molti casi nei quali tale cambiamento si verifica. Ipotizzare che un qualche fattore esterno determini il cambiamento e che solo per caso questo coincida con la terapia, diventa un’ipotesi insostenibile.
Guardiamo allora a un’altra spiegazione, vale a dire che il terapeuta abbia esercitato, durante le nove ore di contatto, una potente influenza culturale che ha determinato il cambiamento. Qui di nuovo dobbiamo far fronte a numerosi problemi. Sembrerebbe che nove ore disseminate in oltre cinque settimane e mezzo siano una piccolissima porzione di tempo in cui provocare l’alterazione di modelli che sono stati costruiti in trent’anni; dovremmo quindi ipotizzare un’influenza così potente da essere classificata come traumatica. Anche questa teoria è particolarmente difficile da sostenere quando troviamo, nell’esaminare i colloqui registrati, che non una volta in nove ore il terapeuta ha trasmesso alcuna valutazione, positiva o negativa, della percezione iniziale o finale del sé del cliente, o del suo iniziale o finale modello di comportamento. Non solo non c’è stata alcuna valutazione ma nemmeno sono stati espressi modelli per mezzo dei quali la valutazione avrebbe potuto essere inferita.
Da parte del terapeuta, invece, c’era prova di un caloroso interesse per la persona e di una totale accettazione del sé e del comportamento così come esistevano all’inizio, negli stadi intermedi e alla conclusione della terapia. Appare ragionevole dire che il terapeuta ha stabilito certe definite condizioni di relazione interpersonale ma, poiché la vera essenza di questa relazione è il rispetto per la persona così com’è in quel momento, il terapeuta può difficilmente essere giudicato come una forza culturale che promuova il cambiamento.
Ci troviamo così costretti a fare ricorso ad un terzo tipo di spiegazione che non è affatto nuovo in psicologia, ma che finora è stato solo parzialmente accettato. Brevemente, si potrebbe dire che i fenomeni di cambiamento osservati sembrano adeguatamente spiegati dall’ipotesi che in determinate condizioni psicologiche, l’individuo ha la capacità di riorganizzare il suo campo di percezione, incluso il modo in cui percepisce sé stesso, e che un fattore concomitante o una risultanza di questa riorganizzazione percettiva è un appropriato mutamento del comportamento. Questo principio è l’espressione formalmente oggettiva di un’ipotesi di evidenza clinica del terapeuta centrato sul cliente. Ci si trova, in base ad essa, a sviluppare un alto grado di rispetto per le forze di integrazione dell’io che si trovano in ogni individuo. Si giunge a riconoscere che in certe condizioni il sé è un fattore base nella formazione della personalità e nella determinazione del comportamento. L’esperienza clinica suggerirebbe con forza che il sé è, in qualche modo, un architetto di sé e che l’ipotesi sopra riportata pone semplicemente questa osservazione in termini psicologici.
A supporto di questa ipotesi si è notato in alcuni casi che uno dei fattori concomitanti del successo in terapia è la comprensione da parte del cliente che il sé ha la capacità di riorganizzazione. Così uno studente dice:
“Sai che io parlo del fatto che il background di una persona lo rallenta. Come il fatto che la mia vita familiare non è stata buona per me e che mia madre certamente non mi ha dato niente di quel genere di educazione che avrei dovuto avere. Beh, ci ho pensato su. Questo è vero fino ad un certo punto. Quando tu sei in grado di capire la situazione, allora veramente dipende da te.”
In seguito a questa affermazione sul rapporto fra il sé e l’esperienza si verificarono molti cambiamenti nel comportamento del giovane. In questo come in altri casi, sembra che quando la persona giunge a vedere sé stessa come l’agente che percepisce e organizza, allora hanno luogo la riorganizzazione della percezione e il conseguente cambiamento nei modelli di reazione.
D’altra parte abbiamo di frequente osservato che quando l’individuo viene convinto in modo autorevole di essere governato da certi fattori o condizioni al di là del suo controllo, questa convinzione rende più difficile la terapia; è solo quando l’individuo scopre da sé che può organizzare le proprie percezioni, che il cambiamento diventa possibile. Nei veterani a cui è stata fatta una diagnosi psichiatrica, l’effetto è spesso quello di far sentire l’individuo sottoposto a un destino immutabile e incapace di controllare la sua vita. Quando tuttavia il sé percepisce se stesso come capace di organizzare il proprio campo percettivo, avviene un considerevole cambiamento nella fiducia di base. Miss Nam, una studentessa, illustra questo fenomeno quando, dopo avere compiuto progressi in terapia, dice:
“Credo di sentirmi davvero meglio anche riguardo al futuro, perché è come se sentissi che non agirò al buio. È come, beh, sapere perché mi comporto in un determinato modo … e almeno non c’è la sensazione che tu sia semplicemente fuori dal tuo controllo e che sia il fato a farti agire così. Se ti rendi conto di questo, io penso che tu possa fare di più per migliorare le cose.”
Un veterano alla fine del counseling esprime la stessa cosa in modo più breve e positivo: “Il mio atteggiamento verso me stesso è cambiato ora nella misura in cui sento che posso fare qualcosa di me stesso e della mia vita”. Egli è giunto a vedere sé stesso come lo strumento per mezzo del quale una certa riorganizzazione può avere luogo.
C’è un’altra osservazione clinica che può essere citata a sostegno dell’ipotesi generate di una stretta relazione fra il comportamento e il modo in cui la realtà è vista dall’individuo. In motti casi si è notato che i cambiamenti del comportamento avvengono per lo più in modo impercettibile e quasi automatico, una volta che la riorganizzazione percettiva ha avuto luogo. Una giovane moglie che reagiva in modo violento alla domestica ed era abbastanza disorganizzata nel proprio comportamento come conseguenza di questa antipatia dice: “Dopo che ho scoperto che non era niente più del fatto che assomigliava a mia madre, non mi ha dato più fastidio. Non è interessante questo? Lei è sempre la stessa persona”. Qui c’è una chiara affermazione che indica che, sebbene le percezioni di base non siano cambiate, esse sono state organizzate in modo diverso, hanno acquisito un nuovo significato proprio allora si realizzano i cambiamenti del comportamento. Una simile testimonianza è data da un cliente, uno psicologo con una formazione già completa, al termine di una breve serie di colloqui centrati sul cliente scrive:
“Un altro interessante aspetto della situazione era in relazione coi cambiamenti in alcuni del miei atteggiamenti. Quando il cambiamento avveniva, era come se gli atteggiamenti di prima fossero stati distrutti completamente, come cancellati da una lavagna… Quando si verificava una situazione che un tempo avrebbe provocato un determinato tipo di risposta, non è come se fossi tentato di agire nel modo in cui un tempo avrei agito, ma in un certo modo trovassi più facile controllarmi. Al contrario, il nuovo tipo di comportamento veniva abbastanza spontaneamente ed era solo attraverso un’analisi deliberata che io divenivo consapevole del fatto che stavo agendo in modo nuovo e diverso.”
Qui, ancora una volta, è interessante che l’immagine sia posta in termini visivi e che, mentre i vecchi atteggiamenti vengono “cancellati dalla lavagna” ”, i cambiamenti del comportamento hanno luogo automaticamente e senza alcuno sforzo cosciente.
In questo modo abbiamo osservato che appropriati cambiamenti nel comportamento si verificano quando l’individuo acquisisce una diversa visione del proprio mondo esperienziale, se stesso incluso; che questa cambiata percezione non ha bisogno di dipendere da un cambiamento nella “realtà”, ma può essere il prodotto di una riorganizzazione interna; che in taluni casi la consapevolezza della capacità di ripercepire l’esperienza accompagna questo processo di riorganizzazione; che le mutate risposte comportamentali avvengono automaticamente e senza uno sforzo conscio non appena la riorganizzazione percettiva ha avuto luogo, evidentemente come conseguenza di questa.
In considerazione di queste osservazioni, si può formulare una seconda ipotesi, che è strettamente collegata alla prima: il comportamento non è direttamente influenzato o determinato da fattori organici o culturali, ma principalmente (e forse soltanto), dalla percezione di questi elementi. In altre parole, l’elemento cruciale nella determinazione del comportamento è il campo percettivo dell’individuo. Sebbene questo campo percettivo sia di sicuro profondamente influenzato e largamente plasmato da forze culturali e fisiologiche, è nondimeno importante considerare che sembra essere soltanto come esso viene percepito a esercitare una specifica e determinante influenza sul comportamento. Questa non è ovviamente un’idea nuova in psicologia, ma le sue implicazioni non sono state sempre pienamente riconosciute. Ciò potrebbe significare anzitutto che, se è il campo percettivo a determinare il comportamento, allora l’oggetto primario di studio per gli psicologi sarebbero la persona e il suo mondo così come è percepito dalla persona stessa. Inoltre, lo schema di riferimento interno della persona costituirebbe il campo della psicologia, un’idea espressa in modo persuasivo da Snygg e Combs in un significativo manoscritto finora non pubblicato. Potremmo quindi concludere che le leggi determinanti il comportamento sarebbero studiate più in profondità, rivolgendo la nostra attenzione a quelle che governano la percezione.
Ora, se le nostre speculazioni contengono un certo grado di verità, se lo specifico fattore determinante del comportamento è il campo percettivo, e se il sé è in grado di riorganizzare questo campo percettivo, quali sono i limiti di questo processo? La riorganizzazione della percezione è imprevedibile o segue certe leggi? Ci sono limiti al grado di riorganizzazione? Se sì, quali? In questo contesto abbiamo osservato con una certa attenzione la percezione di una parte del campo di esperienza, quella parte che chiamiamo sé.
La relazione fra percezione del sé e adattamento
Inizialmente eravamo guidati sia dal pensiero comune sia da quello psicologico nel considerare la soluzione dei problemi il vero risultato di una terapia di successo. Se una persona aveva un problema coniugale, un problema relativo all’orientamento, un problema di apprendimento, l’ovvio obiettivo del counseling o della terapia era risolvere quel problema. Ma dacché osserviamo e studiamo le trascrizioni della conclusione della terapia, risulta invece chiaro che l’esito più caratteristico della terapia non è necessariamente la soluzione dei problemi ma la libertà dalla tensione, un diverso sentimento e percezione del sé. Vediamo alcuni esempi.
Diverse affermazioni trascritte dal colloquio con una ragazza di vent’anni, Miss Mir, forniscono indicazioni dell’atteggiamento caratteristico riguardo al sé e del senso di libertà che sembra accompagnarlo.
“Ho sempre cercato di essere ciò che gli altri pensavano io dovessi essere, ma ora mi chiedo se non sia meglio semplicemente riconoscere che sono ciò che sono.” “Beh, ho già notato una certa differenza. Adesso, quando provo le cose, perfino quando provo odio, non mi interessa, non mi importa. In qualche modo mi sento più libera. Non mi sento in colpa riguardo alle cose.” “Sai, è come se improvvisamente una grossa nuvola si fosse sollevata. Mi sento molto più soddisfatta.”
Si noti in queste affermazioni la determinazione nel percepire se stessa così com’è, nell’accettarsi in modo “realistico”, nel percepire e accogliere i propri atteggiamenti “cattivi” così come quelli “buoni”. Questo realismo, inoltre, sembra accompagnato da un senso di libertà e appagamento. Miss Vib, che abbiamo già menzionato, scrisse per esteso i suoi sentimenti sul counseling all’incirca sei settimane dopo che i colloqui erano finiti, e consegnò lo scritto al suo consulente. Ecco l’inizio: “Il più felice risultato della terapia è stato un nuovo sentimento riguardo a me stessa. Pensandoci, potrebbe essere l’unico esito: certamente è il fondamento di tutti i cambiamenti che sono risultati nel mio comportamento”. Nel discutere la sua esperienza in terapia, ella afferma:
“Stavo cominciando a vedere me stessa come un tutto. Ho iniziato a rendermi conto che sono una sola persona. Questa è stata una scoperta importante per me. Ho capito che i precedenti successi accademici e professionali, la disinvoltura nelle relazioni sociali e l’attuale ritiro, scoraggiamento, apatia e fallimento erano tutti comportamenti di adattamento, messi in atto da me. Questo significa che ho dovuto riorganizzare i miei sentimenti riguardo a me stessa, non sostenendo più un’idea irrealistica che l’adattamento migliore fosse l’espressione del me reale e che questo comportamento nevrotico non lo fosse. Sono giunta a sentire che sono la stessa persona, che talvolta funziona in modo maturo e talvolta assume un ruolo nevrotico di fronte a quelli che sentivo come problemi insormontabili. L’accettazione di me stessa come persona unica mi ha dato la forza nel processo di riorganizzazione. Ora ho un substrato, un nucleo unitario sul quale lavorare.”
Nel proseguo dello scritto troviamo affermazioni quali “Ottengo maggiore felicità nell’essere me stessa” e “Approvo di più me stessa e ho molto meno ansia”.
Come nel precedente esempio, gli aspetti rilevanti sembrano essere la comprensione che tutti i suoi comportamenti le “appartengono”, che può accettare cioè sia gli aspetti buoni sia quelli cattivi di sé, e che così facendo si procura un sollievo dall’ansia e un sentimento di solida felicità. In entrambi gli esempi c’è soltanto un secondario riferimento ai “gravi” problemi che erano stati inizialmente discussi.
Giacché Miss Mir è senza dubbio ai di sopra dell’intelligenza media e Miss Vib una persona con una certa formazione psicologica, potrebbe sembrare che tali risultati siano raggiungibili solo con personalità sofisticate. Per controbattere questa opinione può essere citata l’affermazione scritta da un veterano di limitate competenze e istruzione, che aveva appena terminato il counseling, quando gli fu chiesto di descrivere le sue reazioni nei confronti dell’esperienza. Dice:
“Quanto al consoleing [sic, N.d.T.] che ho ricevuto, posso solo dire questo: costringe realmente un uomo a spogliare completamente la sua mente, e quando lo fa egli sa allora ciò che realmente è e ciò che può fare. 0 almeno pensa di conoscere se stesso in parte bene. Quanto a me, so che le mie idee erano un po’ troppo grandi per ciò che io realmente sono, ma ora mi rendo conto che si deve cercare di cominciare dal proprio livello.” “Ora, dopo quattro incontri, ho molto più chiara l’immagine di me stesso e del mio futuro: mi fa sentire un po’ depresso e un po’ deluso, ma d’altra parte, mi ha portato fuori dal buio; il peso sembra molto più leggero ora. Ora so ciò che voglio fare e ciò che so fare; ora che sono in grado di vedere il mio obiettivo, sarò in grado di lavorare molto più facilmente, al mio livello.”
Sebbene il modo di esprimersi sia molto più semplice, si notano di nuovo gli stessi due elementi: l’accettazione di sé così come si è, e il sentimento di tranquillità, di sollievo da un peso che l’accompagna. Avendo a disposizione molte anamnesi individuali e registrazioni di casi, sembra possibile collegare le scoperte riguardo alla terapia efficace formulando un’altra ipotesi su quella porzione del campo percettivo che chiamiamo sé. Sembrerebbe, cioè, che quando tutti i modi in cui l’individuo percepisce se stesso, tutte le percezioni di qualità, abilità, impulsi, atteggiamenti della persona e tutte le percezioni di sé in relazione agli altri sono accettati nel concetto conscio e organizzato del sé, allora questo risultato è accompagnato da sentimenti di benessere e libertà dalla tensione che sono vissuti come adattamento psicologico.
Questa ipotesi sembrerebbe rendere conto dell’osservazione che la serena percezione del sé così ottenuta è talvolta più positiva di prima, talvolta più negativa. Quando l’individuo permette a tutte le percezioni di sé di essere organizzate in un unico modello, l’immagine è talvolta più lusinghiera che in passato, talvolta meno. Essa è, comunque, sempre più agevole.
Si può far notare anche che questa ipotesi provvisoria fornisce un tipo operativo di definizione, basata sullo schema di riferimento interno del cliente, per termini finora vaghi come “adattamento”, “integrazione” e “accettazione del sé”. Sono definiti in termini di percezione, in un modo che dovrebbe essere possibile dimostrare o confutare. Quando tutte le esperienze percettive organiche (il fare esperienza di attitudini, impulsi, capacità e incapacità, il fare esperienza degli altri e della realtà) sono liberamente assimilate in un sistema organizzato e coerente, disponibile alla coscienza, allora si potrebbe dire che sono presenti l’adattamento o l’integrazione psicologica. La definizione di adattamento diviene così un fattore interno, piuttosto che dipendente da una “realtà” esterna.
Qualcosa di ciò che si intende con accettazione e assimilazione di percezioni riguardo al sé può essere illustrato dal caso di Miss Nam, una studentessa. Come molti altri clienti, ella dà prova di aver sperimentato atteggiamenti e sentimenti che sono negati in modo difensivo perché non coerenti con il concetto o l’immagine che ha di sé. Il modo in cui sono per la prima volta interamente ammessi alla coscienza, e quindi organizzati in un sistema unitario, può essere mostrato da stralci di colloqui registrati. Ha parlato della difficoltà che ha avuto nel riuscire a scrivere saggi per i suoi corsi universitari:
“Semplicemente pensavo a qualcos’altro che forse mi ostacola, e cioè che ci sono ancora una volta due diversi sentimenti. Quando debbo mettermi a sedere per scriverlo (il saggio), sebbene io abbia molte idee, sotto sotto penso che proprio non ce la faccio… Ho questa sensazione di essere tremendamente fiduciosa di poter fare qualcosa, senza essere disposta a metterci impegno. In altri momenti praticamente sono spaventata da ciò che devo fare…”
Si noti che il sé cosciente è stato organizzato come “avere molte idee”, essere “tremendamente fiduciosa”, ma “sotto sotto”, in altre parole non liberamente ammessa alla coscienza, c’è l’esperienza del sentimento “proprio non ce la faccio”. Continua:
“Sto cercando di sistemare la strana relazione fra questa eccezionale fiducia e questa quasi paura di fare qualsiasi cosa… e penso che la sensazione di poter riuscire davvero a fare delle cose sia parte di un’illusione che ho riguardo a me stessa, nella mia fantasia, di essere sicura che sarà qualcosa di buono, molto buono; ogni qualvolta, però, che mi impegno a cominciare davvero, ho una terribile sensazione di… beh, incapacità, che non riuscirò neppure a farlo nel modo in cui lo voglio fare, o persino di non essere sicura di come lo voglio fare.”
Di nuovo l’immagine di se stessa che è presente alla coscienza è quella di una persona “molto brava”, ma questa immagine è completamente fuori linea con l’effettiva esperienza organica nella situazione.
Più avanti, nel medesimo colloquio, ella esprime molto bene il fatto che le sue percezioni non sono tutte organizzate in un sé cosciente che sia coerente.
“Non sono sicura di che tipo di persona sono… beh, mi rendo conto che tutte queste sono parti di me, ma non sono abbastanza sicura di come fare in modo che tutte queste cose si accordino.”
Nel colloquio successivo abbiamo un’ecceltente opportunita di osservare l’organizzazione di entrambe queste percezioni conflittuali in un modello con il risultante senso di libertà dalla tensione che è stato descritto sopra:
“È molto strano; perfino mentre siedo qui mi rendo conto che ho più fiducia in me stessa, nel senso che quando in passato affrontavo situazioni nuove mi capitavano due cose opposte allo stesso tempo. Avevo la fantasia di essere in grado di fare qualsiasi cosa, e questa fantasia copriva tutte le altre sensazioni di non riuscire, o di non riuscire a fare così bene come volevo. Ora è come se quelle due cose si siano fuse, ed è più reale: le situazioni non sono qualcosa per mettermi alla prova o per dimostrare qualcosa a me stessa o a qualcun altro. Si tratta semplicemente di affrontarle. E penso di aver eliminato sia quella fantasia sia quella paura… Così penso di poter andare avanti e affrontare le cose, beh, semplicemente in modo ragionevole.”
Per questa cliente non è più necessario nascondere le sue esperienze reali. Invece, l’immagine di sé stessa come persona molto capace, e lo sperimentato sentimento di completa incapacità, sono stati ora messi insieme in un solo modello integrato di sé come persona con reali ma imperfette capacità. Una volta che il sé è accettato, le energie interiori che spingono per la sua realizzazione sono liberate e lei può affrontare i problemi della vita in modo più efficace.
L’osservazione frequente di questo tipo di materiale nell’esperienza del counseling conduce a un’ipotesi provvisoria sul disadattamento che, come le altre, si focalizza sulla percezione del sé. Si potrebbe suggerire che le tensioni definite disadattamento psicologico esistono quando il concetto organizzato di sé (conscio o disponibile alla coscienza) non è in accordo con le percezioni di cui effettivamente si fa esperienza.
Questa discrepanza fra il concetto di sé e le percezioni effettive sembra essere spiegabile solo col fatto che il concetto di sé resiste all’assimilare qualsiasi percezione che sia incoerente con la sua attuale organizzazione. La sensazione che lei può non avere la capacità di scrivere una relazione è incoerente con l’immagine cosciente che Miss Nam ha di se stessa come persona molto capace e sicura di sé; essa perciò, sebbene percepita in modo fugace, è negata all’organizzazione come parte del sé, finché in terapia non accade ciò che abbiamo descritto.
Le condizioni del cambiamento della percezione del sé
Se il modo in cui il sé è percepito ha una stretta e significativa relazione con il comportamento così come è stato indicato, allora diventa importante capire il modo in cui questa percezione può essere modificata: se una riorganizzazione delle percezioni del sé porta un cambiamento nel comportamento, se adattamento o disadattamento dipendono dalla congruenza fra percezioni come esperite e il sé come percepito, allora diventano significativi i fattori che permettono una riorganizzazione della percezione di sé.
Le nostre osservazioni dell’esperienza psicoterapeutica sembrerebbero indicare che l’assenza di qualsiasi minaccia al concetto di sé è un elemento importante nella questione. Normalmente il sé resiste all’incorporare le esperienze incoerenti con il suo funzionamento. Ma un elemento trascurato da Lecky e altri è che quando il sé è libero da ogni minaccia o possibilità di attacco, allora è possibile considerare queste percezioni finora rifiutate per fare nuove differenziazioni e reintegrare il sé in modo tale da includerle.
Un esempio dal caso di Miss Vib può servire a chiarire questo punto. In un suo scritto redatto sei settimane dopo la conclusione del counseling, Miss Vib descrive così il modo in cui percezioni inaccettabili vengono incorporate nel sé. Scrive:
“Nei primi colloqui ho continuato a dire cose del genere. ‘Non mi comporto come me stessa’, ‘Non ho mai agito in questo modo prima.’ Ciò che volevo dire è che quella persona chiusa, trascurata e apatica non ero io. Dopo ho incominciato a capire che ero la stessa persona, gravemente ritirata, etc… ora, come ero stata anche prima. Questo non è avvenuto fino a dopo che ho discusso a fondo del mio rifiuto di me, della vergogna, della disperazione e del dubbio, nella situazione accettante del colloquio. Il consulente non era sbigottito o scioccato. Gli stavo dicendo tutte queste cose riguardo a me stessa che non andavano bene nella mia immagine di laureanda, di insegnante, di persona a posto. Lui ha reagito con completa accettazione e caldo interesse senza toni eccessivamente emotivi. Qui c’era una persona equilibrata, intelligente, cordialmente accettante questo comportamento che a me sembrava così vergognoso. Riesco a ricordare un’organica sensazione di rilassamento. Non dovevo continuare la lotta per dissimulare e nascondere questa persona vergognosa.”
Qui si può vedere chiaramente l’intera serie di percezioni negate di sé e il fatto che queste possono finalmente essere considerate parte di sé soltanto in una situazione sociale che non implichi alcuna minaccia al sé — una situazione in cui un’altra persona, il consulente, diventa quasi un altro sé e guarda con comprensione e accettazione quelle stesse percezioni. Continua:
“Retrospettivamente, mi sembra che ciò che ho sentito come ‘calda accettazione senza toni eccessivamente emotivi’ era ciò di cui avevo bisogno per affrontare le mie difficoltà… L’impersonalità con interesse del consulente mi ha permesso di discutere a fondo i miei sentimenti. La chiarificazione nella situazione terapeutica mi presentava i vari aspetti di me come ‘ding an sich’ (tedesco: “cosa in sé” – N.d.T.} che io potevo guardare, manipolare e mettere a posto. Nell’organizzare i miei diversi aspetti, stavo incominciando ad organizzare me stessa.”
Qui la natura dell’esplorazione dell’esperienza, vista come esperienza e non come minaccia al sé, rende capace la cliente di riorganizzare le sue percezioni di sé, che come lei dice era anche “riorganizzare me stessa”.
Se tentiamo di descriverla in termini psicologici più convenzionali, la natura del processo che , culmina in una modificata organizzazione ed integrazione del sé nel processo della terapia potrebbe spiegarsi come segue. L’individuo si sforza continuamente di soddisfare i suoi bisogni reagendo al campo d’esperienza così come egli lo percepisce, di farlo più efficientemente differenziando elementi del campo e reintegrandoli in nuovi modelli. La riorganizzazione del campo può coinvolgere la riorganizzazione del sé come pure di altre parti del campo. Il sé, tuttavia, resiste alla riorganizzazione e al cambiamento. Nella vita di ogni giorno l’adattamento individuale per mezzo di una riorganizzazione del campo a prescindere dal sé è più comune e meno minacciosa per l’individuo. Conseguentemente, il primo metodo di adattamento dell’individuo e la riorganizzazione di quella parte del campo che non include il sé.
La terapia centrata-sul-cliente è diversa dalle altre situazioni della vita, in quanto il terapeuta tende a rimuovere dal mondo immediato dell’individuo tutti quegli aspetti del campo che l’individuo può riorganizzare, eccetto il sé. Il terapeuta, reagendo ai sentimenti e agli atteggiamenti del cliente piuttosto che agli oggetti del suoi sentimenti e atteggiamenti, lo assiste nel portare dallo sfondo alla figura il proprio sé, rendendo facile come mai prima, per il cliente, percepire e reagire al sé. Offrendo solo comprensione e nessuna traccia di valutazione, il terapeuta si ritira come portatore di contenuti, diventando solo un’espressione alternativa del sé del cliente. Inoltre, fornendo un’adeguata atmosfera di libertà e comprensione evita qualsiasi minaccia preesistente che impedisca a tutte le percezioni del sé di emergere in figura. Quindi, in questa situazione tutti i modi nel quali il sé e stato esperito possono essere guardati apertamente e organizzati in una unità complessa.
È proprio questa totale assenza di qualsiasi fattore che possa intaccare il concetto di sé e, in secondo luogo, l’aiuto nel focalizzarsi sulla percezione di sé, che sembra permettere una più differenziata visione di sé e, finalmente, la riorganizzazione.
Relazione con il pensiero psicologico attuale
Finora queste considerazioni sono state presentate come osservazioni cliniche e ipotesi provvisorie, del tutto slegate da qualsiasi relazione con idee passate o presenti nel campo della psicologia. Ciò è stato intenzionale: si crede che la funzione del clinico consista nel cercare di osservare, con un atteggiamento di larghe vedute, la complessità del materiale che gli giunge, nel riportare le sue osservazioni e, alla luce di queste, nel formulare ipotesi e problemi che possano essere utilizzati come base per studi e ricerche.
Come è stato riconosciuto, queste osservazioni e ipotesi cliniche hanno tuttavia un legame con alcune delle correnti di pensiero teorico e di ricerca in psicologia. Talune delle osservazioni sul sé fanno riferimento al pensiero di G. H. Mead (7) riguardo all’Io ed al Me. Il risultato della terapia potrebbe essere descritto, nei termini di Mead, come l’aumento di consapevolezza dell’Io e l’organizzazione del Me da parte dell’Io. L’importanza data in questo scritto al sé come organizzatore dell’esperienza e in qualche misura come architetto di sé è in relazione con il pensiero di Allport (1) ed altri, che sottolinea la funzione di integrazione dell’Ego. Nel risalto che è stato dato al campo presente dell’esperienza come fattore determinante del comportamento, il riferimento alla psicologia della Gestalt ed al lavoro di Lewin (6) e dei suoi allievi è ovvio. La teoria di Angyal (2) mostra alcuni parallelismi con le nostre osservazioni. La sua visione, secondo cui il sé rappresenta solo una piccola parte dell’organismo biologico che ha raggiunto l’elaborazione simbolica e che spesso forza la direzione dell’organismo sulla base di informazioni inaffidabili e insufficienti, sembra essere particolarmente legata alle osservazioni che abbiamo fatto. Il libro postumo di Lecky (4), piccolo come dimensioni ma grande nella portata del suo contributo, ha portato una nuova luce sul modo in cui il sé opera e sul principio di coerenza per mezzo del quale la nuova esperienza è inclusa o esclusa in esso. Molto del suo pensiero corre parallelo alle nostre osservazioni. Snygg e Combs (11) hanno recentemente evidenziato il mondo interno della percezione come la base per tutta la psicologia, affermazione che ha aiutato a formulare una teoria nella quale trovano posto anche le nostre osservazioni.
Non è solo nell’ambito della teoria ma anche in quello della ricerca sperimentale che si trova la conferma della linea di pensiero che è stata proposta. Tolman (12) ha messo l’accento sulla necessità di pensare come un topo se si vuol fare un proficuo lavoro sperimentale. Quello di Snygg (10) indica che il comportamento del topo può essere meglio predetto inferendo il suo campo percettivo, piuttosto che considerandolo come un oggetto. Krechevsky (3) ha mostrato in un brillante studio di alcuni anni fa che l’apprendimento del topo può essere compreso solo se ci rendiamo conto che questi sta coerentemente mettendo in atto una serie di ipotesi. Leeper (5), da un certo numero di ricerche sperimentali, ha mostrato come il comportamento animale non possa essere spiegato da un semplice meccanismo S-R, ma solo riconoscendo che complessi processi interni di organizzazione percettiva intervengono fra lo stimolo e la risposta. Così, correnti parallele di osservazione clinica, pensiero teorico e ricerca di laboratorio mettono in evidenza il fatto che per una psicologia davvero efficace abbiamo bisogno di una comprensione più completa del mondo privato dell’individuo e di trovare il modo di entrare e studiare quel mondo dall’interno.
Implicazioni
Sarebbe fuorviante se io vi lasciassi con l’impressione che le ipotesi formulate in questo scritto o quelle provenienti dagli studi psicologici paralleli da me citati siano semplicemente estensioni della principale corrente del pensiero psicologico. Abbiamo scoperto con una certa sorpresa che le nostre osservazioni cliniche e le ipotesi provvisorie che da esse derivanti sollevano inquietanti questioni che sembrano gettare dubbi sulle più profonde fondamenta dei nostri orientamenti, in particolar modo nel campo della psicologia clinica e dello studio della personalità. Per chiarire tutto questo riassumerò le formulazioni che ho dato, lasciandovi con le domande e i problemi che ognuna sembra sollevare.
Se consideriamo la prima provvisoria affermazione secondo cui l’elemento specifico determinante del comportamento è il campo percettivo dell’individuo, non condurrebbe questa — se considerata come ipotesi operativa — a un approccio radicalmente diverso nella psicologia clinica e nella ricerca sulla personalità? Significherebbe, infatti, che, invece di elaborare anamnesi piene di informazioni che esaminano la persona come un oggetto, dovremmo sforzarci di sviluppare modi di vedere la sua situazione, il suo passato e se stessa, così come le appaiono. Dovremmo cercare di porci nella sua ottica, piuttosto che giudicarla. Potrebbe voler dire la minimizzazione delle elaborate procedure psicometriche per mezzo delle quali abbiamo cercato di misurare o valutare l’individuo in base al nostro schema di riferimento. Potrebbe voler dire ridurre al minimo o abbandonare tutte le grandi serie di etichette che abbiamo scrupolosamente accumulato negli anni. Paranoide, preschizofrenico, compulsivo, rigido: termini come questi potrebbero divenire inappropriati, perché basati su un pensiero che ha uno schema di riferimento esterno. Non corrispondono ai modi in cui l’individuo fa esperienza di sé stesso. Se studiassimo costantemente ogni individuo dalla sua cornice di riferimento, dall’interno del suo campo percettivo, sembra probabile che troveremmo categorizzazioni e principi operativi, ma possiamo star certi che sarebbero di ordine diverso da quelli basati su giudizi esterni rispetto agli individui.
Esaminiamo un’altra delle affermazioni suggerite. Se prendessimo seriamente l’ipotesi che integrazione e adattamento sono interni, legati al grado di accettazione o non accettazione di tutte le percezioni e al grado di accettazione di queste percezioni in un sistema coerente, questa ipotesi influenzerebbe decisamente le nostre procedure cliniche. Si dovrebbe, infatti, abbandonare l’idea che l’adattamento sia dipendente dalla piacevolezza dell’ambiente e concentrarsi, invece, su quei processi che determinano l’autointegrazione all’interno della persona. Si ridurrebbero al minimo o si abbandonerebbero quelle procedure cliniche che utilizzano la modificazione di dinamiche ambientali come metodo di cura. Si farebbe invece affidamento sul fatto che la persona internamente unitaria ha la grandissima probabilità di far fronte ai problemi ambientali in modo costruttivo sia come singolo individuo sia in collaborazione con gli altri.
Se prendiamo la rimanente osservazione che il sé, nelle adatte condizioni, è capace di riorganizzare, in un certo grado, il suo campo percettivo e in questo modo di modificare il comportamento, anche questo sembra sollevare inquietanti domande. Seguire il percorso di questa ipotesi sembrerebbe voler dire un cambiamento di enfasi nella psicologia: dal focalizzarsi sulla fissità degli attributi della personalità e delle abilità psicologiche, alla mutabilità di queste stesse caratteristiche. Si concentrerebbe l’attenzione su di un processo piuttosto che su di uno stato fisso. Mentre la psicologia, nello studio della personalità, si è principalmente preoccupata della misurazione di qualità stabili dell’individuo e del passato al fine di spiegare il presente, l’ipotesi qui suggerita sembrerebbe occuparsi molto di più del mondo personale presente per comprendere il futuro e, nel far questo, del principio per mezzo dei quali la personalità e il comportamento si modificano, così come della misura in cui restano fissi.
Così troviamo che un approccio clinico, la terapia centrata-sul-cliente, ci ha condotti a cercare di adottare il campo percettivo del cliente come base per una autentica comprensione. Nel tentativo di entrare in questo mondo interno di percezione, non attraverso l’introspezione ma per osservazione e inferenza dirette, ci troviamo in un nuovo punto di vista per comprendere le dinamiche della personalità, un punto di vista che rivela alcune inquietanti prospettive. Troviamo che il comportamento sembra essere meglio compreso come reazione a questa realtà così come è percepita. Scopriamo che il modo in cui la persona vede sé stessa e le percezioni che non osa considerare come proprie sembrano avere una importante relazione con la pace interiore che costituisce l’adattamento. Scopriamo all’interno della persona, a certe condizioni, la capacità di ristrutturare e riorganizzare il sé e, di conseguenza, di riorganizzare il comportamento, cosa che ha profonde implicazioni sociali. Noi vediamo queste osservazioni, e le formulazioni teoriche che esse ispirano, come un proficuo nuovo approccio per lo studio e la ricerca in vari campi della psicologia.
Lo scritto in questione è stato pubblicato su “Da Persona a Persona”, rivista di studi rogersiani, nel settembre 2000.
Un particolare ringraziamento alla redazione della rivista per l’autorizzazione alla riproduzione dell’articolo.
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