Una volta ho azzardato l’osservazione: “Non c’è una cosa che si può chiamare un bambino”, nel senso che, se volete descrivere un bambino vi troverete a descrivere un bambino con qualcuno. Un bambino non può esistere da solo, ma è essenzialmente parte di un rapporto.[1]
(Winnicott)
Donald W. Winnicott esprime in questa frase gran parte del senso delle sue teorie riguardo allo sviluppo affettivo dei bambini. È dalla relazione con la madre, con altre persone e oggetti che si costruisce la persona nella sua interezza.
Nel momento iniziale del rapporto madre-neonato, si stabilisce naturalmente un rapporto simbiotico in cui la madre risponde a bisogni fisiologici e psicologici (in questa fase, Winnicott sostiene che i due aspetti non sono separati) offrendo un ambiente attendibile. L’attendibilità della madre è dovuta all’empatia. La madre sostiene il neonato tenendolo in braccio, proteggendolo dalle offese, ad esempio tenendo conto della sensibilità cutanea (tatto, temperatura) e della sensibilità uditiva, prendendosi cura di lui giorno e notte. Così la madre tiene conto che l’infante non ha nozione di qualcosa oltre il Sé. L’infante “non ha ancora separato il Sé dalle cure materne, verso le quali esiste una dipendenza assoluta in senso psicologico.[2]”
La madre “sufficientemente buona” si dedica con tutta se stessa al figlio ed è in grado di rispondere ai bisogni perché li sente. L’ambiente che protegge, l’ambiente dato dalla madre tutta presa dal proprio bambino e orientata verso le richieste del figlio tramite la propria identificazione con lui[3], permette lo sviluppo dell’ “Io” e dell’ “Io sono”. Il bambino è in grado cioè di avere una breve esperienza di onnipotenza che permette l’integrazione fra soma e psiche, realizzandone l’unità.
Tale unità “è l’ ‘Io’ che significa ‘tutto il resto è non me, poi viene “Io sono, io esisto, io accumulo esperienze e mi arricchisco e ho un’interazione introiettiva e proiettiva con il NON ME, il mondo reale della realtà comune. Aggiungete a questo : ‘Sono visto e capito come esistente da qualcuno’ e inoltre aggiungete: ‘Ricevo di ritorno (come un volto visto in uno specchio) la prova di cui ho bisogno, di essere stato riconosciuto come un essere. Quando tutto va bene, la pelle diventa il confine fra il me e il non me. In altre parole, la psiche è venuta a vivere nel soma e una vita psicosomatica individuale ha avuto inizio.” [4]
Il senso dell’onnipotenza del bambino si esprime attraverso lo sviluppo delle relazioni oggettuali. “L’inizio delle relazioni oggettuali è complesso e non può avvenire a meno che l’ambiente non presenti l’oggetto in modo tale che il bambino in realtà lo crei. Lo schema è il seguente: l’infante sviluppa una vaga attesa che ha origine in un bisogno non formulato; la madre responsiva presenta un oggetto o una manipolazione che risponde alle di lui esigenze e così lui comincia ad aver bisogno proprio di ciò che la madre presenta. In questo modo l’infante comincia ad aver fiducia di poter creare gli oggetti e il mondo reale. La madre concede al figlio un breve periodo in cui l’onnipotenza è un dato della sua esperienza.” [5]
Questa esperienza di onnipotenza è essenziale nello sviluppo perché mette le basi della fiducia nella vita che sta alla base di una vita normale. Inoltre permette l’integrazione dell’io, ossia la strutturazione dell’individuo come unità.
Onnipotenza, gioco ed esperienze culturali
Dalla dipendenza assoluta del bambino dalla madre, si passa ad una dipendenza relativa e poi all’indipendenza. I diversi stadi sono caratterizzati da diverse rappresentazioni e riconoscimenti del ME e del NON ME ( la realtà esterna). Hanno qui un grande ruolo e significato gli oggetti e i fenomeni transizionali e, più in generale, lo spazio transizionale, ossia lo spazio esistente fra me e non me (inizialmente fra la mamma e il bambino, poi fra realtà interiore e mondo esterno). Questo spazio è essenziale sempre in ogni stadio dello sviluppo, in ogni fase della vita, perché non è uno spazio vuoto ma un’intercapedine affettiva, in cui esperienze significative positive e negative vengono a costituire il senso che ognuno di noi dà alla propria vita.
Oggetti e fenomeni transizionali danno inizio ad una zona di esperienza che non verrà mai messa in dubbio, importantissima per ogni essere umano.
Gli oggetti transizionali di cui parla Winnicott sono un simbolo dell’unione fra mamma e bambino hanno un grande ruolo nel momento in cui mamma e bambino si separano. È la madre stessa che, inizialmente fusa col bambino, viene successivamente vissuta come un oggetto percepito piuttosto che concepito. “L’uso di un oggetto simbolizza l’unione delle due cose ora separate, il bambino e la madre (o di parte della madre) ….” [6] Classico esempio di oggetto transizionale è la coperta da cui Linus non si separa mai.
Sta nell’implicito che l’adulto non chiederà mai al bambino: “Hai concepito tu questo o si è presentato dal di fuori? Il fatto importante è che non ci si aspetta nessuna decisione a questo punto. La domanda non va formulata.” [7]
Tra i fenomeni transizionali Winnicott dà particolare rilievo al gioco che ha un significato importantissimo nello sviluppo affettivo e sostiene che abbia un luogoe un tempo che lo caratterizzano: non si trova né all’interno dell’individuo, né al di fuori. Questo luogo intermedio può essere controllato facendo non semplicemente pensando o desiderando…e “fare le cose richiede tempo. Giocare vuol dire fare.” [8]
Il gioco ha luogo quindi nello spazio potenziale tra individuo e ambiente. Se la mamma ha dato al bambino l’opportunità di creare gli oggetti (nella fase dell’onnipotenza), il bambino nel gioco continua a vivere creativamente, usando oggetti reali per essere creativo con essi.
Le esperienze culturali sono per Winncott in diretta continuità con il gioco. Infatti se al bambino non è stata data l’opportunità di sperimentare nella prima fase della vita la creatività, per lui non ci può essere gioco, né esperienza culturale. A questo proposito mi sembrano significative queste considerazioni di Fred Plaut: “La capacità di fermare immagini e di usarle costruttivamente ricombinandole in nuovi modelli dipende- a differenza che nei sogni e nella fantasia- dalla capacità del bambino di avere fiducia” [9].
Mi sembra fondamentale questo passaggio: l’ambiente che sostiene viene introiettato e strutturato nella personalità dell’individuo. È importante sempre.
Secondo Winnicott dall’esperienza che conduce alla fiducia, dipende lo spazio tra bambino e madre, tra individuo e società . “si può considerare sacro per l’individuo in quanto è qui che l’individuo fa esperienza del vivere creativo.” [10]
Là dove c’è fiducia, lo spazio fra il me e il non me, fra l’oggetto percepito soggettivamente e l’oggetto percepito oggettivamente, può essere sempre colmato nei diversi stadi della vita. Questo spazio può diventare un’area infinita in cui ha si esercita prima la creatività del gioco e poi il fruire della cultura.
La scuola come spazio transizionale
Winnicott sottolinea più volte che comunque il processo di crescita dipende oltre che dall’esperienza primitiva con la madre, da tutte le altre relazioni ed esperienze che permettono identificazioni successive con ambienti affettivi in grado di accogliere. Il passaggio dalla dipendenza, all’indipendenza che non è mai totale, ha come luogo privilegiato quello “dove gioco ed esperienza culturale hanno una posizione… (ed) esso dipende, per la sua esistenza, dalle esperienze di vita, non dalle tendenze ereditarie” . Questo è importante: non tutto è già determinato prima della nascita. [11]
A me piace pensare che questo luogo, oltre ad essere un luogo della mente, abbia la sua localizzazione fisica, reale, nella scuola. Penso ad una scuola che sia ambiente facilitante per lo sviluppo affettivo del bambino, ambiente “consapevole” di quello che un individuo è in ogni fase del suo sviluppo, in cui le esperienze culturali siano vissute con le caratteristiche del gioco, inteso come scambio simbolico fra mondo interno e mondo esterno.
Scrive Winnicott: “L’educazione in termini di insegnamento dell’aritmetica, deve attendere l’avvento nel bambino di quel livello d’integrazione personale che rende significativo il concetto di uno, ed anche l’idea contenuta nel primo pronome singolare. Il bambino che conosce il sentimento IO SONO, e che sa sopportarlo, ha il concetto di uno, e poi vuole immediatamente che gli si insegni l’addizione, la sottrazione, la moltiplicazione.” [12] Si noti, tra l’altro, in che modo si parla dell’ io sono: è un sentimento, non un concetto astratto. Winnicott non si occupa esplicitamente di educazione scolastica ma collega il concetto di educazione a quello di trasmissione del senso dei valori, che non può esserci se avviene prematuramente. Ad un bambino, ad esempio, non si può trasmettere l’idea di Dio se non ha sperimentato l’amore materno. “Date ad un bambino fin da principio Mozart, Haydn e Scarlatti: può essere che otterrete un buon gusto precoce, qualcosa che può essere mostrato nei ricevimenti: ma forse per il bambino è meglio cominciare soffiando in un cannolicchio e poi passare a servirsi di una pentola come un tamburo e a soffiare in una vecchia tromba: la distanza, che separa grida e rumori dal Voi che sapete,è grande, e la capacità di apprezzare il sublime può essere soltanto una conquista personale, non qualcosa d’inculcato. Tuttavia, nessun bambino può scrivere o eseguire Mozart da solo e voi dovete aiutarlo a trovare questo e altri tesori.” [13]
Ogni individuo con il suo sé ed il suo spazio transizionale vive in una sfera che non può essere violata perché è lì che ognuno “inventa” creativamente il suo mondo. Esiste cioè una continua interazione fra mondo interno e mondo esterno, ma il mondo esterno è comunque frutto di un’interpretazione personale. Il compito della scuola è, credo, quello di favorire identificazioni con persone e oggetti di apprendimento che diano modelli interpretativi che siano vissute comecreazioni per ciascun individuo. Persone adulte ( gli insegnanti) e oggetti di apprendimento (gli argomenti di studio) per entrare in rapporto con i singoli individui (tutti gli alunni) devono essere attendibili, ossia devono essere capaci di entrare in relazione con loro. Gli argomenti di studio sono attendibili, non soltanto quando vengono fatti conoscere da insegnanti capaci di essere empatici, ma quando sono stati scelti in modo da poter stare nello spazio transizionale- culturale proprio di quell’età. È chiaro che gli oggetti di studio, come del resto tutto il mondo reale, sono NON ME, e che lo scopo dell’insegnamento è entrare in relazione con un mondo che è esterno e oggettivo.
Come fare perché il mondo esterno non risulti anche estraneo?
La possibilità di percepire in modo oggettivo passa attraverso una percezione soggettiva che non può esserci se gli argomenti di studio sono troppo lontani dalle strutture cognitive degli alunni. Se ciò accade gli oggetti di studio vengono recepiti immediatamente come estranei in modo irriducibile. Le cose da studiare devono avere la caratteristica di poter stare al centro di uno scambio comunicativo tra realtà interna ed esterna; un “investimento” dall’interno di significati affettivi e conoscitivi permette di prendere in considerazione l’oggetto, le informazioni che provengono da fuori consentono di modificarne la visione e l’interpretazione. Mondo interiore ed esteriore comunicano attraverso questo “oggetto” che viene così ad essere definito in modo sempre più oggettivo, senza che se ne perda l’importanza affettiva. Occorre che l‘argomento di apprendimento sia in qualche modo già presente nell’insieme delle conoscenze (come concezione di senso comune o come un’acquisizione da sviluppare ad un altro livello di complessità) e che nel processo di insegnamento/apprendimento non perda l’importanza che aveva originariamente per l’individuo. La sensazione che l’alunno ha allora è di avere conquistato, scoperto, quelle conoscenze perché provengono da lui stesso, non dall’esterno.
Ad esempio, se nella scuola secondaria di primo grado si vuole introdurre il concetto di acido utilizzando la definizione che invoca la possibilità di alcune sostanze di donare ioni idrogeno nelle s’intende tutto il mondo interiore dell’alunno. E quello che si impara e come lo si impara sta dentro questa realtà, non altrove. Questo è vero per ognuno di noi, in ogni età.
Tutto questo viene ben espresso da Bruner che nel libro “La cultura dell’educazione” scrive: “Costruiamo non solo il nostro mondo, ma la nostra concezione di noi stessi e delle nostre capacità (…).Invece di vedere la cultura come qualcosa che viene aggiunto alla mente o in qualche modo interferisce con i processi elementari della mente, è meglio pensare che sia nella mente.. .” [14]
Si tratta di un lavoro fine di costruzione delle conoscenze e contemporaneamente di costruzione del sé. Le conoscenze sono legate al sé quando diventano storie che ognuno si può raccontare e che hanno significato per la propria vita.
Molte immagini hanno attraversato la scrittura di queste considerazioni: da quella più lontana di mio fratello Domenico che si succhiava il pollice accarezzandosi i riccioli biondi, a quella più recente di mio figlio che agitava un mestolo di legno mentre si raccontava le storie. E poi quella di Duilio che stringe un pezzo di stoffa seduto sul divano. Poi ancora quelle di tanti alunni che, attenti, cercano con gli occhi della mente la loro coperta …Queste immagini hanno incarnato parole e concetti. A quei bambini, a loro, questo scritto appartiene.
Di Eleonora Aquilini
E-mail: ele.aquilini@tin.it
[1] D.W. Winnicott, The Child, the Family and the Outside World, Penguin; Harmondsworth, England,1964, p.88 (op. citata in “ La psicoanalisi e la teoria delle relazioni oggettuali” di J.M.Hughes, Roma, 1991, Astrolabio, p.165).
[2] D.W. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Armando, 2005, p.56.
[3] Ibidem, p. 35.
[4] Ibidem, p. 68.
[5] Ibidem, p. 75.
[6] D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Roma, Armando, 2005, p.155.
[7] Ibidem, p. 35.
[8] Ibidem, p. 75.
[9] Ibidem, p. 163.
[10] Ibidem, p.164.
[11] Ibidem, p.171.
[12] Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, op. cit., pp. 126,127.
[13] Ibidem, pp. 128-129.
[14] J.Bruner, La cultura dell’educazione, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 8,185.