“C’è un paesaggio interiore, una geografia dell’anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita. Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l’acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa. Alcuni lo trovano nel luogo di nascita; altri possono andarsene, bruciati, da una città di mare, e scoprirsi ristorati nel deserto….Per qualcuno è la ricerca dell’impronta di un altro; un figlio o una madre, un nonno o un fratello, un innamorato, un marito, una moglie o un nemico… “
(J.Hart, Il danno)
Nel periodo dell’adolescenza il paesaggio interiore è mutevole, talvolta aspro o incendiato da sentimenti e passioni incontenibili, difficilmente assimilabile alla dolcezza di una collina o alla tranquillità di una pianura.
E’un periodo difficile. Affascinante. Si prova a vivere la vita, dall’esito di questi tentativi spesso dipende il futuro. E’ il periodo del distacco dalla famiglia, dell’indipendenza sperimentata in tempi e spazi che sono anche quelli della scuola. E questi sono momenti in cui si prova ad essere adulti e in cui si cercano prove del proprio valore. L’immaginazione sopravanza la realtà, sta sempre un passo avanti e si pretende un adeguamento del quotidiano al sogno, della realtà al desiderio. Il sogno può talvolta sopraffare la realtà. I sentimenti, i desideri determinano stati emotivi che sono il significato stesso che si dà alla propria esistenza; stare dentro ad una passione è essere vivi. Le scelte rischiano di essere determinate solo dai sentimenti.
La famiglia e la scuola stanno al margine dei pensieri, non contano rispetto agli amici, rispetto ai nuovi amori, rispetto a chi può essere un attraente modello da imitare. La scuola e la famiglia, tuttavia, hanno una funzione essenziale: quella di fornire le carte geografiche per orientarsi all’interno di se stessi (capire cosa voglio e se lo posso realizzare) e nei percorsi della vita. Costituiscono il riferimento sicuro, affettivo e razionale insieme, per far sì che le passioni possano trasformarsi in parole e azioni, perché le scelte abbiano motivazioni articolate. I riferimenti servono non solo per indicare strade da seguire ma anche il modo di percorrerle. Il ruolo della famiglia non è uguale a quello della scuola, certo. La famiglia, salvo casi particolari, può contare su basi affettive certe e può sempre fare appello a queste per recuperare rapporti difficili con i figli. La scuola, da questo punto di vista, parte svantaggiata: gli insegnanti sono estranei in un mondo estraneo. La scuola ha, per molti alunni, il solo pregio di riunire per quattro, cinque ore al giorno ragazze e ragazze della stessa età. A scuola si va principalmente per questo. Ciò che si può imparare è secondario. Tuttavia la realtà è un’altra.
Gli adolescenti fanno una segreta richiesta agli insegnanti che incontrano: quella di tenere conto della geografia della loro anima, dei loro paesaggi incendiati, della loro mancanza di punti di riferimento stabili. Si aspettano da noi insegnanti la capacità di vedere e sapere quello che sta nella profondità di loro stessi. Lo pretendono. Hanno bisogno di un riconoscimento affettivo. Chiedono nello stesso tempo punti di riferimento, carte geografiche per capire e per capirsi.
L’affettività a scuola si chiama stima, fiducia, rispetto. E’ un’affettività, per così dire, intellettuale, delicata, profonda. Questo tipo di affettività è una conquista, nasce nel tempo, passa attraverso ciò che s’insegna e ciò che si apprende. Passa principalmente attraverso la relazione fra questi due termini, in ciò che li lega.
E’ un’affettività che sta su un altro piano rispetto a quella della famiglia, non è a priori, va costruita con il contributo di tutti. Tuttavia non c’è simmetria nella costruzione di questo tipo di affettività perché la disciplina, il principale oggetto di scambio fra alunno e docente, è conosciuta dall’insegnante e non dall’alunno, inoltre l’insegnante è un adulto, l’alunno è un adolescente. L’insegnante ha la responsabilità principale degli esiti dello scambio. E’ responsabile in prima persona di ciò che l’ alunno impara, del suo star bene a scuola. Si dice spesso che la società è cambiata, che gli alunni sono diversi da una volta perché il consumismo ci invade e internet distrae gli alunni dai compiti pomeridiani: è vero. Ma questo non ci assolve quando l’insuccesso scolastico colpisce inostri alunni. Siamo sicuri di aver fatto, di stare facendo, la nostra parte? I cambiamenti della società, diventano motivazioni astratte quando ad essere respinti sono i nostri alunni, quando il rifiuto per i nostri insegnamenti è stato netto e totale, quando un’uscita prematura dalla scuola determinerà un altro corso della vita di Paolo o Giulia, ancora adolescenti, ancora bisognosi d’imparare.
E’ importante, prima di tutto, osservare gli alunni che si hanno davanti. Se lo si fa, ci si rende conto che arrivare a capirli è diverso dal teorizzare su di loro.
Osservare gli alunni per capire qualcosa di loro
Quando ascoltiamo gli alunni parlare di argomenti scolastici, nelle interrogazioni, ad esempio, sembrano attori che hanno imparato male la loro parte, non hanno memoria, sono assenti, non ci sono. Si tolgono il peso di quello che devono dire, senza alcuna partecipazione e poi se ne vanno via. Sperano di dimenticare, velocemente, quello che hanno imparato. Quando si tratta di scuola, danno l’impressione di essere refrattari ad ogni tipo di memorizzazione. Noi insegnanti avvertiamo il loro segreto disprezzo, perché implicitamente ci dicono: quello che ci interessa è da un’altra parte, la vita è altrove. La vita vera ricomincia quando riprendono posto fra i loro compagni. Ridiventano loro stessi. Se stiamo un po’ in disparte e li guardiamo, vediamo che gli alunni si raccontano. Amano raccontare quello che hanno fatto il giorno prima, quelli che sono i loro desideri, i loro pensieri. Lo fanno usando paradossi, confondendo (come già detto) un po’ il sogno con la realtà, usando espressioni che evocano immagini forti, usando metafore improbabili, forzando le conclusioni. Vogliono, con i loro racconti, stupire chi li ascolta. I loro racconti sono talvolta strampalati, eccessivi, procedono per colpi di scena, comunicano comunque sempre qualcosa. Quasi sempre interpretano, difficilmente spiegano. Quando ripetono quello che è scritto nel libro di testo invece sono distaccati, la loro anima se n’è andata, le parole non appartengono più a loro, sono altro. Non vale la pena di imparare, di ricordare. Siamo, noi insegnanti, dispiaciuti e mortificati.. Questi alunni hanno la stessa età dei nostri figli adolescenti, che da piccoli sono stati capaci di ascoltare, incantati, favole, storie di eroi e supereroi e di stupire per la loro capacità di ripeterle per filo e per segno. Volevano farsi leggere la stessa avventura tutti i giorni. Volevano che nonni e genitori raccontassero le storie della loro vita…una volta, due volte e poi ancora e… ancora. Erano così piccoli, non avevano passato, ma lo contemplavano, con stupore, dentro di noi [1]. Noi, d’altra parte, eravamo capaci di mettere in fila collezioni di attimi, farne delle storie che facevano spalancare gli occhi e le orecchie.
Adesso che siamo insegnanti e loro sono alunni, cosa è successo?
Come facciamo a ritrovare l’attenzione di allora, quando noi non volevamo insegnare e loro non sapevano d’imparare?
Come facciamo a tenere conto del fatto che i racconti che amano sono solo quelli che li riguardano direttamente?
Continuiamo ad osservarli. Il volere apprendere, a scuola, scaturisce sempre dal fatto che ciò che si sta studiando è effettivamente alla portata e suscita curiosità. Gli alunni vedono cioè il collegamento con le loro conoscenze pregresse, anche di senso comune, e sentono di costruire il loro sapere a partire da qualcosa di noto, in percorsi che hanno uno sviluppo e una storia che comunque parte da loro stessi. I percorsi didattici devono ad esempio portare, nel campo delle scienze, a definizioni che siano formulazioni verbali di un cammino conoscitivo degli alunni, che non siano invece percepite come estranee, astratte, incomprensibili. Le asserzioni scientifiche a cui si vuole giungere devono passare, nella loro costruzione, dall’essere poco definite dal punto di vista formale ad esserlo sempre di più, in modo che la formalizzazione a cui si giunge rappresenti una conquista del singolo e della classe. Allora la volontà di capire del singolo diventa il tradurre in parole le proprie osservazioni, metterle a confronto con quelli degli altri, compagni di scuola, insegnanti o testi di studio. Il voler apprendere è la prima vera consapevolezza metacognitiva che l’alunno percepisce. Questo voler capire è una affermazione di sé. La riflessione sul proprio modo di apprendere è, al di là delle teorie, innanzi tutto un controllo nella formulazione linguistica dei propri pensieri che nasce dal confronto con i pensieri degli altri. Nessuno di noi ragiona in astratto sulle proprie strategie cognitive (perché lo dovrebbe fare?), ma è dal confronto con le riflessioni degli altri o delle linee di ragionamento proprie di un ambito disciplinare che siamo portati a riflettere e valutare i nostri pensieri.
Capiamo che la scuola e i suoi contenuti devono in qualche modo appartenere agli alunni per entrare nella loro vita. Quando i contenuti appartengono possono anche essere raccontati.
La scuola, per assolvere il suo compito, ha bisogno di contenuti e metodi d’insegnamento che siano coinvolgenti e motivanti, che riescano ad intercettare il mondo degli alunni, in modo che le discipline di riferimento diventino anche per l’alunno un riferimento. Le discipline hanno infatti una loro razionalità che insegna ad essere razionali, insegnano cioè a ragionare in base a delle premesse, a delle regole che diventano nel tempo una guida per il pensiero. Tuttavia occorre tenere presente che la razionalità delle discipline deve passare attraverso la narrazione, strettamente connessa all’interpretazione, prima ancora che con la spiegazione. Questo perché gli alunni prima interpretano, poi spiegano e i loro, i nostri racconti sono sempre interpretazioni dei fatti. Attraverso la narrazione possiamo raggiungerli.
Le discipline devono insegnare a distinguere fra la spiegazione e l’interpretazione.
Spiegazione ed interpretazione si confondono nell’insegnamento usuale che propone quasi sempre la spiegazione come la verità assoluta omettendo che anch’essa è alla fin fine una interpretazione dei fatti. Si omettono i racconti delle varie interpretazioni.
Scrive Bruner a proposito della narrazione: “Partirò da alcune affermazioni ovvie. Una narrazione comporta una sequenza di eventi, ed è dalla sequenza che dipende il significato”[2] . La narrazione è giustificata quando narra qualcosa di inatteso, di imprevisto, di apparentemente assurdo o contraddittorio. L’obiettivo della narrazione è di chiarire i dubbi, di spiegare lo “squilibrio” che ha portato all’esigenza di narrare la storia. La narrazione è, inoltre, strettamente connessa con l’interpretazione e non con la spiegazione. La comprensione, a differenza della spiegazione, comprende sempre più interpretazioni; “né l’interpretazione di una particolare narrazione esclude altre interpretazioni…la regola è la polisemia”[3] . Secondo Bruner anche la scienza ha bisogno della narrazione: “Come ho più volte ripetuto, l’adozione di un’ottica interpretativa non implica una posizione antiempirica, anti-sperimentale o addirittura antiquantitativa.Significa semplicemente che, prima di poterci accingere alla spiegazione, dobbiamo dare un senso a quanto ci viene detto [4]. … “Per arrivare direttamente al dunque, la mia idea è che noi trasferiamo sempre i nostri tentativi di comprensione scientifica in forma narrativa, o, per così dire, di “euristica narrativa”. Il “noi” comprende sia gli scienziati sia gli allievi che occupano le aule nelle quali insegniamo. Trasporremmo dunque in forma narrativa gli eventi che stiamo studiando,allo scopo di evidenziare meglio cosa c’è di canonico e di previsto nel nostro modo di considerarli, in modo da poter distinguere più facilmente che cosa è ambiguo e incoerente e quindi deve essere spiegato …” [5]
Le spiegazioni hanno una loro storia, di esse si può fare un racconto. Questo racconto appassiona gli alunni. Questo racconto rende viva ogni disciplina.
Nella storia della scienza, ad esempio, l’interpretazioni dei fatti e le spiegazioni date dagli scienziati del passato sono molto vicine a quelle che danno i nostri alunni. La fase prescientifica della scienza abbonda di elaborazioni mentali che hanno le caratteristiche delle parole e dei pensieri che ci manifestano i nostri alunni adolescenti. Si pensi alla situazione della chimica al tempo di Lavoisier: “Abbondano nomi assurdi, inconsistenti, procedure terminologiche poco ortodosse, che riflettono la cristallizzazione di forme mentali poco analitiche. L’edificio della chimica di quei tempi è costruito di mattoni di colori e forme diversi, poco funzionali, con incastri che non tengono, fragili pietre angolari…Zafferano di Marte, fiore di bismuto, burro d’arsenico, cristalli di luna, Terra di calce sono nomi difficili da utilizzare e del tutto opachi riguardo alla reale composizione delle sostanze che designano…. Occorre bandire le frasi oscure, eredità dell’alchimia e prediligere parole e termini conformi alla natura chimica delle cose…” [6]
Si può mettere ordine nelle frasi oscure degli alunni seguendo nel nostro insegnamento i fili di tanti racconti che partono da nomi assurdi (e bellissimi), procedure terminologiche poco ortodosse, costruzioni mentali di colori e forme diverse e arrivare a parole e termini che esprimono in modo chiaro i significati.
Costruiamo mappe e carte geografiche in cui gli alunni si possono….nel tempo… ritrovare.
[1] In Caro Michele di Natalia Ginzburg leggiamo: “… nella nostra vita presente non c’è nulla che valga i luoghi e gli attimi incontrati lungo il percorso. Mentre io li vivevo o li guardavo, quegli attimi, o quei luoghi, essi avevano uno straordinario splendore, ma perché io sapevo che mi sarei curvato a ricordarli. Mi ha sempre addolorato profondamente che Michele non volesse e non potesse conoscere questo splendore, e andasse avanti senza mai voltare la testa indietro. Credo però che lui senza saperlo contemplasse questo splendore dentro di me.” (N Ginzburg, Caro Michele, Milano, Arnoldo Mondatori; 1997, p.195).
[2] J, Bruner, La cultura dell’educazione, Milano, Feltrinelli, 1997, p.135.
[3] Ibidem, p. 103.
[4] Ibidem, p. 126.
[5] Ibidem, p.138.
[6] D.Gouthier, E. Ioli , Le parole di Einstein, Bari, edizioni Dedalo, p.19.
BIBLIOGRAFIA
-1- J.Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano,1997.
– C. Fiorentini, Quali condizioni per il rinnovamento del curricolo?, in F.Cambi (a cura di), L’arcipelago dei saperi, Progettazione curricolare e percorsi didattici nella scuola dell’Autonomia, Le Monnier, Firenze, 2000, p.275-290.
– T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino,1995.
– J.H.Flavell, La mente dalla nascita all’adolescenza nel pensiero di Jean Piaget,Astrolabio, Roma, 1971.
– L.S. Vygotskij Pensiero e linguaggio, Giunti – G.Barbera, Firenze,1969.
– L. Geymonat, Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milano, 1985.
– J. Dewey , “Come pensiamo”, La Nuova Italia, Firenze, 1994.
– Irwin Z.Hoffmann, Rituale e spontaneità in psicoanalisi, Astrolabio, Roma, 2000.
ELEONORA AQUILINI
Sono nata a Rieti e vivo a Pisa. Laureata in Chimica a Pisa nel 1986, insegno questa disciplina nella Scuola media Superiore. Viste le difficoltà connesse all’insegnamento/apprendimento delle discipline scientifiche mi sono dedicata a studi che ne ricercano le ragioni anche in ambito psico-pedagogico. Dal 1995 svolgo attività di ricerca didattica nel “Gruppo di ricerca e sperimentazione didattica in educazione scientifica del CIDI di Firenze” e dal 2001 sono Vicepresidente della Divisione di Didattica della Società Chimica Italiana. Molti miei scritti sono stati pubblicati in riviste di didattica.
E-mail: ele.aquilini(at)tin.it