(Tratto dalla rivista Ricerca Psicoanalitica, 2003, Anno XIV, n. 3, pp. 295-322)
L’interpretare comporta almeno due momenti: un momento conoscitivo, attraverso il quale il terapeuta si adopera per scoprire i nessi nascosti che rendono comprensibile un sintomo, un sogno o un altro elemento inconscio; e un momento comunicativo, in cui egli rende disponibile quella conoscenza per l’analizzando.
La prima dimensione – quella conoscitiva – trova il suo fondamento nel fatto che per muoversi in un campo nuovo bisogna anzitutto acquisire (e via via continuare ad acquisire) il maggior numero possibile di elementi di conoscenza. E questo è ciò che si tende a ottenere attraverso le libere associazioni, l’attenzione ugualmente distribuita, fino agli stati regressivi e alla relazione di transfert-controtransfert da usare come strumenti vivi, anche se spesso dolorosi, di comprensione. Al primo è legato naturalmente, nel processo interpretativo, un secondo momento, nel quale il terapeuta comunica al paziente il senso trovato. Si tratta di una dimensione che potremmo dire squisitamente psicoterapeutica, in quanto finalizzata nella sua essenza a rendere l’analizzando più direttamente capace di affrontare i suoi disagi psichici. In linea generale, si suole intendere questa comunicazione come un intervento in cui si verbalizza al paziente ciò che si è compreso.
La ricerca conoscitiva su cui si fonda la relazione analitica può dar luogo (e per molti versi dà effettivamente luogo) a un’assimilazione condivisa del senso, anche se non necessariamente questa debba avvenire nella medesima modalità o al medesimo livello di apprensione per ciascuno dei due partecipanti alla relazione. Finché nello scambio clinico si dà tale integrazione condivisa di base, da parte del terapeuta non c’è la stretta necessità di comunicare interpretativamente all’analizzando ciò che ha compreso, ossia di creare un flusso comunicativo tale da ristabilire l’equilibrio della condivisione. Al momento della mancata condivisione, si danno invece le condizioni, soprattutto all’interno della relazione transferale che focalizza il livello psicopatologico nel qui e ora, per l’attività interpretativa in quanto comunicazione del senso.
Credo, a questo punto, sia bene fare una succinta ricerca sull’evoluzione, nel corso del 900, del concetto di interpretazione, e più in generale di intervento analitico, in quanto comunicazione terapeutica del senso.
Nel corso della sua lunga opera Freud ha continuamente ribadito che l’attività analitica ha lo scopo di recuperare al dominio della coscienza ciò che è divenuto inconscio per motivi patologici. Per far questo si devono superare resistenze, misurarsi con la forza della traslazione, lottare contro la ripetizione: il fine resta comunque quello di rendere conscio l’inconscio e di ricondurre l’‘agire’ del paziente al ricordo, anche se a volte bisogna pur ricorrere a qualche intervento attivo, come ad esempio fissare un termine all’analisi, o spingere il paziente ad affrontare la situazione fobica. Per Freud, la coscienza è una funzione dell’Io, che consiste nella possibilità della percezione dei contenuti interni (rappresentazioni, affetti, sensazioni, volizioni, ecc.), così come dei dati del mondo esterno. La rimozione nelle nevrosi di traslazione, ci dice ancora Freud (1915, pp. 85-86; 1922, pp. 482-483), è determinata dal fatto che viene rifiutata alle rappresentazioni di cosa la loro traduzione in rappresentazioni verbali: esse rimangono nell’inconscio, soggette al processo primario, e non possono accedere ai processi preconsci secondari, e quindi al controllo dell’Io, finché non ci sia la possibilità di collegarle ai simboli linguistici della parola. E’ l’analista che si incarica di questo compito di traduzione, fornendo quelle rappresentazioni verbali anticipatorie che permettono al paziente di accedere così alla padronanza consapevole del senso dei propri sintomi. Lo strumento da utilizzare è quindi l’interpretazione, intesa come intervento verbale di chiarificazione esplicativa delle dinamiche inconsce.
Un importante arricchimento di prospettiva si ha con il successivo riconoscimento nel 1920 (in Al di là del principio di piacere) che una parte estesa dell’Io è essa stessa inconscia, e che da essa proviene il carattere inconscio delle resistenze più ostinate. Freud giunge così, con la nuova visione strutturale, a considerare l’arte dell’interpretazione non più come un semplice svelamento dei contenuti psichici rimossi attraverso il superamento di resistenze più o meno consapevoli, ma come un’attività complessa rivolta all’Io del paziente, delle cui posizioni difensive inconsce bisogna tener conto in senso tattico. Il fine rimane comunque quello dell’apporto di conoscenza attraverso la parola, anche se tale apporto debba essere attento ai tempi e ai modi di intervento. Nel finale Compendio di psicoanalisi (1938), egli deve tuttavia ammettere più apertamente – dopo aver introdotto già nel 1914 il concetto di una rielaborazionedelle resistenze protratta nel tempo – che il lavoro interpretativo tendente all’ampliamento della conoscenza di sé ha un suo poderoso limite nell’indefinitezza del lavoro di riduzione delle resistenze più profonde, per quanto già innalzate a un primo livello di riconoscimento consapevole (1938, pp. 604-609). Il compito difficilmente esauribile della rielaborazione veniva così a porsi come ineludibile interfaccia verso i processi inconsci di ripetizione (soprattutto di ordine transferale), perlomeno nelle affezioni nevrotiche di una certa complessità.
Nel 1924 Ferenczi e Rank (in Prospettive di sviluppo della psicoanalisi) denunciano una crescente impasse degli analisti del tempo sul versante clinico, lamentando una troppo rigida adesione alle regole formali, oltre che un diffuso privilegiare l’informazione riguardante i processi inconsci, rispetto al vissuto terapeutico emotivo. Essi sostengono che per promuovere l’esperienza emotiva nella situazione analitica sia necessario incoraggiare, o addirittura provocare attivamente, nel rapporto transferale, la ripetizione degli antichi vissuti traumatici (sottolineando così, al fine terapeutico, quella ‘coazione a ripetere’ che Freud intendeva invece come fattore dell’analisi inevitabile, sì, ma da circoscrivere appena possibile). “La semplice comunicazione, nella forma di un’approssimativa ‘ricostruzione’, non può essere sufficiente a provocare reazioni affettive” (1924, p.186), se non rispetto a ricordi per lo più preconsci. Favorendo la ‘tendenza a riprodurre’ nel corso della cura, si ottiene invece di far rivivere fino in fondo nel transfert la relazione edipica inconscia: quando tale esperienza affettiva si sia più volte ripetuta, è possibile rivelarne il contenuto al paziente, procedendo quindi a trasformare la ripetizione in ricordo (o in una precisa e plausibile ricostruzione).
E’ questa la prima significativa reazione, in tale fase della psicoanalisi, al progressivo cristallizzarsi della tecnica analitica intorno al primato dell’intervento interpretativo come comunicazione esplicativa sul piano verbale. Assisteremo d’ora in avanti, dagli anni ’20 fino a tutto il corso degli anni ’50, a una specie di guerra di posizione tra tentativi di innovazione e reazione ortodossa, riguardo a tale primato, durante la quale l’ortodossia metterà a punto continui e graduali aggiustamenti per assorbire le spinte innovative: una serie di rilanci reciproci che vedranno infine l’avanzamento massiccio, negli anni ’60, di un nuovo modo di intendere l’efficacia terapeutica della psicoanalisi.
La risposta vera alle proposte di Ferenczi e Rank, tralasciando coloro che non fanno che riaffermare sostanzialmente o con parziali rimaneggiamenti la fedeltà al verbo del fondatore, arriva dieci anni dopo, nel 1934, con il famoso articolo di Strachey La natura dell’azione terapeutica della psicoanalisi. L’autore intende mostrare il reale meccanismo di funzionamento delle “interpretazioni mutative”, cioè di quelle interpretazioni che, per il fatto di essere dirette ai punti di immediata urgenza emozionale della nevrosi regressiva di transfert, permettono al paziente, che è sul punto di proiettare sull’analista le immagini primitive introiettate, di distinguere tra l’oggetto reale analista e l’oggetto fantastico. Queste sarebbero le sole interpretazioni veramente efficaci nell’incidere sull’organizzazione mentale del paziente, a differenza di quelle extratranferenziali (o anche di quelle transferenziali, ma non riferite in modo concreto e dettagliato a uno specifico momento emozionale), le quali, essendo sfornite del carattere dell’immediatezza, non produrrebbero modificazioni psichiche permanenti. Tale scritto sottolinea in particolare l’importanza della gradualità a minime dosi che deve governare l’interpretazione mutativa: “Vi sono altri tipi di comportamento da parte dell’analista che possono essere dinamicamente equivalenti al dare un’interpretazione mutativa…. Un’ingiunzione ‘attiva’ del tipo contemplato da Ferenczi … [può] indurre il paziente a divenire consapevole in modo particolarmente intenso di certi impulsi … [ma così] l’analista ha veramente un modesto controllo sulla dose dell’energia dell’Es che si libera in questo modo e scarse garanzie che si verificherà la seconda fase dell’interpretazione [mutativa]” (p. 115). Strachey riafferma in sostanza l’efficacia unica degli interventi verbali apportatori di insight, senza bisogno di altre modalità particolari di intervento (come ad esempio la rassicurazione, p. 114), a condizione però che essi siano diretti ai punti di urgenza del transfert e che riguardino importi energetici frazionati. Notiamo che, in tutta evidenza, il principio delle dosi energetiche minime – in base al quale si rendono consapevoli gli impulsi diretti all’analista, nella prima fase dell’interpretazione mutativa – costituisce la condizione sine qua non perché vi sia la seconda fase di tale interpretazione. Consideriamo anche, tuttavia, che non sempre è possibile attuare quel principio, specie quando si affrontano le evoluzioni nevrotiche di una certa gravità.
Ancora una decina di anni dopo, troviamo Alexander e French che, con il loro Psychoanalytic Therapy: Principles and Application del 1946, ripropongono temi simili a quelli di Ferenczi e Rank. La ricostruzione intellettuale del passato, e quindi l’attività interpretativa diretta a farne partecipe il paziente, non è la causa del progresso terapeutico, dicono gli autori. Ripetere e risperimentare nel transfert le situazioni conflittuali originarie, con l’analista che può assumere ora un atteggiamento diverso e più favorevole rispetto al comportamento degli oggetti del passato, determina quella “esperienza emozionale correttiva” che porta a un nuovo esito gli antichi conflitti. Si tratta di una vera e propria rieducazione emotiva, che si serve di appropriate modalità reattive del terapeuta per creare un’esperienza nuova, capace di rompere gli irrigiditi schemi di adattamento del paziente: gli insight sono in genere un prodotto secondario del mutamento che così si determina all’interno della relazione transferale. Tuttavia, diversamente da Ferenczi e Rank, che avevano ritenuto la ripetizione degli affetti essenzialmente una condizione necessaria per arrivare poi a interpretazioni ricostruttive più aderenti alla realtà storica, Alexander e French attribuiscono un valore autonomo, se non predominante, alle risposte espressive del terapeuta, rispetto all’interpretazione come semplice comunicazione verbale del senso ritrovato.
Sospendiamo un momento il nostro excursus e volgiamoci a considerare quanto è emerso finora. Osserviamo che nel tempo si sono fatte avanti, alternativamente, due posizioni contrapposte che sostengono in sostanza, da una parte, la comunicazione di contenuti conoscitivi verbalmente espressi e, dall’altra, l’intervento in senso ampio diretto a promuovere l’esperienza emotiva. Ora, se si verifica una tale alternanza, ciò vuol dire che, per quanto cerchi di mantenere una sua predominanza, la posizione purista dei sostenitori dell’interpretazione di tipo esplicativo non riesce in fondo a garantire una sufficiente efficacia terapeutica all’attività della comunità analitica nel suo complesso. Ci sarà da aspettarsi quindi un acuirsi del conflitto tra le due posizioni concorrenti. E in effetti questo è ciò che possiamo constatare nell’immediato prosieguo della nostra disamina.
Negli anni ’50 comincia a insinuarsi una posizione più dubitativa e articolata, circa l’unicità dell’interpretazione in quanto comunicazione verbale di un contenuto conoscitivo, anche all’interno della maggioranza ortodossa. Loewenstein (1951), ad esempio, arriva a distinguere tra gli interventi preparatori, volti a creare le condizioni per il procedimento analitico, e le interpretazioni vere e proprie, come spiegazioni che producono insight. Una posizione simile è quella di Bibring (1954) che riconosce alla psicoanalisi la possibilità di utilizzare come strumenti tecnici, per facilitare lo sviluppo del processo analitico, sia la suggestione che l’abreazione e la manipolazione, mentre gli strumenti terapeutici in senso stretto, per produrre insight, consistono nella chiarificazione e nell’interpretazione. Zetzel (1956), da parte sua, riconosce che certi scambi, anche di tipo non verbale, come pure un atteggiamento umanamente più disponibile, finalizzati a creare un’‘alleanza terapeutica’, sono necessari per poter adempiere efficacemente il compito centrale dell’interpretazione in senso proprio.
Di contro a queste ed altre simili voci, si leva allora Eissler (1953), che ribadisce che lo strumento esclusivo della psicoanalisi è l’interpretazione in quanto intervento verbale che promuove l’insight nel paziente. Ogni altro intervento, per quanto utile e opportuno, costituisce un parametro, ossia una deviazione dalla tecnica di base, che deve essere utilizzato solo per il tempo e nella quantità minimamente indispensabili, e infine autoeliminarsi attraverso l’interpretazione stessa. Si direbbe che questo di Eissler è in fondo un modo per poter ammettere la necessità e l’efficacia reale degli altri tipi di intervento, ma negando loro nello stesso tempo qualsiasi autonoma legittimità.
Il conflitto si mostra apertamente a uno dei suoi culmini al XX Congresso dell’IPA, a Parigi nel 1957, nel panel sulle “Variazioni nella tecnica psicoanalitica classica”. In quella sede Loewenstein, tra gli altri, afferma che “molto sorprendenti sono le variazioni nel modo in cui l’analista deve comunicare la sua comprensione al paziente …. Naturalmente le interpretazioni non sono il solo mezzo attraverso il quale un analista può trasmettere la sua conoscenza al paziente” (p. 159). Eissler, da parte sua, arriva a denominare pseudoparametri alcuni strumenti dell’analisi “che secondo le definizioni correnti non possono essere chiamati interpretazioni, [ma] hanno ugualmente l’effetto di interpretazioni” (p. 190). Come esempi, fa quello della “battuta di spirito detta al momento giusto” (p. 191), o della “ripetizione di quello che il paziente ha appena detto” (ivi). Sembra chiara l’intenzione strenua di Eissler di delimitare al massimo tutto ciò che non possa essere chiamato interpretazione, anche attraverso una forma di negazione (pseudoparametro) dell’eccezione (parametro). Vi si coglie tuttavia, a ben vedere, una possibile apertura estensiva, rispetto alla concezione del modulo interpretativo unico.
Il dispiegamento di tali e analoghe posizioni in concorrenza tra loro andrà avanti ancora negli anni seguenti in ampi settori della comunità analitica, ma gli anni ’60 portano una ventata decisamente nuova. Diversi autori affermano a questo punto decisamente la loro convinzione che certi aspetti dell’interazione terapeutica tra analista e paziente trovano un modello appropriato in quella che è la relazione primaria tra l’“ambiente di sostegno” (di “holding”) e l’individuo nelle prime fasi dello sviluppo. Per “ambiente di sostegno” si intende la presenza di chi si prende cura dell’individuo (bambino o paziente), con un adattamento attivo ai suoi bisogni di base. Loewald (1960) parla di ‘esperienze integrative’ nell’analisi: “Sono esperienze di interazione, paragonabili per la loro struttura e significato ai momenti di comprensione precoce che avvengono tra la madre e il bambino” (1960, prima parte, p. 97; v. anche p.109). Gitelson (1962) indica come ‘funzione diatrofica’, e quindi materna, quell’atteggiamento oblativo dell’analista che risponde ai bisogni del paziente, nella fase iniziale della cura analitica. Winnicott (1965), che già in precedenza aveva avanzato il concetto di ‘madre-ambiente sufficientemente buona’, sia per quanto riguarda lo sviluppo infantile che la terapia dei casi psicotici e al limite, sostiene a questo punto un’applicabilità più ampia e generale della sua visione innovativa, quindi anche nei confronti della tecnica interpretativa classica (pp. 300-301): “L’analista sostiene il paziente, e ciò spesso si manifesta col trasmettere verbalmente al momento adatto qualcosa che dimostri che egli conosce e capisce l’angoscia più profonda che il paziente prova o dovrà provare. Talora il sostegno deve assumere un aspetto concreto” (p. 312). Menzioniamo infine Balint (1968), allievo di Ferenczi, la cui concezione del trattamento analitico poggia fondamentalmente sulla capacità del terapeuta di rispondere al paziente regredito attraverso un’ampia disponibilità a mettersi in sintonia, o profonda armonia, con i suoi desideri e bisogni primari. Per gli autori di questo orientamento l’interpretazione classicamente intesa perde quindi la sua posizione predominante e centrale, affiancata da un’altrettanto importante capacità di risposta – a un tempo ricettiva e supportiva – alla soggettività profonda del paziente: si tratta di una responsività poco definibile in forme precise, ma che comunque si allontana dal modello della corrispondenza ideativa tra comunicazione verbale del terapeuta e situazione inconscia dell’analizzando. A volte questa capacità di risposta è vista come specificamente necessaria in rapporto a stati patologici più gravi delle nevrosi di transfert; tuttavia essa trova giustificazione anche rispetto a fasi di maggiore complessità nel corso del trattamento delle stesse nevrosi transferali, o come presupposto fondante alla base della normale attività interpretativa.
Agli inizi degli anni ’70, con l’affacciarsi sulla scena di Kohut e della psicologia del Sé, si delinea il punto di svolta decisivo nell’evoluzione storica che stiamo descrivendo. Per Kohut, nell’analisi dei settori di personalità narcisistica scissi verticalmente, “l’essenza del compito psicologico chiaramente non è quella classica di ‘rendere consci’ con l’aiuto di interpretazioni …. Gli innumerevoli modi in cui viene promossa l’integrazione crescente del settore scisso sfuggono ad ogni possibilità descrittiva” (1971, p. 182). La funzione dell’analista consiste nell’accettazione incondizionata e nel rispecchiamento empatico delle strutture narcisistiche scisse: una volta riattivatesi, queste possono evolversi e dar luogo, attraverso il principio della frustrazione ottimale e della successiva interiorizzazione trasmutante, alla formazione di strutture psicologiche più mature. “Il principio … che le benefiche trasformazioni strutturali che si verificano in un’analisi riuscita non si producono come risultato di insight, è vero non solo per l’analisi di pazienti con disturbi narcisistici della personalità, ma anche per l’analisi di pazienti che soffrono di nevrosi strutturali. Non è l’interpretazione che cura il paziente” (1977, p. 43). Affermerà ancora Kohut nel suo ultimo libro che “relativamente a tutte le forme analizzabili di psicopatologia, l’unità terapeutica di base della guarigione psicoanalitica non si fonda sull’espansione della conoscenza …. A costituire l’essenza della guarigione è piuttosto l’accrescimento della struttura psichica, ottenuto tramite la frustrazione ottimale dei bisogni e dei desideri dell’analizzando, che gli viene assicurata sotto forma di interpretazioni corrette” (1984, p. 145). In altri termini, gli interventi dell’analista hanno la caratteristica generale di essere atti di rispecchiamento fondati sull’introspezione vicariante; in particolare, le interpretazioni esplicative (specie dei fallimenti empatici che rischiano di essere vissuti in modo traumatico nella relazione analitica) hanno lo scopo di accrescere ulteriormente il legame empatico (p.141), oltre a costituire un fattore di frustrazione ottimale per il fatto stesso che il bisogno di oggetto-Sé viene chiarito ma non soddisfatto direttamente. L’interpretazione, in quanto spiegazione, diventa quindi nella psicologia del Sé uno strumento di intervento subordinato, al servizio della comunicazione dell’atteggiamento empatico esercitato dal terapeuta. Tentando di costruire uno schema comprensivo dei differenti modi evolutivi di funzionamento mentale, Gedo e Goldberg (1973) e poi Gedo (1979) presentano a loro volta una visione allargata delle forme di intervento terapeutico. “Gli interventi appropriati dell’analista non consistono soltanto di interpretazioni…. Per il problema tipico di ognuno dei diversi modi di funzionamento esiste una specifica modalità terapeutica” (Gedo, 1979, p. 26): a seconda del grado di regressione, “fornire un ambiente di sostegno, svolgere attività interpretativa, essere testimoni degli sforzi introspettivi dell’analizzando, sono compiti inevitabili e compresenti in ogni analisi” (p. 29).
Eccoci arrivati ora alla fase più moderna di questa storia evolutiva. Ormai l’interpretazione come intervento esplicativo è stata per molti versi ridimensionata e si cerca un nuovo paradigma fondativo della comunicazione analitica. Teniamo ben presente tuttavia che ciò vale per i settori più all’avanguardia della comunità psicoanalitica: molti autori, anche di rilievo, continuano comunque a sostenere unicamente, pur con molti interrogativi, l’interpretazione classica con contenuto conoscitivo verbalmente espresso. Questa considerazione vale anche per il periodo seguente che ci resta da prendere in esame.
Nei primi anni ’80 Gill (1982, 1983, 1984), con molto coraggio vista la sua appartenenza all’establishment della psicoanalisi classica, riconosce chiaramente come fattori di cambiamento terapeutico sia l’insight che la nuova esperienza che si determina nell’analisi. La nuova esperienza può riferirsi a qualsiasi comportamento dell’analista che in maniera più o meno sottile eserciti un’influenza sul transfert del paziente, purché egli ne sia consapevole e possa rendere esplicito il significato interattivo dei suoi interventi. Ma ciò vale in fondo per la stessa interpretazione: anche questa, cioè, ha un effetto implicito di interazione, che può variare di volta in volta (1983, p. 38). Quest’ultima posizione coincide con quanto sostiene Levenson (1983) quando afferma che ogni comunicazione verbale, compresa l’interpretazione, è anche una manifestazione di comportamento da parte del terapeuta, un ‘fare’, ovvero un ‘atto’ che, attraverso l’espressione di un determinato atteggiamento verso l’analizzando, modifica la partecipazione di quest’ultimo alla terapia (pp. 62-75). Sulla linea di Gill, sottolineando la ”ambigua” potenzialità di significati che le risposte dell’analista assumono sempre per il paziente, Hoffman (1983) intende l’interpretazione come quell’intervento che tende a rettificare le pessimistiche aspettative del paziente sul coinvolgimento controtransferale dell’analista. Ancora, quindi, si mette in luce il significato interattivo dell’interpretazione: attraverso questa si cerca di dimostrare l’affidabilità di fondo del terapeuta, in maniera tale da produrre positive risonanze nell’andamento della relazione analitica. Per Modell (1984), l’attività interpretativa dell’analista viene sperimentata come un atto con significato simbolico in risposta ai bisogni di contenimento del paziente (‘attualizzazione simbolica’) (pp. 87-98), anzitutto nelle personalità narcisistiche, ma in sostanza anche nelle nevrosi strutturali (pp. 90-92 e 98). Successivamente Modell (1990) rimarca ancora che “la produzione di un’interpretazione è un atto transazionale …. L’atto dell’interpretazione, che scopre significati nascosti, crea di per sé significati supplementari” (p. 101), cioè quelle risonanze metacomunicative proprie di tutte le azioni dell’analista sperimentate simbolicamente. In sintesi, possiamo dire che per questi autori l’interpretazione è ora vista come uno strumento di “azione” all’interno della relazione analitica, alla stessa stregua di altri tipi di intervento: la qual cosa, chiaramente, la avvicina all’accezione di significato di quel famoso ‘agire’, una volta così aborrito.[1] E’ vero che si tratta di una azione consapevole, che si esprime attraverso il mezzo verbale, e non di un ‘agire’ inconsapevole; ma si possono intravedere i punti di intersezione: ciò che era dapprima un ‘agito’ inconsapevole può essere elaborato in azione conscia, mentre ciò che sembrava un’azione consapevole può rivelare aspetti di ‘agito’.
Focalizzando l’attenzione sugli aspetti più indifferenziati e difficili della relazione analitica, Ogden (1991) afferma in seguito che “la prospettiva dell’identificazione proiettiva non richiede né esclude l’impiego dell’interpretazione verbale. Il terapeuta cerca di trovare un modo di parlare e di essere con il paziente, che costituirà il mezzo attraverso il quale il terapeuta può accettare aspetti non integrabili del mondo oggettuale interno del paziente; può quindi restituirglieli in una forma che egli stesso sia in grado di accettare” (pp. 49-50). Questo processo si svolge in un primo tempo attraverso una modalità di ‘contenimento silenzioso’ (o di rielaborazione di rêverie, come dirà nel 1997) degli affetti evocati nel terapeuta dal paziente; successivamente, per mezzo dell’interpretazione verbale o, se più opportuno, anche attraverso una forma di messa in atto di quegli stati mentali indotti, il terapeuta comunicherà al paziente la comprensione raggiunta. Lo stesso autore (1994, pp. 77-95) usa inoltre il concetto di “azione interpretativa” per indicare un’azione dell’analista che non tanto crea lo ‘spazio analitico’ per poter interpretare verbalmente, quanto è essa stessa una comunicazione della comprensione del terapeuta a proposito della situazione di transfert-controtransfert. Weiss, sviluppando le implicazioni tecniche della sua teoria del ‘controllo inconscio’ (1986), dice che “il compito fondamentale del terapeuta è aiutare il paziente a disconfermare le proprie credenze patogene” (1993, p. 55). A tal fine, “la preoccupazione del terapeuta di aiutare il paziente a sentirsi al sicuro ha la precedenza sul fatto di fornirgli degli insight attraverso l’interpretazione” (p. 111). Quindi, sia con strumenti interpretativi che con un’ampia varietà di mezzi non interpretativi ma esperienziali, il terapeuta si pone come persona autorevole che comunica la sua intenzione di parteggiare attivamente per i tentativi del paziente di liberarsi delle proprie credenze patogene. Mitchell (1993) si riconosce nella posizione secondo cui “le interpretazioni sono sempre più considerate non come alternative o come soluzioni per gli agiti, ma come esse stesse forme di agiti” (p. 162), mentre Gill (1994) riafferma ancora nella sua opera finale che “il paziente sperimenta come azioni non solo le interpretazioni, ma tutti i comportamenti verbali e non verbali [dell’analista]” (p. 54). A sua volta Stolorow (1994) sottolinea che “specifici significati transferali costituiscono un ingrediente cruciale dell’azione terapeutica delle interpretazioni psicoanalitiche”: significati transferali che non si limitano a un generale senso di contenimento del paziente, ma variano specificamente “in funzione dei particolari bisogni o desideri si sviluppo, mobilitati nel transfert in un determinato momento” (p. 91). Infine Renik, riprendendo il concetto di enactment di controtransfert di Jacobs (1986), considera l’inevitabilità di complesse situazioni di messa in atto (o drammatizzazione) congiunta di transfert e controtransfert, affinché la terapia analitica abbia un reale potere trasformativo. Interazioni non interpretative, come pure glistessi atti interpretativi, sono aspetti diversi di processi compositi, che spesso avvengono in un primo tempo fuori della consapevolezza del loro reale significato, e solo successivamente possono essere chiariti. “Ogni occasione tecnica produttiva è, in parte, un enactment di controtransfert; e coinvolge l’analista nello svolgimento spontaneo di un’esperienza emozionale correttiva, … che in seguito costituisce il testo per una ricerca autoconsapevole” (Renik, 1998, p. 133).
Credo che ripercorrere, anche se per sommi capi, questa storia evolutiva sia stato necessario per tentare di comprendere cosa potremmo intendere oggi per comunicazione interpretativa. Come si è visto, l’interpretazione come comunicazione verbale del senso compreso ha finito, da una parte, per perdere il suo carattere disincarnato e impersonale, spostandosi verso un concetto di “azione” che può provocare una varietà di effetti, anche partendo da uno stesso contenuto conoscitivo espressamente trasmesso; dall’altra, essa è stata integrata da una serie di altre forme di interazione terapeutica, più palesemente dell’ordine dell’attività e in misura maggiore o minore in rapporto con la comunicazione verbale di tipo esplicativo. Anche per queste altre modalità, tuttavia, possiamo ritenere che si tratti di forme particolari di comunicazione (cioè: forme di utilizzazione, attraverso una più o meno ampia messa in comune con l’altro partecipante al rapporto analitico) di una conoscenza che sia stata preventivamente acquisita. Per fare un semplice esempio, anche un intervento di rassicurazione rivolto all’analizzando prende (o dovrebbe prendere) le mosse e il proprio contenuto da ciò che l’analista ha già capito a proposito del paziente e della relazione analitica, e viene a implicare, con la sua utilizzazione, un maggior livello di collegamento mentale, conscio o inconscio, del paziente con quanto è emerso nella psiche del terapeuta (se non altro per le fantasie cui può dar luogo la percezione di un terapeuta che si preoccupa di rassicurare il paziente).
Mettendo a frutto quanto abbiamo ricostruito storicamente, cosa possiamo allora intendere oggi per interpretazione in quanto comunicazione terapeutica? Credo che a questo fine dobbiamo porre alcune precisazioni che facciano da punti di riferimento. Intanto, proprio in virtù del risultare di altri tipi di intervento come più opportuni in date circostanze, il concetto di interpretazione in senso classico ha mostrato più chiaramente il suo carattere di “intervento verbale con contenuto essenzialmente ideativo-cognitivo”. Sappiamo bene che per Freud il fine essenziale del procedimento analitico, in quanto strumento di guarigione, era l’acquisizione della consapevolezza di sé (ciò che si è convenuto di indicare come insight, ovvero visione nuova e diversa di se stessi). D’altra parte, abbiamo visto che sono emersi nel tempo una varietà di ulteriori modi di intervento che non tendono specificamente a rendere conscio l’inconscio, ma a contenere, sostenere, rispecchiare, confermare, ecc., un Sé che ha bisogno in molti casi e momenti per la sua evoluzione di qualcosa di diverso dalla presa di coscienza in senso proprio. Se vogliamo dar conto di tale risultanza storica, dovremmo con ogni probabilità arrivare ad ammettere che rendersi conto, acquisire una chiara consapevolezza, poter verbalizzare un sapere concernente la propria soggettività, sono tutti aspetti di un modo certamente importante, ma del tutto particolare, del rapportarsi del soggetto nei confronti di se stesso. Questo punto porta di necessità la nostra attenzione all’ampia problematica di quali siano i reali fattori terapeutici nella cura analitica. La sostanza di quella vexata quaestio che è stato, ed è per tanti versi tuttora, il dibattito sull’efficacia terapeutica dell’analisi, è riconducibile in fondo al chiedersi se e come una serie di comunicazioni verbali di ordine esplicativo, basate sulla conoscenza approfondita di una realtà psichica individuale, possa riuscire a influire stabilmente sul nucleo dell’organizzazione emozionale di quella persona. La questione è naturalmente quella dei rapporti di implicazione e integrazione tra il livello conoscitivo (ideativo) e il livello esperienziale (emozionale) della cura, di cui nel 1924 Ferenczi aveva ben sottolineato la difficoltà focale. Il criterio di lavorare sempre sui punti emotivamente vivi; la regola di sciogliere le difese dell’Io prima di interpretare il contenuto; la raccomandazione di non toccare il transfert positivo irreprensibile finché favorisce la prosecuzione del lavoro analitico; il concetto di regressione utile al servizio dell’Io, indotta dal setting e in particolare dal silenzio analitico; la ripresa reiterata degli stessi interventi interpretativi in contesti diversi, ai fini dell’elaborazione terapeutica; l’attenzione al timing e l’uso dei parametri; il concetto di una scissione dell’Io in una parte che osserva e in un’altra che fa esperienza; l’Ah-Erlebnis di Reik; perfino per certi versi lo stesso concetto kohutiano di em-patia, inteso in una sorta di complementarità rispetto all’in-sight; e via di seguito, questi sono in definitiva tutti modi di intendere e utilizzare l’attività interpretativa col fine precipuo di far fronte al rischio della mancata incisività della comunicazione ideativa sul piano della struttura emotiva profonda. Si è così a lungo discusso in psicoanalisi della qualità di un insight che sia non solo intellettivo e razionale, ma anche ‘emotivo’, proprio per mantenere la portata concettuale dell’interpretazione classica come intervento con potere d’azione intrinsecamente onnicomprensivo. E nondimeno, l’insufficienza di questo tipo di sforzi sia tecnici che teorici, messa storicamente in evidenza dalla necessità di pensare ulteriori forme e fondamenti dell’operare analitico diversi da quelli originari, ci porta a meglio intendere che in effetti, dal punto di vista della comunicazione del senso, l’interpretazione tradizionale coincide in sostanza con l’informazione verbale con contenuto cognitivo, volta a produrre nel paziente una conoscenza del Sé inconscio (insight)[2] essenzialmente di ordine ideativo.
Sappiamo comunque del pari che perché l’insight abbia una reale efficacia deve avere anche un’implicazione affettiva. Così come è vero che la comunicazione e l’uso di rappresentazioni mentali producono spesso effettivamente determinate modificazioni sul piano affettivo. Quindi, non possiamo affermare che attraverso l’insight non sia possibile in sé il processo della presa di coscienza degli affetti inconsci e il cambiamento della struttura emozionale profonda. Dobbiamo invece riconoscere che l’implicazione emotiva non è una qualità intrinsecamente inerente all’interpretazione classica, ma che lo diventa a date condizioni. Le condizioni perché l’insight, atto squisitamente riflessivo, dispieghi al meglio il suo potenziale di efficacia anche sul piano affettivo, non ci è difficile ravvisarle come dipendenti dal fatto che esso si realizzi nell’ambito delle nevrosi transferali (possibilmente senza gravi complicanze). La possibilità stessa dell’instaurarsi di un transfert oggettuale in queste nevrosi è indice di un raccordo integrativo sufficientemente sviluppato tra momento cognitivo e momento affettivo nella psiche individuale. Negli altri casi, l’insight non detiene generalmente una pari efficacia emozionale, e proprio per questo esso è stato storicamente affiancato o sostituito da altre modalità di intervento, come abbiamo messo in evidenza nel nostro excursus evolutivo.
Concludendo su questo punto, se vogliamo dare una legittimità piena, come sarebbe auspicabile, a tutte quelle ulteriori modalità di intervento analitico che sono apparse storicamente necessarie oltre l’interpretazione ai fini dell’insight, penso che sarebbe forse epistemologicamente più corretto servirsi di una categoria concettuale di ordine superiore, che possa ricomprenderle insieme all’intervento tendente alla presa di coscienza in senso classico. Tale categoria potrebbe essere in ipotesi quella di “integrazione del senso del Sé”, che servirebbe così a indicare lo scopo generale della comunicazione analitica. Se pensassimo la finalità psicoterapeutica generale come quella consistente nel favorire l’integrazione del senso del Sé dell’analizzando, potremmo allora agevolmente intendere la comunicazione interpretativa classica come quella forma di intervento che abbia per scopo l’integrazione di tale senso essenzialmente attraverso la funzione cognitiva-riflessiva, essendo le motivazioni pulsionali e i loro derivati affettivi e rappresentativi l’oggetto di fondo di tale conoscenza (integrazione che corrisponde a quell’accrescimento del dominio dell’Io che è in genere al centro dei trattamenti analitici nell’area delle nevrosi transferali). Naturalmente, questo modo di intendere il fattore terapeutico analitico ci lascia comunque alle prese con la necessità di dare più compiutamente conto dei movimenti integrativi, con efficacia a livello affettivo, che possono in genere verificarsi nella cura analitica, oltre quelli determinati dall’intervento interpretativo in senso classico.
Le osservazioni appena fatte dovrebbero indurci ad almeno due altre considerazioni generali. In primo luogo,quella che abbiamo indicato come l’integrazione del senso del Sé, perseguita nel trattamento psicoanalitico, non può essere pensata come circoscritta ad aspetti parziali della soggettività, così come avviene in specie attraverso l’autoconoscenza riflessiva e verbalizzabile, che tende a favorire la risoggettivazione di particolari dimensioni psichiche corrispondenti (quelle in genere di ordine istintuale e riconducibili al mondo rappresentativo passibile di processi di rimozione). L’integrazione va intesa nei confronti del Sé totale, in tutti i suoi aspetti e versanti. La stessa evoluzione che abbiamo delineato del concetto di interpretazione e di intervento analitico in quanto comunicazione, ce lo suggerisce. Kohut che mette in luce la necessità dell’atteggiamento empatico di rispecchiamento verso i bisogni narcisistici delusi, come ad esempio nel transfert gemellare (alteregoico), all’interno del quale si possono rendere accessibili aspetti grandiosi del Sé del paziente attraverso l’accettazione speculare di un legame psichico di somiglianza col terapeuta; o l’opinione di Winnicott secondo cui “in certe fasi di certe analisi, l’odio dell’analista è effettivamente richiesto dal paziente” (1947, p. 240), per cui all’analista si pone la questione di come rispondere al peculiare bisogno del Sé dell’analizzando che questo genere di odio, ‘oggettivamente’ suscitato nella relazione transferale, gli sia comunicato; o ancora – ma gli esempi potrebbero ampiamente continuare – Weiss che ritiene compito fondamentale del terapeuta confermare il senso intimo di sicurezza del paziente nella cura, anche attraverso lo strumento della rassicurazione o l’uso dell’autorità (1993, p. 58), e comunque con interventi dipendenti dal tipo di patologia; ebbene, queste varie posizioni ci inducono a pensare, in definitiva, che il Sé vada decisamente considerato come multidimensionale, e di conseguenza che le sue varie configurazioni debbano essere avvicinate e integrate con disposizioni analitiche specificamente opportune. (Al contempo dovremmo con ogni probabilità ritenere che ciascuno di quegli autori abbia rilevato il manifestarsi delle dimensioni particolari del Sé semplicemente più corrispondenti alla propria peculiare sensibilità clinica. Ovvero, che ciascuno abbia messo in luce l’opportuno modo di mettersi in relazione con un diverso elemento o assetto psicopatologico di personalità).
La seconda considerazione in senso generale è un naturale complemento di quanto appena detto. I nostri interventi per comunicare al paziente quanto abbiamo compreso non possono che riguardare il campo relazionale totale, in cui si collocano i singoli eventi ed aspetti della storia psicologica del soggetto. In altri termini, sarebbe ormai perlomeno anacronistico concepire la cura analitica come se concernesse un Sé avulso dai contesti relazionali: per cui l’integrazione del senso del Sé, finalità terapeutica fondamentale, dovrà propriamente intendersi nei confronti del Sé per come si è determinato in rapporto alla dimensione dell’Altro[3] (e per quanto riguarda l’area particolare delle nevrosi transferali, relativamente all’Io nel suo rapporto con l’istanza superegoica, in quanto alterità stabilmente interiorizzata sul piano identificatorio).
Le due considerazioni appena esposte riguardano l’estensione della realtà psichica che può costituire il contenuto della comunicazione interpretativa. Ma ugualmente importante, se non di più, è il lato soggettivo dell’interpretazione in quanto comunicazione. Si possono cioè riservare alcune utili riflessioni anche alla questione di “chi sia”, per l’inconscio del paziente, il soggetto interpretante.
Dopo un’iniziale distinzione del procedimento analitico dall’ipnosi e dal fenomeno della suggestione che è alla base di questa, Freud tornò in seguito a omologare il transfert alla suggestione, in quanto si tratta per ambedue del trasferimento di precedenti legami affettivi (pur rimarcando la distinzione tra i diversi modi in cui la suggestione è utilizzata nella terapia ipnotica e nella terapia analitica). Ma dato che la stessa ipnosi si realizza perché l’ipnotizzatore prende il posto dell’Ideale dell’Io (Freud, 1921, p. 302), si comprende come per Freud l’analista possa utilizzare il transfert, e il suo aiuto decisivo nell’indurre il paziente a superare le resistenze pur già riconosciute, in quanto su di lui viene proiettato l’Ideale dell’Io dell’analizzando.[4] Ciò viene meglio chiarito, dopo l’introduzione della teoria strutturale, da Strachey (1934) che pone a fondamento dell’azione terapeutica della psicoanalisi, e quindi dell’efficacia dell’attività interpretativa, il fatto che il paziente “tende a fare dell’analista un «Super-io ausiliario»” (p. 104). Il Super-io non è, alla sua radice, che alterità soggettuale interiorizzata. E’ cioè il rappresentante nel mondo interno degli influssi esercitati nell’infanzia dai potenti e autorevoli oggetti primari, pur se variamente modificati dalle successive vicissitudini dei dinamismi psichici, così come dall’interiorizzazione dell’influenza di ulteriori relazioni significative nello sviluppo dell’individuo. Ciò si vede ben chiaramente nella clinica della psicopatologia narcisistica (nevrosi gravi, borderline, psicosi trattabili) in cui, essendosi rotta l’unitarietà del senso dell’Io, al posto delle strutture superegoiche, normalmente con caratteristiche di stabilità e impersonalità nell’area delle nevrosi di transfert, si palesano multiformemente quegli elementi originari e specifici di alterità intenzionale che sono il nucleo storico dei processi identificatori costitutivi del Super-io. Tali elementi, che sono soggetti in particolare a meccanismi di identificazione proiettiva nella relazione transferale, sono la materia viva al centro del trattamento degli stati narcisistici gravi (Ventimiglia, 2000a).
Dunque, dal punto di vista del Sé del paziente, si può dire che l’analista che interpreta, o che compie qualsiasi altro intervento analitico, agisce fondamentalmente dalla posizione transferale dell’Altro di una qualche relazione che abbia avuto significato nella vita psichica dell’analizzando. Depone chiaramente in questo senso il fatto stesso che storicamente, come abbiamo visto, sia venuto sempre meglio in evidenza il carattere di ‘azione specifica’ dell’attività interpretativa, mettendo in ombra quella dimensione idealistica e piuttosto astratta di ‘informazione di verità’ che aveva in origine: l’‘azione’ richiede un certo soggetto agente, mentre la ‘verità’ è idealmente indipendente dalle contingenze soggettive. Per meglio dire, l’interpretazione nel contesto del rapporto analitico è sempre ricevuta dal paziente, dal punto di vista inconscio, come un’espressione intenzionale dell’Altro in relazione al proprio Sé. E invero l’analista può entrare in risonanza con i campi relazionali Sé-Altro, posti alla base del mondo psicopatologico del paziente, proprio attraverso quella specie di cartina di tornasole che è il campo relazionale transferale-controtransferale, in cui la posizione di alterità soggettuale del terapeuta rispetto al Sé dell’analizzando viene ad essere semplicemente cruciale.
Riprendiamo ora il filo principale del discorso. Una comunicazione interpretativa che intenda trasmettere contenuti di autoconoscenza riflessiva si rivolge essenzialmente alla facoltà di comprensione ideativa-cognitiva del soggetto, in particolare ai fini dell’integrazione del senso di certi aspetti del Sé che, avendo come elemento nucleare inconscio la propria soggettività libidica, sono particolarmente vulnerabili, o negativamente controinvestiti, nelle isterie di conversione. In questi casi l’atteggiamento interpretativo classico appare sommamente indicato e direttamente integrativo. Ma, come abbiamo osservato, il Sé presenta una pluralità di dimensioni, e per l’integrazione del senso delle diverse configurazioni psicopatologiche di personalità possiamo assumere che siano richieste responsività specifiche e differenziate da parte dell’Altro transferale. Infatti, già nelle altre nevrosi di transfert, diverse dall’isteria, bisogna assumere atteggiamenti responsivi che in parte si discostano da quello incentrato elettivamente sulla consapevolezza cognitiva: nella nevrosi ossessiva, ad esempio, se si vuole ovviare a un indefinito processo di presa di coscienza che porta pochi cambiamenti reali, bisogna decidersi a introdurre a un certo punto un fattore di maggiore presenza affettiva nella relazione analitica. E tuttavia, data la presenza di assetti identificatori sufficientemente stabili, in tutta l’area delle nevrosi transferali la responsività del terapeuta può comunque proporsi in forme e modalità ben strutturate (Ventimiglia 2000b). (La presenza di stabili rapporti identificatori tra il Sé e l’Altro, sotto specie delle strutture interne egoiche e superegoiche, è d’altra parte, ritengo, la ragione di quell’importanza particolare, anche se variabile entro certi limiti, che la condivisione della funzione cognitiva detiene nella terapia delle nevrosi transferali, riuscendo a implicarvi anche il momento affettivo). Ma è piuttosto nell’area delle nevrosi gravi e al limite che si manifesta decisamente la necessità di una responsività molto più ampia e mutevole, in relazione alla peculiare complessità della fenomenologia narcisistica che vi è implicata.
Se quanto detto è ben fondato nelle risultanze cliniche, credo si possa a questo punto affermare che lo sviluppo della psicoanalisi ha sofferto per lungo tempo di un’aporia epistemologica e metodologica di fondo. La funzione di verbalizzazione cognitiva, che è centrale nella cura della vecchia psicopatologia isterica di conversione, sembra aver indebitamente assunto fin dall’inizio una validità totalizzante ed esclusiva, rispetto all’intero campo delle potenzialità responsive del terapeuta verso l’analizzando.[5] In realtà, come si è visto, l’informazione verbale con contenuto cognitivo dovrebbe essere considerata fondamentalmente come uno strumento specifico, nella cura delle nevrosi transferali in genere e in quella isterica in particolare, tra i possibili modi di comunicazione del senso da parte del terapeuta in quanto Altro nella relazione transferale. Dall’evoluzione storica del concetto di interpretazione e di quello collegato di intervento analitico, possiamo trarre il fondato giudizio che concepire la dimensione della comunicazione del senso esclusivamente nei termini della trasmissione verbale di insight, sia stato il frutto di una forzatura unidirezionale. Perché ciò sia potuto accadere, è una storia che sarebbe interessante capire.
Dovremmo trarre qualche conclusione, a questo punto. Penso che forse dovremmo modificare, almeno parzialmente, certe abitudini di pensiero inveterate. Se il concetto classico di interpretazione, come informazione verbale di genere cognitivo, non sembra poter più essere considerato il mezzo unico o essenziale dell’efficacia analitica, la questione è come considerare il rapporto tra la trasmissione di insight e le altre forme di comunicazione di un senso che sia stato compreso. Si potrebbe invero mantenerle comunque separate, come due o più differenti modalità di comunicazione, riservando la denominazione di interpretazione solo all’intervento diretto a suscitare l’insight, come da tradizione. Se invece fossimo meno ossequienti verso le idee tradizionali e ci chiedessimo perché mai dovremmo conservare delle nette separazioni terminologiche e concettuali laddove si tratta di interventi che tendono tutti a uno stesso fine – l’integrazione del senso del Sé – anche se con mezzi diversi, potrebbe venirci in aiuto una considerazione più attenta del significato etimologico della parola “interpretare”. Essa deriva dalla parola latina interpres, composta da inter e dalla radice di pretium, col significato di “mediatore” (tra prezzi diversi, proposti da due contraenti). Da qui il concetto traslato di mediazione, tra un testo – oscuro nel suo essere inerte e chiuso in sé – e chi potrebbe usufruirne. Il motivo centrale è però l’attività di chi si interpone (interviene) per facilitare una relazione, ovvero è l’intenzione diretta a un fine, piuttosto che il modo in cui il fine viene raggiunto. Penso che questo potrebbe bastare, sempre che vogliamo muoverci con più libertà rispetto agli schemi della tradizione. In quest’ultimo caso – ed io personalmente sarei propenso verso questa direzione – potrebbe essere utile adottare un concetto ampio di interpretazione (di cui l’interpretazione ai fini dell’insight sarebbe allora un tipo particolare), relativamente alla sua dimensione comunicativa.[6] In base ad esso, ammetteremmo allora l’opportunità di considerare sullo stesso piano varie modalità di comunicazione integrativa del senso: quale che sia il mezzo usato, verbale o non verbale, per intervenire nella relazione terapeutica, se tale intervento ha come fine quello della comunicazione di un senso che sia stato compreso, esso sarebbe comunque da considerare come facente parte a pieno titolo dell’attività interpretativa. Se questo fosse il nostro rinnovato modo di intendere, si tratterebbe di un concetto che non solo avrebbe un campo referenziale allargato rispetto a quello tradizionale, ma a cui, credo, andrebbe più propriamente attribuito un ordine di significato definibile come “rappresentazionale”, piuttosto che semplicemente “informazionale”.
Sulla base delle considerazioni fatte fin qui, per “rappresentazionale”[7] sarebbe da intendere la qualità inerente alla messa in atto, sulla scena del rapporto analitico, di tutte quelle forme di responsività da parte dell’Altro transferale (oltre quindi la sola informazione verbalizzata) che, in relazione specifica con la comprensione di un dato evento psichico, abbiano il fine di trasformare l’assetto del Sé del paziente nella direzione dell’unitarietà. Interpretare – nella sua dimensione comunicativa – sarebbe in questo senso equivalente a “rappresentare” (ossia: rendere attivamente in forma percepibile o psichicamente rilevabile) un particolare aspetto o elemento del campo transferale totale Sé-Altro, posto alla base di un dato fatto psichico, in una modalità tale da favorire l’integrazione del senso del Sé del paziente. Le forme di responsività consistono infatti in primo luogo nella messa in atto di modi o aspetti dell’Alterità in quanto tale. Sia nel rispecchiamento empatico di Kohut, che nel sostegno di Winnicott al paziente regredito o nell’aiuto attivo di Weiss teso a disconfermare le credenze patogene (per citare alcuni autori), la posizione dell’analista “rappresenta” in ciascuno di questi casi quell’intenzionalità possibile dell’Altro transferale che si pone in un qualche rapporto significativo con quanto fu o non fu posto in essere dall’intenzionalità di Altri soggetti in passate relazioni vitali dell’analizzando. In secondo luogo, non mancano nella pratica situazioni cliniche relative a condizioni psicopatologiche difficili, di ordine narcisistico, in cui l’analista che riceve l’identificazione proiettiva del Sé del paziente deve “ospitare” e lasciar svolgere nella propria psiche quelle parti del Sé, per restituirle quindi sufficientemente trasformate (Ogden, 1991, pp. 30-32). In particolare, nei confronti del caso borderline, è Searles che riesce a comunicarci tutta l’importanza della non facile elaborazione interna, da parte del terapeuta, di aspetti proiettati del Sé di questo paziente, fino al momento in cui ne sia possibile l’espressione diretta e la successiva reinteriorizzazione nel mondo psichico dell’analizzando (Searles, 1986, pp. 71-102 e 143-144). In queste circostanze, in cui si incarica della gestione “rappresentazionale” di aspetti del Sé del paziente, l’analista viene a proporsi come l’Altro soggetto con cui il paziente ha la possibilità di identificarsi, facendo propri attraverso tale identificazione i modi più sani o meno patologici in cui questo Altro vive la propria soggettività. In terzo e ultimo luogo, nelle situazioni di transfert dell’oggetto in quanto destinatario di moti pulsionali, o di proiezione nell’analista di impulsi, affetti e fantasie (così come si verificano tipicamente nel trattamento delle nevrosi strutturali), non hanno in genere luogo messe in atto dei contenuti trasferiti o proiettati, bensì ha valore integrativo il loro chiarimento attraverso la consapevolezza di insight. La funzione “rappresentazionale”, in questi casi, riguarda la posizione di Super-io ausiliario (ovvero di Altro stabilmente interiorizzato) detenuta dall’analista, attraverso cui si rende possibile la presa di coscienza di quei contenuti inconsci. In ogni caso, l’interpretazione intesa nel senso ampio “rappresentazionale” non può essere ricevuta dal paziente che come una manifestazione, per quanto sottile, dell’essere del terapeuta come soggetto, come Altro che si pone in qualche relazione intenzionale col Sé del paziente. Si può dire che questo modo di intendere l’attività interpretativa e l’intervento analitico in generale, consisterebbe in sostanza nel cercare di estendere sotto tutti gli aspetti – dalla singola formazione psichica in sé considerata alla struttura transferale totale – il campo di implicazione della dimensione comunicativa, così come si tende generalmente a fare nei confronti della dimensione conoscitiva.
Attraverso l’interpretazione, nella sua dimensione comunicativa, avverrebbe così la presentificazione di una funzione soggettuale simbolica, da parte del terapeuta, attivamente rivolta a un tutto che è il campo totale analitico, di cui fanno parte sia il paziente che il terapeuta, nella posizione assegnatagli dal transfert. Se l’azione ha preteso un così largo riconoscimento nell’esercizio della posizione analitica del terapeuta, e dato che l’azione richiede inesorabilmente un soggetto che ne sia titolare, potremmo dire che la comunicazione interpretativa consiste nel modo attraverso cui la conoscenza analitica, a proposito di un certo evento psichico, passa attraverso la soggettualità intenzionale del terapeuta per essere trasmessa al paziente. In altri termini, non solo l’analista è disponibile come ‘oggetto’ transferale, in quanto destinatario di moti pulsionali e affettivi del paziente, ma lo è anche e soprattutto come soggetto transferale, che ha la capacità di attuare il senso ritrovato,[8] rappresentandolo in adeguate forme simboliche nella situazione analitica. Egli – riprendendo ancora il concetto che cerco di enucleare – in quanto recettore transferale dell’Altro, mette a disposizione i vari aspetti del suo mondo intenzionale per intendere e interpretare, ossia “rappresentare” attraverso una adeguata posizione responsiva, quella parte della situazione inconscia totale che meglio può determinare l’ampliamento integrativo del senso del Sé dell’analizzando. Quando l’analista interpreta al paziente nel senso ampio che si è detto, non fa che tradurgli in qualsiasi forma sia opportuna un significato che sia stato rilevato. Ciò comporta che l’integrazione del senso del Sé non debba necessariamente realizzarsi attraverso un’espressa acquisizione cognitiva del senso, ma che possa anche avvenire, e spesso avvenga, mediante un’assimilazione solo “funzionale” di quel senso – un’assimilazione risultante dal rendere disponibile al paziente una conoscenza di se stesso in una modalità solo potenzialmente conscia in forma verbalizzabile: si potrebbe dire una forma di preconscio statu nascendi.[9] E’ ancora da sottolineare che la “messa in atto rappresentazionale”, come dimensione comunicativa dell’interpretare, si declina tanto più chiaramente quanto più ci si sposti dall’area psicopatologica delle nevrosi transferali, in cui la “rappresentazionalità” rimane condensata in forme piuttosto stabili e determinate, verso l’area narcisistica, nella quale la variabilità e mobilità della messa in atto si mostra invece decisamente più accentuata.
Valutando con uno sguardo d’insieme il rapporto tra la dimensione conoscitiva e quella comunicativa dell’attività interpretativa, sembra evidente come non sia possibile omologare il piano dell’interpretazione in quanto comprensione del senso, con quello dell’interpretazione come comunicazione del senso compreso. Il livello della comprensione rimane pur sempre connotato essenzialmente in modo cognitivo, o comunque traducibile in forme cognitive (affinché il terapeuta possa capire il più chiaramente possibile quali siano gli aspetti del Sé del paziente che tendono verso l’integrazione), ma esso non andrebbe per niente confuso con le forme comunicative attraverso cui si intende trasmettere ciò che è stato compreso. Queste forme possono certamente essere di tipo cognitivo, per cui in alcuni casi avverrà uno scambio verbale volto a determinare direttamente uno stato psichico di coscienza riflessiva; in altri casi si tratterà invece di modi di intervento che non comportano l’insight consapevole, ovvero modi diversi di promuovere l’integrazione del senso del Sé. L’integrazione esigerà il mezzo dell’esplicazione cognitiva quando questa è richiesta come modalità di intervento più appropriata, ciò che avviene del tutto specificamente per gli elementi isterici di personalità[10] e genericamente per gli elementi psicopatologici riferibili all’area nevrotica transferale; ma non ci si dovrà necessariamente limitare a tale modalità, potendo in realtà l’azione analitica riguardare tutte le molteplici dimensioni del Sé e della relazionalità intersoggettiva. Ciò non vuol dire naturalmente che l’uso dell’interpretazione ai fini dell’insight sia delimitabile all’area delle nevrosi transferali. Sarebbe contro ogni evidenza dell’esperienza clinica affermare ciò. La comprensione sul piano cognitivo-riflessivo è una componente psicoterapeutica che ha una data incidenza, in misura più o meno significativa, in ogni tipo di psicopatologia. Tuttavia si deve riconoscere che gli equilibri interni (in primo luogo le strutture identificatorie più stabili), che sottostanno alla psicopatologia nevrotica classica e agli stati psichici con questa compatibili, permettono una maggiore efficacia, sul piano affettivo, da parte degli interventi finalizzati alla creazione di consapevolezza cognitiva. Le condizioni più gravi – i disturbi narcisistici della personalità, la patologia borderline, le sindromi depressive, la personalità schizoide, le stesse nevrosi ossessive di grado più complesso – non sono in egual misura influenzabili nella struttura emotiva profonda attraverso la presa di coscienza riflessiva. Hanno generalmente bisogno di un arricchimento e di una diversificazione degli interventi rispetto all’insight, o addirittura dell’uso prevalente di altre modalità.
Allargando la visuale, sarebbe inoltre più aderente alla realtà clinica pensare allo svolgersi normale di una qualsiasi cura come all’attivazione di un insieme complesso di elementi e piani psicopatologici, anche se con la prevalenza di certe configurazioni principali. La multidimensionalità del Sé si rende difatti percepibile proprio nell’interrelazione di stati psichici di diverso significato e fondamento. Cosicché sarebbe veramente riduttivo, all’infuori di dati casi, pensare a un modo unico e costante di dispiegamento dei modi responsivi del terapeuta sul piano clinico. Proprio per tale multidimensionalità, e quindi in relazione all’aspetto o elemento psicopatologico di personalità che occupi la scena analitica del momento e al suo grado di attivazione transferale, le modalità di comunicazione interpretativa del senso analitico potranno variare (anche all’interno della stessa seduta) dall’intervento finalizzato all’insight a forme più peculiari di “azione responsiva”. Ci dovrebbe poter guidare a tal fine la sottile comprensione di quale sia la posizione del terapeuta, in dati frangenti, come Altro transferale per il paziente. Del resto, dobbiamo considerare infine la possibilità di usare certe forme più evolute di comunicazione terapeutica (come in primo luogo quella diretta all’insight) come modo intermedio per poter entrare in contatto con elementi psicopatologici di maggiore gravità, che avranno bisogno poi, più propriamente, di interventi analitici basati su una più diretta “messa in atto” interpretativa.
A fronte del fine integrativo, quindi, il terapeuta con una pluralità di mezzi (che siano atteggiamenti, esplicitazioni discorsive, reazioni emotive, battute di spirito, rassicurazioni, risposte di conferma o rispecchiamento, rifiuti particolari, o altro) “interpreta” – ovvero elabora dentro di sé e “presenta” (“offre”) poi al paziente, attraverso vari aspetti della propria intenzionalità soggettuale – ciò che ha compreso, affinché questi possa sperare di ritrovare attraverso lo scambio relazionale un senso del Sé un po’ più unificato. Non di sola consapevolezza di insight può aver bisogno l’analizzando nel processo analitico di integrazione, vorrei ancora sottolineare, ma dell’attivazione di ogni altra possibile dimensione della sua soggettività totale.
Note:
[1] Racker, intelligente precursore su tanti piani, aveva già parlato (1968, pp. 96-98) di “interpretazione sotto forma di azione”. Tuttavia, così come era prescritto per i parametri di Eissler, egli afferma che l’agire dell’analista deve essere poi comunque “seguito dall’interpretazione di ciò che si è compiuto” (p. 98. V. anche pp. 57-60).
[2] E’ molto indicativa l’analisi che di questo concetto fa Etchegoyen (1986, pp. 733-772): la valenza intellettuale e scientifica dell’insight vi appare come assolutamente prevalente. “L’insight è sempre riflessione” (p. 742): “il concetto stesso di insightimplica un processo cognitivo, un processo intellettuale. Cosicché ogni insight è essenzialmente intellettuale e non può esserci insight che non lo sia” (p. 746).
[3] Intendo specificamente l’“Altro” come l’oggetto relazionale nella titolarità di una propria istanza intenzionale.
[4] La Macalpine (1950) sottolineerà ancora il paragone con l’ipnosi, dicendo che “le manifestazioni della traslazione analitica sono un film al rallentatore delle manifestazioni della traslazione ipnotica” (pp. 89-90).
[5] Cremerius (1984, pp. 13-19) rileva un’analoga indebita generalizzazione relativamente al principio di astinenza nella cura psicoanalitica, denunciando così l’incongruenza dell’interpretazione classica, in quanto basata sulla neutralità dell’analista, per le condizioni nevrotiche diverse dall’isteria (p. 17).
[6] Una posizione analoga a quella che cerco qui di presentare mi sembra quella di Benvenuto (2000, prima parte, pp. 95-99), che sostiene espressamente l’opportunità di ampliare il concetto di interpretazione (p. 96).
[7] Con una certa affinità, a ben vedere, con il significato del ‘rappresentare’ in campo drammaturgico – si noti la radice etimologica greca dráo (agisco), che indica l’azione attraverso cui viene rappresentata una parte nel dramma teatrale – e con una chiara distinzione, invece, dall’ambito di significato delle ‘rappresentazioni’ mentali (di cosa o verbali), che sono di ordine figurativo (ideativo), e non concernenti la messa in atto.
[8] Si tratta di un ‘attuare’ consapevole, a volte solo temporaneamente inconsapevole, e comunque espresso in forme attenuate: un “piccolo agire”, come tendo a chiamarlo.
[9] Prescindendo dalla presenza o meno della qualità della consapevolezza, possiamo in generale intendere il senso degli eventi psichici – nella comunicazione interpretativa al paziente – come la ‘direzione’ in cui, da uno stato del Sé verso un altro stato, consciamente o inconsciamente, si muove il sistema di autoregolazione integrativa della psiche totale.
[10] Forse non c’è bisogno di sottolineare che anche l’esplicazione cognitiva detiene, nel caso specifico dell’isteria di conversione, un ben preciso valore di “azione intenzionale” da parte dell’Altro transferale. Si tratta infatti, per l’elemento isterico di personalità, della forma più opportuna di “responsività rappresentazionale”.
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Giancarlo Ventimiglia
Psicologo, specialista in psicoterapia. Esercita a Pisa dal 1976 la professione di psicoterapeuta e psicoanalista. E’ socio ordinario della SIPRe (Società Italiana di Psicoanalisi della relazione).
giancarlo.ventimiglia@alice.it