Quando una persona si presenta per la prima volta nel nostro studio, non possiamo prevedere che cosa accadrà. L’incontro con l’altro è inizialmente un’incognita, non sappiamo che cosa ci potrà riservare.
Tuttavia un’idea chiara nella nostra mente esiste: poiché siamo terapeuti, vogliamo disporci ad ascoltare e comprendere coloro che ci chiedono aiuto. Questa affermazione sembra ovvia e banale. Noi siamo sulla porta del nostro studio, sorridenti, accoglienti, padroni del nostro territorio, “giochiamo in casa”, rassicurati dalle nostre teorie e dal potere che ci deriva dal ruolo che ricopriamo…..siamo pronti ad affrontare “l’incognita umana” che ha chiesto di parlare con noi. Abbiamo predisposto il setting, abbiamo preparato la nostra mente e il nostro animo all’incontro. Come sosteneva Sullivan, siamo tutti “semplicemente umani”, eppure non è sempre facile comunicare e comprendere. Ogni relazione è comunque complessa ed unica.

Nei primi minuti che N. ha trascorso nel mio studio, ho intuito con sgomento che le mie certezze rischiavano di “saltare” rapidamente. Iniziò subito una battaglia per la scelta della poltrona: N. pretendeva di sedersi sulla mia poltrona e reagì al mio divieto con un atteggiamento di delusione e disappunto. Subito dopo mi disse di voler registrare la seduta e di fronte alla mia esitazione, nuovamente contrariato, affermò che avrebbe potuto farlo di nascosto, ma visto il mio atteggiamento, ci rinunciava. In pochi minuti aveva già messo in discussione alcuni punti fermi del setting e aveva contestato alcune regole con cui lavoravo ogni giorno.
N. aveva 38 anni e soffriva da circa vent’anni di una psicosi bipolare, con netta prevalenza del disturbo maniacale che gli aveva comportato una serie di ricoveri in psichiatria in regime di TSO. Le sue difese inconsce si basavano sul diniego e sulla proiezione di una intensa rabbia che dava luogo talvolta ad atteggiamenti paranoidi. N. viveva con ambivalenza un forte bisogno “fusionale” che lo rendeva dipendente e da cui cercava di difendersi con l’eccitazione maniacale. Non mi è possibile riassumere i contenuti delle sedute con questo paziente. Un fiume di parole, senza pause, interi monologhi di cui mi era difficile seguire i passaggi logici. Alcune affermazioni però ricorrevano più volte: “Mi manca un mio habitat…decidono sempre gli altri….quando mi arrabbio dovrei controllare di più i miei impulsi…” E ancora: “N. si deve sempre adattare…” parlando di sé in terza persona.
Non mi soffermo sulla sua storia in cui alcune gravi situazioni traumatiche avevano probabilmente provocato una intensa sofferenza ed influito nel determinare lo sviluppo della malattia. Vorrei invece discutere sulla mia difficoltà di costruire una relazione terapeutica con N. Le sedute si svolgevano nel mio studio, ma N. manifestava un forte disagio nell’accettare la situazione : “Perché non andiamo a fare una passeggiata? A che mi serve stare qui a fare tutti questi discorsi?” Parlava e parlava,veloce come una macchinetta, si muoveva sulla poltrona, il volto teso, lo sguardo intenso esprimevano uno stato di eccitazione ansiosa costante. Un giorno rimase in piedi per tutto il tempo della seduta senza darmi spiegazioni sul suo rifiuto di sedersi. Mi sentivo a disagio e non riuscivo a cogliere il significato del suo comportamento e delle sue proteste, che interpretavo come resistenza al trattamento e come espressione del suo carattere oppositivo. Avvertivo tuttavia una situazione di “stallo”, che mi pareva poco utile e temevo potesse condurre ad un’interruzione prematura della psicoterapia.
Ma dopo alcuni mesi la situazione cambiò in seguito ad un episodio che è rimasto nel mio ricordo come “la seduta del pollo”. In realtà non avrebbe dovuto essere una seduta, ma a mio parere ne ha tutti gli ingredienti ed è stata determinante. Si trattava di un appuntamento con un rappresentante della ASL allo scopo di inoltrare la domanda di invalidità. N. non sembrava totalmente d’accordo, ma aveva accettato soprattutto su indicazione dello psichiatra che lo curava durante i ricoveri ospedalieri. La mia presenza avrebbe dovuto facilitare la comunicazione e costituire per lui un sostegno ed una sicurezza. All’ora stabilita N. mi aspettava davanti all’ufficio di competenza, ma affermò subito di non voler entrare. Iniziò una breve discussione tra noi. Mi sentivo a disagio e volevo disdire telefonicamente l’appuntamento, inoltre provavo rabbia per l’atteggiamento oppositivo di N. che andava a suo danno. Mi sentivo un po’ offesa perché non dava valore al tempo che gli offrivo ed alla mia disponibilità. Alle mie domande, rispondeva che non ne aveva voglia, camminava avanti e indietro, parlava, parlava saltando da un argomento all’altro, con espressione cupa, probabilmente accorgendosi del mio disappunto. Ad un tratto, mentre stavo tornando alla mia auto per andarmene, mi disse a bruciapelo: “Mi vuoi aiutare? Mi vuoi bene? Allora mi aiuti di più se andiamo a pranzo insieme o se mi accompagni al mercato a comprare un pollo!” Rimasi attonita e non gli risposi, lo salutai freddamente, lasciandolo solo e portandomi via un senso di fallimento, di confusione e molta rabbia, non più verso di lui, ma verso me stessa. Mi ero irrigidita sul suo rifiuto di collaborare e di rispettare gli impegni, sulla sensazione di aver perso il mio tempo e sull’apparente assurdità delle sue proposte.
Questo episodio determinò una svolta nel mio rapporto con N. Riflettendo su quanto era accaduto tra noi, mi sono resa conto che forse aveva ragione: paradossalmente lo avrei aiutato di più pranzando con lui o accompagnandolo a comprare un pollo…. Ovvero ascoltandolo in modo profondo, non per assecondare in ogni caso le sue richieste, ma per trovare insieme una sintonia, un modo diverso di costruire un’intesa.
La sua ricerca di un proprio spazio vitale, fisico e psicologico, il fatto di non sentirsi padrone della propria vita, poiché altri decidono al suo posto ciò che è bene per lui…..erano elementi che avevo sottovalutato, nell’imporgli le regole del setting che lo costringevano nello spazio ristretto del mio studio e nell’implicito incoraggiamento a percorrere un iter burocratico per il “suo bene”.
Non avevo inoltre compreso la difficoltà di N. a regolare l’eccitazione emotiva ed il flusso troppo veloce dei pensieri, che nel setting tradizionale avrebbe potuto “scaricarsi” solo mediante il linguaggio.
N. aveva bisogno di spazi più ampi, di un tempo più elastico e di un’attività motoria che gli permettesse di far defluire sul corpo l’eccessiva energia psichica. Solo modificando il setting, potevo offrirgli l’opportunità di auto-regolarsi in modo migliore. Abbiamo provato, quando possibile, a svolgere le sedute passeggiando per strada, e questo mi ha dato la possibilità di verificare che N. appariva più rilassato, il suo eloquio rallentava ed era più comprensibile. Diventava possibile una regolazione reciproca, ovvero un dialogo nel quale avevo anch’io la possibilità di parlare e lui poteva ascoltarmi.
Le costrizioni subite nel corso degli anni, la “camicia di forza” fisica e psichica in cui si era sentito imprigionato, hanno reso N, ipersensibile e intollerante rispetto ad ogni imposizione. Lo spazio limitato della stanza di analisi diventava metaforicamente uno spazio troppo stretto per consentire lo sviluppo di un’auto ed etero- regolazione, elemento indispensabile per dare vita ad una relazione terapeutica.
Nel trattamento di questo paziente, la dilatazione dello spazio ed una maggiore elasticità del tempo della seduta, si sono rivelati accorgimenti tecnici importanti per impostare un percorso psicoterapeutico a orientamento analitico. La rigidità delle regole del setting lo avrebbe reso molto più difficile o forse impossibile. E’ un’idea comune considerare la rigidità come segno di psicopatologia nei nostri pazienti, ma credo che dovremmo chiederci se esiste una forma di rigidità anche in noi terapeuti, rigidità di cui però spesso non vogliamo diventare consapevoli.

Emanuela Busso è medico, neurologo e psicoanalista, membro della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione (SIPRe). bussoemanuela(at)tiscali.it


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