Tesina 2° anno 2007-2008
- INTRODUZIONE
- STORIA DI UN ALBERO
- SULLA DIPENDENZA IN GENERALE
- SULL’ALCOLISMO IN PARTICOLARE
- SULLA PERSONALITA’ DELL’ALCOLISTA
- SUL COUNSELLING IN GENERALE
- SUL COUNSELLING ROGERSIANO COME RISORSA PER L’ALCOLISTA
- CONCLUSIONE
- BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
Il problema della dipendenza in generale e della tossicodipendenza (in particolare l’alcolismo); i tratti caratteristici della personalità di un tossicodipendente; la possibilità che un intervento di counselling rogersiano possa aiutare il soggetto dipendente a conoscersi e a riconquistarsi saranno i temi da me trattati nel lavoro che qui di seguito espongo.
Mi sembra giusto chiarire i motivi che mi hanno spinto a trattare questo argomento.
Prima di tutto la mia esperienza personale: sono entrata in contatto e ho conosciuto piuttosto bene sia eroinomani che alcolisti e sono rimasta colpita dal dramma che queste persone vivono nella loro esistenza, dramma che deriva sia dalla sofferenza che la dipendenza comporta, sia dal comportamento della società nei loro confronti: il tossicodipendente è un vizioso, un buono a nulla, un delinquente, un rifiuto della società che va accuratamente evitato e che quindi viene lasciato solo.
“E’ proprio questa sofferenza il fattore maggiormente trascurato dal senso comune e, troppo spesso, anche dai clinici” (Rigliano P., 2004, pag.9).
In secondo luogo debbo purtroppo constatare che molti sono ancora gli stereotipi, i pregiudizi e l’ignoranza che circondano l’argomento dipendenza e dipendente e che essi pesano enormemente sui giudizi che la gente comune si sente autorizzata ad esprimere.
“Il drogato è rappresentato come una persona senza prospettive, senza orgoglio, senza princìpi morali, che agisce unicamente per assicurarsi le dosi che gli consentono di evitare l’astinenza e che a tal fine è disposto a fare qualunque cosa, come se la droga fosse l’unica forza motrice delle sue azioni”. (Ravenna M.,1997, pag.9).
In terzo luogo sono profondamente convinta che il tossicodipendente in generale e l’alcolista in particolare debbano essere considerate persone, molto spesso con una accentuata sensibilità e fragilità caratteriale e che vadano considerate come tali e non giudicate, ma aiutate a ritrovare l’energia vitale positiva che è in loro e ritengo che un intervento di counselling centrato sulla persona possa essere molto efficace per il raggiungimento di tale obiettivo.
In quarto luogo mi addolora e mi spaventa il dover constatare che la società attuale, caratterizzata da uno sfrenato consumismo, è un mondo in cui la diffusione delle droghe e dell’alcool è in preoccupante aumento.
“Si accentua da parte di estesi gruppi di popolazione giovanile il consumo di sostanze in grado di incrementare stati di attivazione-disinibizione, di facilitare i rapporti con gli altri, di produrre stati di eccitazione compatibili con la vita quotidiana” (Ravenna M., 1997, pag.11).
Infine mi ha colpito molto un breve racconto, che qui di seguito riporto, che, sotto forma di metafora, mi sembra esprimere sia alcuni tratti fondamentali della personalità di un alcolista, sia alcune fasi salienti del suo percorso di vita, sia la possibilità di aiutarlo a ritrovare se stesso e le sue risorse.
STORIA DI UN ALBERO
C’era una volta un giovane, grande albero, era stato seminato in primavera e la madre terra lo aveva protetto, nutrito e aiutato a crescere. Era felice, aveva foglie bellissime, fiori colorati e grandi frutti succosi; i suoi rami si muovevano con agilità, il suo tronco era sano, le sue radici, ben salde nel terreno, erano portatrici di grande vitalità e stabilità.
Ma un giorno l’albero cominciò a sentirsi stanco e solo, ad aver paura di non essere apprezzato come la vicina quercia; di essere giudicato male perché i suoi frutti non erano buoni come quelli del vicino pesco. Si sentiva in colpa perchè si vedeva diverso ed inferiore rispetto agli altri alberi del giardino ed era spaventato da questa sensazione di inadeguatezza. Non sapeva come affrontare questa situazione, si sentiva troppo debole e insicuro per tener testa a queste sue emozioni negative. L’albero si sentiva sempre peggio e pensò che forse doveva nutrirsi in modo diverso e cominciò ad affondare le sue radici in un fiume giallo; aveva l’impressione che questo lo facesse sentire meglio, più forte. In realtà in pochi giorni e in poche notti si trovò infreddolito, completamente solo; si accorse che le foglie rimaste cadevano, che il fusto si invecchiava velocemente mentre le radici succhiavano veleno: sembrava morire l’albero, si stava distruggendo.
L’unica cosa ancora viva, che resisteva, erano le radici, anche se piene di ferite.
In un momento di lucidità l’albero disse risoluto fra sé e sé: “devo darmi da fare”.
Fu così che cominciò a chiedere consigli a tutti i suoi amici per sapere come avrebbe potuto ritrovare il suo vigore. Ognuno esprimeva la sua opinione, ma nessuno riuscì a risolvere il problema dell’albero che si sentiva sfiduciato e stanco. Proprio mentre stava per addormentarsi, uno gnomo passò di là. Al vedere quell’albero così spoglio, indebolito dal freddo e dalle intemperie, si fermò e gli chiese cosa stesse succedendo.
L’albero gli raccontò tutta la sua storia. Lo gnomo stette con lui. Si fermò nel suo silenzio, lo ascoltò, sentì il suo dolore.
Allora l’albero parlò ancora e disse: “Mi è sembrato di chiudere gli occhi e, dopo averli riaperti, non ho più trovato le mie foglie, non sono più stato capace di vederle”.
Lo gnomo pensò a lungo, poi capì: si tolse gli occhiali e li posò sul naso dell’albero, spiegandogli che erano occhiali magici che servivano per vedere dentro di sé.
L’albero, allora, aprì bene gli occhi e….meraviglia….vide che dentro di sé qualcosa si muoveva, sentiva un rumore, vedeva qualcosa circolare, provò ad ascoltare, guardò a fondo: era linfa, linfa viva che si muoveva in lui.
Incredulo disse allo gnomo quello che vedeva. Lo gnomo gli spiegò che le foglie, i fiori e i frutti nascono grazie alla linfa che è in noi, coadiuvata da elementi esterni.
“Se vedi la linfa che hai dentro di te, puoi avere tutto, senza bisogno di dipendere dagli altri: le foglie rinasceranno grazie alla linfa che hai in te: le hai già dentro”.
Il ramo si sentì subito più forte, rinvigorì: aveva la linfa in sé, non doveva più dipendere dai consigli altrui, gli bastava lasciar vivere la linfa che circolava in lui per veder rinascere le amiche foglie.
Finalmente era tornato il sole, l’albero si sentiva di nuovo vivo e disse fra sé e sé: “Visto che non posso essere altro che ciò che sono, cercherò di manifestarmi al meglio di me stesso”.
SULLA DIPENDENZA IN GENERALE
Il termine dipendenza, dal latino dipendere significa “pendere da”.
Il dizionario Enciclopedico di Scienze Mediche Taber dà a questo termine più di un significato:
- Essere coinvolto, per una varietà di ragioni, in una delle diverse forme di comportamento ripetitivo, come giocare d’azzardo, mangiare disordinatamente, guidare spericolatamente, che possono riferirsi vagamente alla dipendenza, ma il termine è riservato più correttamente ad indicare la dipendenza da stupefacenti, alcool e tabacco.
- Stato di soggezione verso un altro o forma di comportamento che denota incapacità di prendere decisioni.
- Dipendenza fisiologica che può o non accompagnare un forte desiderio per una droga. Come si può dedurre, una dipendenza è innanzitutto un comportamento ripetitivo, spesso incontrollabile, una specie di ossessione.
Incapace di controllare il proprio istinto è il giocatore d’azzardo, il bulimico, l’alcolista, il tossicomane, l’innamorato dipendente.
Una dipendenza è come una fame improvvisa che chiede di essere tempestivamente saziata, ma che non sempre porta a sazietà.
Spesso si avverte un senso di vuoto maggiore legato ad una specie di nausea, un vomito.
Molti sono gli autori che negli anni hanno scritto di dipendenza: medici, psicologi, psicoterapeuti, sociologi, antropologi. Ciascuno dal proprio punto di vista e con i propri strumenti ha cercato di rispondere a tutti gli interrogativi legati a questo tipo di disagio.
Difficile è risultato unificare le diverse forme di dipendenza, riportarle ad un comune denominatore, riabilitarle con un unico tipo di intervento.
Ciò che penso comunque si possa dire senza ombra di dubbio è che il carattere di compulsività e la condizione di schiavitù dalla sostanza caratterizzano qualunque forma di dipendenza.
Esistono molte persone che provano piacere nel giocare a carte o nel bere un bicchiere di vino, ma non per questo siamo autorizzati a considerarle dipendenti.
“Parliamo di dipendenza vera e propria, infatti solo quando siamo di fronte ad un coinvolgimento totale della persona, ad uno stravolgimento completo del suo assetto motivazionale, ad una attivazione sistematica e praticamente continua intorno a quello che è ormai l’oggetto delle sue brame” (Cancrini L., 2003, pag.11).
Quando un individuo cede alla dipendenza da una qualsiasi sostanza in maniera così totale, diviene inevitabilmente vittima e schiavo di essa, rimane incatenato alla sostanza che sembra essere l’unica fonte di soddisfazione dei propri bisogni e di mantenimento di un seppur fragile equilibrio. Parliamo di dipendenza dunque quando “l’oggetto delle brame” diventa il protagonista assoluto della vita, in quanto in esso il soggetto dipendente vede riflessi tutti i suoi desideri e tutti i suoi bisogni.
Bisogna tener presente che il problema della dipendenza non può essere analizzato semplicemente come tendenza del singolo individuo a diventare dipendente. Bisogna considerare l’importanza che hanno altri fattori quali quello economico, quello sociale e culturale, quello familiare.
“Lo studio dei fattori di ordine economico e culturale è sempre fondamentale quando si tenta di ragionare sulle epidemie della dipendenza e sul modo in cui esse si concentrano in periodi storici ben definiti e coinvolgono gruppi di persone che nulla sapevano prima di quei consumi da cui sono sconvolti in una certa fase della loro storia” (Cancrini L., 2003, pag.15).
L’insinuarsi della dipendenza dalla sostanza e la condizione dell’uomo che da dominatore diviene schiavo mi sembra essere poeticamente, ma chiaramente espressa nel seguente brano:
“…rapidamente, tutto monta nell’uomo: in men che non si dica, s’è già sviluppato nel suo intimo un orribile verme che prepotentemente assorbe in sé tutti i succhi vitali. E di frequente, non soltanto una passione grandiosa, ma una miserabile passioncella per qualcosa di minuscolo giganteggia in qualcuno che era nato per imprese migliori […]. Innumerevoli, come granelli di sabbia del mare, sono le passioni umane e tutte diverse l’una dall’altra e tutte quante, meschine e nobili, da principio stanno soggette all’uomo e divengono poi le sue terribili tiranne”. Gogol, Le anime morte
IN PARTICOLARE
Nel tanto parlare e discutere sulla tossicodipendenza, molto spesso si dimentica o, nella migliore delle ipotesi, si sottovaluta un problema reale e sempre più diffuso: l’alcolismo.
Il termine alcool deriva dall’arabo al=il e kohl=polvere sottilissima e dall’ebraico qalal=esser leggero.
La scoperta dell’effetto stupefacente dei frutti fermentati è antichissimo così come è antichissima l’arte di curare la vite e la semina dei cereali allo scopo di produrre bevande alcoliche.
Gli egiziani offrivano vino e birra agli dei. Nel cristianesimo il vino simbolizza il sangue di Cristo ed è parte integrante della comunione. Gli antichi greci adoravano Dioniso, il dio del vino.
A partire dal sedicesimo secolo sono andate crescendo la produzione, la commercializzazione e quindi la diffusione di liquori e grappe. La rivoluzione industriale si compì a spese di una manovalanza estremamente sfruttata, che si anestetizzava e si nutriva con distillati ad altissima gradazione. Da allora l’alcolismo viene considerato il flagello dei popoli.
Nella nostra cultura è molto diffusa la produzione di vino e di liquori particolari, tipici delle nostre terre e ciò ne ha favorito il consumo. Inoltre viene dato al vino, alla birra o allo spumante un valore di convivialità e di socialità, che ne incoraggia il consumo. Bisogna precisare che non è un problema se il consumo di alcool è conviviale e socializzante; il problema sorge quando si sente la necessità di bere per socializzare o comunque per affrontare una situazione che crea disagio.
Una bottiglia di vino sulla nostra tavola non ha in sé niente di preoccupante, bere alcolici non è un male in assoluto, non è un reato, può essere un modo per rendere allegra e spensierata una serata, senza peraltro che nessuno finisca sdraiato sotto il tavolo, ma bisogna fare attenzione perché la sindrome da alcool-dipendenza può svilupparsi sotto i nostri occhi senza che ci facciamo troppo caso. Per alcuni, prima o poi l’alcool diventa un problema ed è difficile quantificarlo: quando è normale abitudine e quando diventa una vera e propria dipendenza?
E’ difficile per un bevitore accorgersi di quando supera la soglia della dipendenza. Sia perché spesso chi beve molto è allenato a sopportare gli effetti dell’alcool e quindi ha la sensazione di poterlo tenere sotto controllo, sia perché spesso chi beve non vuole accorgersi di aver superato il confine tra bevitore occasionale e bevitore cronico.
Quindi, purtroppo, alla domanda a che punto l’uso abituale di alcool diventa alcolismo, dobbiamo rispondere che, benché siano stati scritti molti libri su questo argomento, la esatta definizione dell’alcolismo è ancora materia di discussione. Infatti, ognuna delle discipline che si occupa di questo problema utilizza riferimenti diversi per definire l’alcolismo: la scienza medica si concentra sugli aspetti patologici legati al bere; la psichiatria e la psicologia legano l’alcolismo ai concetti di disagio, disadattamento, stile di vita; l’epidemiologia valuta la quantità e la frequenza dei consumi. Numerose ricerche fatte non hanno portato a nessuna certezza riguardo alla cosiddetta “soglia alcolica”. Infatti, nonostante ognuna di queste discipline si sia impegnata per trovare un criterio certo che consenta di individuare l’alcolista, di fatto non esiste una linea di demarcazione definita tra chi è bevitore e chi è alcolista e, se tale linea esiste, è solo per convenzione. Questo fatto ha sicuramente provocato il nascere e lo svilupparsi di confusioni, incertezze e conflitti intorno all’argomento in esame.
Nel 1950 l’OMS propone questa definizione degli alcolisti: “sono bevitori eccessivi, la cui dipendenza dall’alcool raggiunge un grado tale da procurare disturbi psichici o conflitti nella loro salute somatica e psichica, da disturbare le relazioni interpersonali”.
Nel 1977 sempre l’OMS modifica il termine alcolismo in “Sindrome da Dipendenza Alcolica (SDA)” e ne dà la seguente definizione: “uno stato psichico e normalmente anche fisico risultante dall’assunzione di alcool e caratterizzato da alterazioni comportamentali o di altro tipo, che sempre includono una compulsione ad assumere alcool in maniera continuativa e periodica, al fine di sperimentare gli aspetti psicotropi ed a volte per evitare il disagio della mancata assunzione; il fenomeno della tolleranza può essere più o meno presente”.
Sempre l’OMS ha stabilito un’ulteriore definizione di alcolismo, asserendo che per alcolismo si intende qualsiasi consumo di bevande a base di alcool, che danneggi i singoli individui, la società od entrambi sotto qualsiasi forma.
Come si può notare, l’attenzione si sposta in maniera evidente dal campo medico, che considera l’alcolismo essenzialmente come una malattia, a quello psicologico e sociale, che legge l’alcolismo come “una dipendenza” legata ad una sofferenza psicologica e ciò comporta un cambiamento radicale delle strategie per risolvere il problema.
Ancora una volta faccio riferimento ad una citazione letteraria che mi sembra esprimere bene quest’ultima interpretazione del problema:
“Noi abbiamo a che fare con un gran numero di persone, che trovandosi sotto un continuo influsso latente del vino, paiono quello che non sono, son specie di maschere di se stessi, che ci ingannano. Ci troviamo intorno delle generosità, delle eloquenze, delle bontà, dei caratteri ameni, che sono fittizi, che esistono solamente a ore, ma che esistendo per quelle tante ore ogni giorno, producono in chi le incontra, un’illusione stabile”.
SULLA PERSONALITA’ DELL’ALCOLISTA
Tutto mi si evapora. L’intera mia vita, i miei ricordi, la mia immaginazione e ciò che essa contiene, la mia personalità: tutto mi si evapora. Continuamente sento che sono stato altro, che ho sentito altro, che ho pensato altro. Le cose alle quali assisto sono uno spettacolo con un altro scenario. E ciò a cui assisto sono io. D. Demetrio
Innumerevoli ricerche sono portate avanti da molti anni per tentare di individuare la struttura della personalità di un tossicodipendente. Obiettivo di questi studi è l’identificazione di una costellazione di fattori psicologici e/o biologici che possano essere capaci di spiegare la predilezione del soggetto tossicomane per la sostanza, droga o alcool che sia. Tuttavia appare pressoché impossibile la definizione di personalità tossicomanica. Più utile appare il concetto di “personalità drogabile”, introdotto da Bergeret negli anni ottanta, perché ci porta a considerare l’esistenza non di univoche caratteristiche interiori capaci di provocare la tossicomania, ma di determinati tratti della personalità che possono essere considerati fattori a rischio. Vi sono, cioè, aspetti specifici e particolarità psicologiche condivisi da soggetti tossicomani e da individui che non assumono sostanze, chi dispone di tali caratteristiche corre però rischi maggiori di sviluppare una tossicodipendenza. Ma non necessariamente tutti coloro che presentano una personalità drogabile diverranno tossicodipendenti.
Sulla base di quanto detto sopra, si possono individuare alcuni aspetti specifici del comportamento e alcune particolarità psicologiche che caratterizzano un soggetto alcolista.
Per quanto riguarda il primo punto, possiamo nella maggior parte dei casi notare che:
- l’alcolista ha un aspetto trascurato;
- non si occupa né di sé, né di chi gli sta intorno, né di ciò che gli accade intorno;
- è spesso inaffidabile negli impegni;
- tende ad isolarsi e a rinchiudersi a riccio;
- non ammette o, nel migliore dei casi, minimizza il problema alcool;
- dice spesso bugie;
- cambia repentinamente umore e si mostra spesso irascibile ed aggressivo.
Per quanto riguarda il secondo punto, vorrei prima dare uno schematico elenco almeno di alcune delle caratteristiche psicologiche dell’alcolista, per poi approfondire alcuni aspetti che mi sembrano particolarmente importanti:
- l’alcolista ha scarsa fiducia in se stesso;
- si sente inadeguato ed inferiore agli altri;
- teme il giudizio degli altri;
- si vergogna e si sente in colpa;
- si sente debole ed insicuro nell’affrontare le sue emozioni e la realtà;
- si sente solo, stanco ed ha paura.
Questa breve e sicuramente incompleta mappa psicologica dell’alcolista ci mostra come l’immagine che l’alcolista ha di sé sia decisamente scadente, in quanto molto spesso legata direttamente o indirettamente alla condizione di dipendenza dall’alcool. Inoltre il soggetto dipendente sente pesantemente il divario fra l’immagine che ha di sé sobrio e l’immagine che ha di sé sotto l’effetto dell’alcool, fra ciò che vorrebbe essere e ciò che è (sé ideale e sé reale). Tale divario appare incolmabile e proprio per questo l’alcolista assume la sostanza, che rende temporaneamente sostenibile la distanza . Tornato sobrio, il bevitore si rende conto di essere sceso ancora più in basso e di trovarsi perfino più lontano dall’immagine ideale perseguita, perciò o torna a stordirsi o indossa una maschera che gli consenta di presentare agli altri comportamenti artificiosi, che nascondono i veri stati d’animo, e di essere accettato dagli altri.
La vita dell’alcolista è una continua lotta fra questi due poli: quello positivo, per rimanere nel quale l’individuo spende molte energie e indossa una maschera, e quello negativo, che lo fa sentire incapace, inutile e rifiutato. In quest’ultimo caso, il ricorso all’alcool diviene la via di fuga per scappare dalla difficoltà di barcamenarsi fra differenze così abissali.
L’alcolista dunque ha sicuramente una personalità fragile, vulnerabile, è facilmente ferito dalle difficoltà quotidiane e si sente troppo debole per affrontarle, quindi affonda le sue radici nell’alcool, pensando di trovare in esso quella forza che lui non ha per risolverle. La dipendenza rende una persona vittima di una situazione in cui l’altro, la sostanza, è comunque il più forte che mette l’individuo in uno stato di debolezza. E’ come avere un nemico interno capace di impadronirsi della mente della persona, di deformare i suoi giudizi, di dirigere i suoi comportamenti, senza avere il tempo di pensare, di riflettere sulle conseguenze di essi; è come essere un indemoniato che perde completamente il controllo di se stesso e soccombe alla forza di Satana. In realtà, come ha detto un ex-alcolista, “la dipendenza da qualsiasi tipo di sostanza non aiuta l’individuo, né tantomeno lo rende forte, al contrario lo rende debole, in quanto lo annulla prima di tutto di fronte a se stesso e di conseguenza di fronte agli altri; lo chiude in uno stato di isolamento che lo inaridisce, rendendolo incapace di amare sia se stesso che gli altri; lo indebolisce e lo conduce all’autodistruzione”.
Il dramma psicologico in cui si trova l’etilista mi sembra poeticamente, ma efficacemente espresso dal seguente passo:
“Perché bevi?” domandò il piccolo principe.
“Per dimenticare” rispose l’ubriacone.
“Per dimenticare che cosa?” s’informò il piccolo principe, che cominciava già a compiangerlo.
“Per dimenticare che ho vergogna” confessò l’ubriacone abbassando la testa.
“ Vergogna di che?” insistette il piccolo principe che desiderava soccorrerlo.
“Vergogna di bere!” E l’ubriacone si chiuse in un silenzio definitivo. A.de S.Exupery,Il piccolo principe
SUL COUNSELLING IN GENERALE
Definizione di counselling
(British Association for Counselling, 1992)
“Il counselling è un uso della relazione abile e strutturato che sviluppi l’autoconsapevolezza, l’accettazione delle emozioni, la crescita e le risorse personali. L’obiettivo principale è vivere in modo pieno e soddisfacente. Il counselling può essere mirato alla definizione e soluzione di problemi specifici, alla presa di decisioni, ad affrontare i momenti di crisi, a confrontarsi con i propri sentimenti e i propri conflitti interiori o a migliorare le relazioni con gli altri. Il ruolo del counsellor è quello di facilitare il lavoro dell’utente in modo da rispettarne i valori, le risorse personali e la capacità di autodeterminazione”.
Definizione di counselling del Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti (CNCP)
Il counselling è un processo relazionale fra counsellor e uno o più clienti (singoli individui, famiglie, gruppi o istituzioni), con l’obiettivo di fornire ad essi opportunità e sostegno affinché sviluppino le loro risorse e affinché promuovano il proprio benessere come individui e come membri della società, affrontando specifiche difficoltà o momenti di crisi.
Visione del counselling dell’Associazione Europea di Counselling
I counsellor professionisti lavorano con individui, famiglie ed organizzazioni. Il counselling è un impegno condiviso tra counsellor e clienti per identificare obiettivi e possibili soluzioni a problemi che causano disagio emozionale; gli interventi mirano a migliorare la comunicazione e le capacità di affrontare sfide, a rafforzare la stima di sé, a promuovere cambiamenti nel comportamento e nel benessere mentale. Attraverso il counselling si esaminano comportamenti, pensieri e sentimenti che provocano disagio nella vita quotidiana. Si imparano modi efficaci di affrontare problemi, facendo leva sulle risorse personali. Il counsellor professionista promuove la crescita e lo sviluppo personale secondo modalità che potenziano gli interessi e il benessere del cliente.
La relazione che si instaura fra counsellor e cliente si configura come relazione d’aiuto, dal momento che in essa si ha l’incontro fra due individui, di cui uno si trova in condizioni di sofferenza, confusione, ansia (rispetto ad una determinata situazione o problema con cui è a contatto e che non sa come gestire) ed è quindi bisognoso di aiuto; l’altro ha sviluppato la capacità di entrare in rapporto con se stesso e soprattutto di rimanere costantemente in rapporto con sé durante la relazione e di mostrarsi al cliente così come è, senza maschere e ciò gli consente di avvicinarsi a lui come persona di fronte a persona, di suscitare fiducia e di predisporlo al cambiamento, alla riscoperta delle sue potenzialità. Il counsellor congruente trasmette il messaggio che essere se stessi non solo è permesso, ma è anche auspicabile. Inoltre, presentandosi in modo trasparente davanti al cliente rifiuta di presentare un’immagine di sé come persona superiore, esperta, onnisciente e incoraggia il cliente a trovare in se stesso le risorse, senza attaccarsi all’aspettativa che sarà il counsellor a fornire le risposte per lui.
L’obiettivo del counselling è promuovere l’empowerment del cliente per fronteggiare (coping) situazioni contingenti vissute come problematiche, è cioè fornirgli opportunità e sostegno per sviluppare le sue risorse e promuovere il suo benessere come individuo e come membro della società, affrontando specifiche difficoltà o momenti di crisi.
Nei colloqui d’aiuto condotti secondo l’impostazione rogersiana, si parte dal presupposto che, se una persona si trova in difficoltà, il miglior modo di venirle in aiuto non è quello di dirle cosa fare, quanto piuttosto di aiutarla a comprendere la sua situazione e a gestire il suo problema, prendendo da sola e pienamente la responsabilità delle scelte eventuali. Il presupposto è che nella persona vi sono le risorse (emozionali, cognitive, affettive, etc.) necessarie a che l’aiuto si produca. L’aiuto consiste nel rendere possibile una riattivazione o riorganizzazione di queste risorse originarie.
Nei colloqui condotti secondo l’impostazione di Rogers, si evitano così una serie di strategie che spesso compaiono nelle relazioni fra “aiutante” e “aiutato”, quali ad esempio dare consigli, fornire informazioni, rassicurare, esprimere giudizi morali (strategie che oltretutto relegano l’aiutato in una posizione di passività rispetto all’aiutante che si pone come esperto). Il counsellor cerca invece di fare da specchio al cliente, rimandandogli pensieri ed emozioni inespresse o sottintese, aiutandolo così a metterle a fuoco, al fine di facilitare in lui l’attivazione di comportamenti più opportuni per risolvere il suo problema. Ciò è possibile solo quando il counsellor manifesta nei confronti del cliente genuinità, comprensione empatica e accettazione incondizionata, solo in questo caso la relazione d’aiuto evolverà in maniera positiva.
Il counsellor centrato sulla persona è convinto che tutti i clienti abbiano in se stessi ampie risorse di sviluppo. Hanno la capacità di crescere verso la soddisfazione della loro identità unica, il che significa che i concetti di sé non sono inalterabili e gli atteggiamenti o i comportamenti possono essere cambiati o trasformati. Nelle situazioni in cui osserviamo uno sviluppo bloccato o deviato sappiamo che ciò è il risultato di relazioni che hanno calpestato il bisogno innato e basilare dell’individuo di ricevere su di sé uno sguardo positivo e che hanno portato alla creazione di un concetto di sé e di comportamenti ad esso associati che servono come una difesa verso gli attacchi e la disapprovazione.
Il compito del counsellor è quello di creare nuove condizioni di relazione in cui il processo di crescita può essere incoraggiato e in cui può essere posto rimedio al blocco o alla deviazione. In un certo senso il counsellor cerca di offrire un terreno e un clima diversi in cui il cliente possa riprendersi da passate privazioni o maltrattamenti e cominci a fiorire come l’individuo unico che è davvero. Sono la natura di questo nuovo ambiente di relazione e l’abilità del counsellor di crearlo ad essere centrali a tutta l’impresa terapeutica (Mearns D.e Thorne B., 2006, trad.it. pag.26-27).
Mi piace concludere questa breve introduzione teorica sul counselling con una definizione operativa del counselling stesso:
- ha come obiettivo finale la determinazione, da parte del cliente, di strategie decisionali orientate a soluzioni di problemi specifici nell’ambito di un progetto di vita personale;
- consiste nel promuovere e supportare nel cliente la presa di coscienza di elementi, quali i propri bisogni, desideri e aspettative e lo sviluppo delle proprie caratteristiche (capacità e limiti) individuali;
- ha come effetto il rafforzamento nel cliente del senso di identità e del potere personale e, eventualmente, professionale (empowerment);
- si realizza nel momento in cui gli elementi sono identificati, esplorati e approfonditi dal cliente stesso e una soluzione viene ipotizzata, valutata ed eventualmente modificata in funzione del miglior risultato possibile.
SUL COUNSELLING ROGERSIANO COME RISORSA PER L’ALCOLISTA
Prima di entrare nel vivo dell’argomento oggetto di questo paragrafo, mi sembra opportuno precisare che un intervento di counselling è adeguato e sarà quasi sicuramente efficace nei casi in cui ci troviamo di fronte ad una persona che accede al bere e diviene poi dipendente dall’alcool per motivi contingenti come un grave lutto, un dolore profondo o, più in generale, una situazione difficile da sostenere, di fronte alla quale l’individuo non trova in se stesso la forza di reagire (alcolismo primario).
Nei casi in cui, invece, l’alcolismo sia “un pessimo compagno” di persone affette da malattie mentali vere e proprie, quali la schizofrenia, o da psicopatie di vario genere (alcolismo secondario), si renderà necessario un intervento più profondo e più radicale, di tipo psicoterapeutico o neuropsichiatrico, a seconda della gravità del caso.
Detto ciò, cercherò di chiarire in che modo una relazione di counselling secondo l’approccio centrato sulla persona può aiutare un alcolista a ritrovare la “ linfa vitale” e quindi la sua capacità di rendersi libero dalla sostanza o perlomeno di predisporsi a tale cambiamento.
Infatti il focus degli interventi si sta progressivamente disancorando dalla cultura della “guarigione” (intesa come completa astensione dalla sostanza), per centrarsi su una concezione più ampia di “accompagnare”, “prendersi cura” della persona alcool-dipendente, sia che essa sia già giunta alla decisione di smettere, sia che ancora non abbia raggiunto questa consapevolezza. In entrambi i casi l’obiettivo che il counsellor rogersiano si pone è quello di aiutare la persona a ritrovare quella capacità che ha in sé di esercitare un controllo attivo sulla sua vita, attraverso lo sviluppo di un empowerment personale che la metta in condizione di affrontare i problemi quotidiani connessi alla sua esperienza senza bisogno di ricorrere all’alcool.
Tenendo conto di quanto detto sopra, cerchiamo di vedere in che modo si può gestire una relazione di aiuto rivolta ad un alcolista. Mi sembra che la pietra miliare di questo percorso, che senza ombra di dubbio si presenta difficile e pieno di ostacoli, sia costituita dalla capacità del counsellor di far sentire all’altro un clima di accoglienza caloroso, ma non possessivo, di entrare in diretto contatto con lui, di stare con lui e di ascoltarlo, tenendo presente che:
“il termine udire oltrepassa il significato letterale della parola,…equivale a percepire non solo le parole, ma anche i pensieri, lo stato d’animo, il significato personale e persino il significato più riposto e inconscio del messaggio che mi viene trasmesso dall’interlocutore” (Rogers C.R. 1969, trad.it, pag. 253).
Questo consentirà al counsellor di divenire consapevole del dramma che si nasconde dietro la dipendenza dall’alcool, un dramma capace di travolgere la persona che non va allontanata con il pretesto dell’indignazione morale, bensì avvicinata, ascoltata ed accettata per quello che è, anche nella sua “parte negativa” che l’alcolista cerca di mantenere nascosta perché gli dà una sicurezza di sopravvivenza. Per quanto paradossale possa sembrare, infatti, l’etilista cerca dalla sostanza la vita:
”il bere deve essere visto come il tentativo disperato di un organismo umano non già di autodistruggersi, ma di sopravvivere e di continuare a crescere, pur trovandosi in condizioni avverse, tutt’altro che facilitanti” (Borgioni M., 2007, pag.55).
Se inteso in tal senso il bere può essere considerato come una manifestazione, seppur parziale e distorta, di quella spinta vitale che Rogers chiama tendenza attualizzante.
Questo concetto si può chiarire facendo riferimento alla metafora delle patate di Rogers: così come le patate riposte in una cantina buia, nonostante le condizioni sfavorevoli, germogliano ugualmente e cercano disperatamente di crescere tendendo verso la debole luce di una finestrella, anche l’alcolista sta cercando una luce verso la quale tendere per realizzare la propria crescita, nonostante le condizioni esistenziali e affettive avverse e trova questa luce nell’alcool, visto come unica alternativa alla rabbia, alla depressione e alla solitudine. Ciò che invece purtroppo determina, il suo effetto, è l’incapacità di fare qualcosa per sé e per gli altri.
Quello che conta sin dal primo incontro è stabilire una relazione da persona a persona, una relazione di fiducia all’interno della quale l’etilista senta di essere accettato così come è e non per come dovrebbe diventare. All’interno di questo tipo di relazione non c’è spazio per un detentore di sapere e di potere che vengano usati per trasformare, per cambiare, per guarire l’altro, perché entrambi, il counsellor ed il cliente, si trovano a vivere una relazione che li coinvolge come persone, ciascuna con le proprie responsabilità e con i propri limiti.
Il counsellor quindi mette da parte i suoi costrutti personali e professionali per riconoscere l’originalità di chi gli sta di fronte e per rivolgersi a lui secondo il criterio del rispetto e della accettazione incondizionata.
“Quando posso accettare l’altro, quando posso cioè accettare i suoi sentimenti, i suoi atteggiamenti, le sue opinioni come parte reale e vitale di lui, lo aiuto a diventare una persona e ciò mi sembra abbia un gran valore” (Rogers C.R., 1961, trad.it, pag.39).
Il consentire alla persona che ci sta di fronte di sperimentare la possibilità di essere compresa nei suoi propri termini, di essere accettata incondizionatamente per quello che è, è un’esperienza in se stessa produttrice di movimento perché consente al cliente di guardare l’altro in modo nuovo, non con il timore di essere giudicato, ma con la certezza di essere accettato e di conseguenza di guardare anche se stesso in modo nuovo, con più fiducia, con meno paura e senso di colpa. L’instaurarsi di questo duplice senso di fiducia porterà gradualmente l’alcolista ad abbassare le sue difese e a rendersi più aperto all’auto-esplorazione: prenderà coscienza del suo problema, smetterà di minimizzare i comportamenti socialmente indesiderabili e si aprirà alla relazione nella convinzione che ciò che dirà non verrà giudicato né vero né falso, né giusto né sbagliato, ma sarà comunque considerato come espressione di sentimenti, emozioni e bisogni personali.
L’alcool-dipendente comincerà a sperimentare in prima persona vie inedite all’interno del suo mondo personale e ciò costituirà un primo importantissimo passo verso la liberazione.
All’interno della relazione d’aiuto con un alcolista, oltre alla comprensione empatica che consente al counsellor di cogliere l’esperienza dell’altro mettendosi nei suoi panni, guardando il mondo con i suoi occhi, senza sovrapposizioni indebite e senza cadere nel rischio dell’identificazione, oltre alla considerazione positiva incondizionata che consente al cliente di sentirsi accettato in qualsiasi aspetto della sua personalità e rispettato nella totalità della sua esperienza, sia negli aspetti positivi che in quelli negativi, c’è una terza condizione molto importante per promuovere un cambiamento significativo nel cliente: la trasparenza o autenticità o congruenza del counsellor.
Delle condizioni definite da Rogers come necessarie e sufficienti, la congruenza, soprattutto all’inizio della relazione con l’etilista, è quella che deve essere più attiva per consentire un “aggancio” efficace e gettare le basi per una alleanza consulenziale:
“…..se i tossicodipendenti avvertono una eccessiva formalizzazione del ruolo, un ritrarsi in atteggiamenti troppo “professionali”, se non sentono” la persona reale” che sta loro di fronte, non possono fidarsi e preferiscono recitare la commedia”( Borgioni M., 2007, pag.59).
E’ infine altresì fondamentale che il cliente percepisca le disposizioni interiori del counsellor alla comprensione empatica e all’accettazione incondizionata, che cioè:
“tali disposizioni interiori vengano tradotte in comportamenti operativi e in qualche misura rese concretamente percepibili nella comunicazione da persona a persona” (Bruzzone D., 2007, pag.71).
Il realizzarsi delle condizioni sopra espresse contribuisce all’instaurarsi di un clima facilitante in cui l’alcolista si senta sollecitato all’autoesplorazione, all’autoconoscenza e all’autoaccettazione, fattori determinanti per la liberazione dalla sostanza.
“Anche i rifiuti scadenti della mia personalità mi appartengono,
mi danno essenza e corpo, sono la mia ombra.
Come posso io esistere senza gettare un’ombra?
Anche ciò che in me è oscuro appartiene al mio tutto
e acquistando coscienza della mia ombra
io giungo a rammentarmi che sono un uomo come tutti gli altri.
C.G. Jung
Paola Montanari è nata nel 1951 a Roma, dove tuttora vive.
Dopo aver conseguito il diploma di maturità classica, ha frequentato il corso di laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi “la Sapienza” di Roma, dove si è laureata con lode nel marzo 1976, discutendo una tesi sperimentale dal titolo “La visione del mondo di un campione di burocrati romani”. Dal 1978 al 1994 ha insegnato Storia e Filosofia presso un liceo scientifico a Roma. Dal 2000 partecipa alle attività del gruppo di mutuo aiuto A.N.C.A.(associazione nazionale contro l’alcool) di Roma. Ha frequentato il corso di formazione biennale di Counsellor Centrato sulla persona e nel Marzo 2008 ha conseguito il diploma con la qualifica di Cousellor di primo livello. Negli anni accademici 2006/2007 e 2007/2008 ha frequentato due corsi teorico pratici organizzati dalla Scuola Medica ospedaliera sul tema Self esteem in psichology, approfondimento sulle origini e sullo sviluppo dell’autostima, tenuto dalla Dott.ssa Viviana Immacolata De Quattro.