Questa relazione è stata presentata in occasione della VI edizione  della Italian American Conference: “Pensare la società nel XXI secolo”.
La conferenza ,organizzata dal Dipartimento di Scienze Politiche e  Sociali,  Facoltà di Scienze Politiche  dell’Università di Pisa, ha  avuto luogo dal 15 al 17 ottobre 2009 presso le sedi

dell’Università stessa e presso Villa Pacchiani, a Santa Croce sull’Arno.
Il testo che leggete, nel programma della conferenza, è stato inserito nella sessione “Cultura e pluralismo culturale: dai problemi ai progetti”.

Prossimamente verrà pubblicato negli atti della manifestazione, curati dal Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Pisa.

Ho accolto con grande gioia l’invito del prof. Toscano ad ospitare a Santa Croce, nella sua giornata conclusiva, la Italian American Conference di questo anno. Il ringraziamento non è formale ma assolutamente sostanziale. I cittadini di Santa Croce sono autenticamente interessati al tema che la conferenza ha preso in considerazione quest’anno e questo invito ci dà la possibilità di riflettere, confrontarci, discutere su una realtà globale che è quella che viviamo nella nostra realtà locale e, che, proprio per questo, ci rende tutti esperti- conoscitori che, in quanto tali, hanno diritto ad esprimere la propria opinione.

La professione che svolgo di psicoterapeuta secondo un approccio che identifica il modo di essere della persona come il veicolo attraverso cui facilitare la cura delle persone e che identifica la salute psichica come possibilità di essere pienamente se stessi, mi porta a credere che non si debba avere paura di quello che le persone sentono e pensano e che hanno la possibilità di comunicare

Credo che, nel nostro comune, possiamo dire che la discussione è aperta, che tutti si sentono, giustamente, in diritto di esprimere le proprie posizioni anche dissonanti rispetto ad altri ma che non abbiamo a che fare con comportamenti che, fino ad adesso, ci debbano preoccupare. Questo ci dà la possibilità, oggi, di essere qui a parlare, valutare, cercare punti di incontro in un clima che non esito a definire di apertura comunicativa.

Perché cercare punti di incontro, si potrebbe chiedere. La sola risposta che posso dare è che non si può chiedere alla vita, alla storia, di fare passi indietro. In psicologia sappiamo bene che una situazione scomoda ma nota tende ad essere preferita rispetto ad una situazione nuova che prevede delle incognite. Molti sintomi sono alimentati dalla difficoltà di accettare il cambiamento. Questo significa che è nella capacità di accogliere il cambiamento che sta il benessere. Non possiamo fare a meno di cambiare, cambiare vuol dire crescere.

Siamo tutti cittadini del mondo, il mondo non è mai stato così uno, per certi versi, come lo è oggi. Non parlo di facilità di raggiungere luoghi lontani da noi, in questo contesto lo sentirei svalutante rispetto alle tragedie che avvengano nel mare così vicino a noi che deve sembrare una distanza molto lunga a chi lo attraversa in condizioni tanto disagiate da portare a molti, troppi, una morte precoce; parlo piuttosto della possibilità di avere il mondo sotto gli occhi come si ha attraverso i mezzi di comunicazione e la loro diffusione planetaria. E’ evidente che ,a molti, appariamo come gli abitanti di una terra promessa altamente desiderabile. Noi che ci viviamo sappiamo che non è poi tale, che negli ultimi anni siamo attanagliati da problemi che speravamo di non avere fino a qualche decennio fa ma ciò non toglie che restiamo una meta ambita per chi decide di lasciare il proprio paese per provare a vivere qui da noi. A volte siamo un ponte verso altre mete ma più spesso siamo il luogo scelto per costruirsi una nuova vita.

Questo ci porta a vivere in comunità che sono molto diverse da quelle in cui siamo nati o cresciuti. Santa Croce rappresenta una di queste realtà ed è proprio per questo che rappresenta una sfida in cui cercare nuove modalità di convivenza .

In “Un modo di essere” (1980), Carl Rogers scrive : “Noi siamo parte di un incredibile paradosso. Da una parte, vogliamo l’autosufficienza, l’indipendenza e la privatezza. Ogni persona, ogni membro di una famiglia, vuole e “ha bisogno” di una macchina, di modo che uno non debba mai adattarsi ai tempi o alle esigenze della famiglia. [………………………….]Il nostro slogan potrebbe essere quello di Greta Garbo “Voglio essere sola”. Come ha dimostrato così chiaramente Phil Slater (1970), noi lottiamo per la privatezza e l’autosufficienza in ogni modo possibile.

Nelle comunità dei nostri laboratori, invece, si manifesta una tendenza opposta. [………] Facciamo tutto quanto è possibile per continuare questa profonda intimità che nella vita quotidiana evitiamo con accuratezza. Desideriamo che prosegua la stessa partecipazione personale, l’onesto sostegno, il confronto aperto, tutte cose che nella vita di tutti i giorni ci impegniamo così faticosamente a sfuggire.”

Credo che queste parole del grande psicoterapeuta americano siano del tutto valide anche oggi e che, in situazioni di conflitto, come è quello che, innegabilmente, esiste oggi in Italia sulle diverse posizioni rispetto all’immigrazione, questa profonda verità dell’uomo moderno, si presenti in tutta la sua drammaticità.

Dalla psicologia sappiamo che una persona caratterizzata dal percepire come minacciosi I propri diversi bisogni e le diverse parti del sé è una persona molto difesa perchè è una persona che si sente molto minacciata. Queste persone tendono a proiettare verso l’esterno e verso l’altro, e soprattutto verso lo straniero e il diverso ciò che sentono estraneo dentro se stessi.

La storia ci ha fatto vedere I rischi di questa posizione di rifiuto, intransigenza, pretesa di superiorità. La storia ci ha mostrato che posizioni individuali di questo tipo possono portare a psicosi collettive. Tra le più note e deleterie sono tristemente note il fanatismo, il razzismo ed il sessismo.

Noi ci auguriamo, sulla base dell’esperienza che, come esseri umani, abbiamo acquisito di questi fenomeni, di riuscire ad intraprendere con fiducia strade diverse, che tengano conto di una verità fondamentale che Carl Rogers ci ricorda : “abbiamo paura dell’altro ed allo stesso tempo ne abbiamo bisogno”.

Carl Rogers credeva che “I fatti sono amici” ed è sempre partito dai fatti per costruire e verificare le sue teorie compresa quella che riguarda la facilitazione della comunicazione tra gruppi in conflitto. Tra le sue esperienze in questo campo cito per tutte l’incontro di Camp David dal 6 al 17 settembre 1978 in cui il presidente egiziano Sadat e il primo ministro israeliano Begin furono capaci di liberarsi, almeno temporaneamente, dei ruoli loro assegnati e si parlarono ed abbracciarono come persone e i gruppi in Spagna dove 170 persone giunsero da 22 paesi diversi per un laboratorio interculturale. In quest’ultimo, come C. R. ricorda nel testo già citato “le persone esprimevano un’avversione generale per gli Stati Uniti e il loro imperialismo economico, un’avversione che si estendeva allo staff e ai partecipanti americani”. Queste esperienze e molte altre che da allora sono state fatte sembrano dimostrare che non è attraverso la chiusura, la mancanza di ascolto dei reciproci legittimi bisogni, che non è attraverso la sopraffazione che c’è ogni volta che qualcuno tenta di affermare il proprio modello culturale e sociale come superiore a quello di un altro, non è con queste modalità che si va verso l’integrazione e la possibilità di coabitare la Terra.

Abbiamo bisogno di educarci al rispetto dell’altro ricordando che non esisteremmo se non ci fosse un altro. La nostra possibilità di essere passa attraverso il nostro rapporto con l’altro. Oggi questi altri, molte volte arrivano da lontano.

Credo che oggi fare cultura significhi cercare nuovi modi di occupare spazi comuni senza sovvertire l’ordine esistente ma ricordando costantemente che non si può tornare indietro nel tempo, né individualmente né collettivamente, e che l’incontro “da Persona a Persona”, come dice Carl Rogers, è sempre di più l’unico incontro possibile perché è fruttuoso, sempre, per tutte le persone coinvolte. Ci arricchiamo incontrando gli altri, qualunque psicoterapeuta lo sa bene. L’altro, con la sua umanità così radicalmente simile alla nostra, perché apparteniamo tutti alla razza umana, a volte ci permette di rispecchiarci ricordandoci la nostra umanità e , con le sue differenze, amplia la nostra visione del mondo.

Qualche giorno fa leggevo un estratto da un pamphlet di John Fitzgerald Kennedy pubblicato su Repubblica del 30 agosto, che tratta il tema dell’immigrazione. Colpisce l’attualità dello scritto che dice cose che sono valide anche oggi pur con delle vistose differenze rispetto alla attuale situazione italiana . Kennedy parte da lontano, dall’esperienza che Tocqueville, giovane aristocratico francese, fa nel 1831 quando va in America per nove mesi e studia quel paese rimanendo affascinato e ”sbalordito dall’energia delle persone che stavano costruendo una nuova nazione, apprezzando le nuove istituzioni e gli ideali politici. Ma, sopra ogni cosa, rimase impressionato dallo spirito di uguaglianza che permeava la vita e le usanze di quella gente”. Questa è, a mio avviso, la prima vistosa differenza tra quella situazione e quella che noi viviamo oggi. Oggi, a fronte di un’immigrazione sicuramente consistente e sconosciuta all’esperienza dei più fino a qualche decennio fa, questo spirito di uguaglianza non c’è. Gli immigrati sono una minoranza rispetto alla popolazione locale che ha vissuti, esperienze, situazioni familiari, lavorative, sociali, profondamente diverse da quelle di chi viene da noi alla ricerca di un lavoro e, comunque , di una vita migliore di quella che viveva in altri luoghi. Questa differenza tra gli uni e gli altri rende gli obiettivi che ognuno persegue così diversi da offrire poco terreno di confronto contribuendo ad acuire le differenze. Lì dove c’è uguaglianza sul piano delle aspettative, lavorative innanzitutto, si crea la competizione, la tensione ad affermare chi ha più diritto di un altro. La mancanza di senso dell’ uguaglianza ci porta a credere poco ad uno dei sistemi motivazionali innati che ci caratterizza come uomini: il sistema cooperativo. Certo, anche il sistema motivazionale di competizione per il rango sociale è un sistema innato ma, come leggiamo in”Sistemi motivazionali nel dialogo clinico” a cura di G. Liotti e F. Monticelli il sistema motivazionale cooperativo si osserva solo in alcune specie di mammiferi, nei primati e nell’uomo. “ In alcune specie di mammiferi, in particolare nei primati e nell’uomo, è possibile identificare un quinto sistema motivazionale, che regola condotte cooperative e che è stato oggetto di estese e accurate indagini etologiche-evoluzioniste (Kappler, van Schaik, 2006; Tomasello et al., 2005; Warneken, Tomasello, 2006). Il sistema motivazionale cooperativo sembra raggiungere nell’uomo una complessità funzionale unica, e acquisire un segnale non verbale presente solo nella nostra specie: l’indice puntato a indicare un oggetto o un aspetto dell’ambiente che si intende proporre all’attenzione congiunta di un altro essere umano percepito come simile a sé nell’intenzionalità.” Sembrerebbe che rinunciare alla cooperazione sia un po’ rinunciare ad essere profondamente esseri umani o, almeno, ad utilizzare tutti i sistemi motivazionali innati di cui siamo dotati

Mi chiedo se, come dice Kennedy nel suo pamphlet, “Era questo il segreto dell’America: una nazione fatta di uomini che avevano ancora vivo il ricordo delle antiche tradizioni e si erano avventurati a esplorare nuove frontiere, uomini desiderosi di costruire da sé la propria esistenza in una società in cui c’era posto per tutti e che non limitava la libertà di scelta e di azione. [….]”

Tutto questo è possibile anche per noi solo se accettiamo alcuni postulati : che l’uomo è sostanzialmente spinto a svilupparsi in modo positivo, che siamo tutti ugualmente proprietari del pianeta su cui viviamo. Tutto questo è possibile se riusciamo a trovare anche oggi un piano di uguaglianza tra noi e le persone che chiedono di venire a vivere nel nostro paese. L’uguaglianza di cui parlo, non potendo più essere quella dei pionieri che, in massa, e così tra pari, sbarcavano in America alla ricerca di una nuova esistenza. Tutto questo è possibile se utilizziamo entrambi i sistemi, quello competitivo, che ci porta a progredire ed a migliorarci anche rispetto ad altri ma non prescindiamo dall’altro sistema, quello cooperativo che è all’origine della relazione e dell’intersoggetività. Se non ci fosse cooperazione andremmo poco lontano come esseri viventi in quanto tante cose possiamo farle, ma non da soli ed è sempre stato così nella storia dell’uomo. Non è un caso che, nella Genesi, dopo Adamo sia stata creata Eva. Non solo per procreare ma anche perché l’essere umano , da solo, non può esistere, può solo alienarsi.

Il ricordo delle antiche tradizioni che ognuna delle persone che arriva qui da noi porta con sé ,spesso non viene visto come una ricchezza culturale che può contribuire ad ampliare la nostra conoscenza della realtà ma viene vista in modo antagonistico rispetto alla realtà che conosciamo e che , solo per questo, ci rassicura. Provo grande tristezza quando vedo la confusione che viene fatta tra il rispetto delle regole, che non possono che essere quelle del paese ospitante ed il rispetto delle tradizioni culturali di altri popoli. Sono consapevole che, a volte, c’è un reale conflitto tra il rispetto della cultura ed il rispetto delle regole del paese ospitante ma questo non mi fa sentire autorizzata a pensare che chi viene a vivere in questa nazione ed in questo paese debba privarsi delle proprie radici. La cultura in cui siamo cresciuti, le relazioni che abbiamo vissuto sono parte fondante del nostro modo di essere oggi, a chi si può chiedere di non essere e di accettare di essere solo forma umana senza sostanza, quella sostanza che parte dal mondo in cui siamo nati e persino da quello in cui sono nati coloro che ci accudiscono? Possiamo essere uguali pur accogliendo le nostre profonde diversità? Io credo di si, credo che possiamo essere uguali come uomini che, al di là delle condizioni economiche, sociali, lavorative, di razza, di lingua, condividono la loro esperienza di esseri umani.

Carl Rogers, scrive in “Potere Personale” (1977) “..come esseri umani che cercano di affrontare la vita, di comprenderla, e di imparare da essa, dobbiamo attingere ai vasti fondi comuni. Non fa differenza che io sia un vecchio americano bianco di classe media e tu sia giallo, nero, comunista, israeliano, arabo, russo, giovane o donna. Se desideriamo veramente partecipare, allora c’è un’ampia area in cui è possibile la comprensione. E’ nei “pensieri della tua mente che conosci tu e nessun altro” che noi possiamo cominciare una comunicazione aperta ed intima. […….]..se potessimo comunicare concretamente. Esiste tra noi la base umana per risolvere problemi economici, ideologici, di giustizia sociale e di violenza rivoluzionaria.”

Cosa non ci permette di accettare l’altro come uguale, con uguali diritto, oltre che doveri? Quali sono i timori, non sempre confessabili e forse non sempre del tutto consapevoli, che ci portiamo dentro e che ci fanno ipotizzare di creare nuovi apartheid pur avendo visto il fallimento di quei paesi che ci hanno preceduto nell’esperienza della convivenza tra culture, razze e religioni diverse? Cosa non ci permette di fidarci degli altri e di noi stessi? Cosa ci rende così spaventati da vedere l’altro come un pericolo da cui difendersi con la forza e non con la conoscenza? Temo che, sostanzialmente, ci confrontiamo con l’emozione della nostra fragilità per fare ipotesi, anche legislative, così violente come quelle che stiamo prospettando per stabilire le nuove regole di convivenza. Chi si sente interiormente forte non ha bisogno di aggredire, chi ha paura aggredisce. Abbiamo motivi di paura? Probabilmente si ma che cosa dice di noi se alla paura siamo capaci di rispondere solo con l’uso della forza e della prevaricazione ? Credo che siamo molto lontani da quel sentirsi uguali che avvicinava i vecchi pionieri, credo che la paura di diventare minoranza e, in quanto tale, di essere sconfitti ci spaventi così tanto da farci diventare profondamente violenti. Forse se pensassimo che nessuno di noi può davvero essere sicuro del futuro della terra, anche in termini numerici e di appartenenza a razze, forse riusciremmo a cogliere che pensare a regole di convivenza che vorrei fossero applicate anche a me se fossi nella condizione in cui è l’altro, è qualcosa che ci riguarda tutti e che tutti ci avvantaggia. Per poterlo fare dobbiamo essere disposti a credere che gli esseri umani sono fondamentalmente degni di fiducia e , in quanto tali, tendono ad andare in direzioni che sono costruttive per se stessi e per l’umanità E quando questo non accade, come ce lo spieghiamo? Forse quando non accade è perché l’essere umano sta inseguendo obiettivi che lo allontanano dalla propria umanità e lo portano a perseguire obiettivi “esterni al proprio sé organismico”, sempre per utilizzare il linguaggio rogersiano dell’Approccio Centrato sulla Persona.

Desidero concludere con un’altra citazione di Carl Rogers (1980) :”La mia opinione è che dobbiamo essere tutti al servizio della volontà sociale. E se il momento coinciderà col punto in cui la nostra cultura si stancherà delle infinite battaglie omicide, disperata dall’uso della forza e della guerra come strumento per affermare la pace, insoddisfatta per la vita vissuta a metà dai suoi membri-solo allora la nostra cultura si metterà a cercare seriamente delle alternative. Quando questo momento sarà giunto, la gente non si troverà davanti al vuoto. Scoprirà che esistono dei modi di costruire comunità senza sacrificare la potenzialità e la creatività della persona. Si renderà conto che esistono i modi, già sperimentati su scala ridotta, di arricchire l’apprendimento, di muoversi verso nuovi valori, di intensificare la coscienza a livelli inaspettati. Scoprirà che esistono modi di essere che non implicano il potere sulle persone o sui gruppi. Scoprirà che una comunità può essere costruita sulla base di mutuo rispetto, valorizzando la crescita personale.”

Mariangela Bucci Bosco.

drmbucci@libero.it

Mariangela Bucci Bosco

Psicologa, psicoterapeuta rogersiana, vicepresidente dell’ Script – Centro Psicologia Umanistica di Pisa, libera professionista.

Didatta nei trienni di specializzazione in counselling dello IACP (Istituto per l’Approccio Centrato sulla Persona) rogersiano.

Si occupa di consulenza nelle scuola e di formazione. Esercità l’attività terapeutica libero-professionale a Pisa e a Santa Croce sull’Arno (Pisa).

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