Manu Bazzano è docente di psicoterapia esistenziale e rogersiana alla New School of Psychotherapy and Counselling e alla Thames Valley University di Londra. Counsellor e psicoterapeuta, facilita gruppi di meditazione Zen. Fra i suoi libri: Zen Poems, Buddha è morto, Haiku for Lovers, La velocità degli angeli
Sommario: La tradizione Zen definisce un praticante maturo come una ‘persona vera di nessun rango’. ‘Nessun rango’ indica l’incertezza dell’essere gettato nel mezzo di un mondo impermanente nel quale la ricerca del potere e del prestigio è futile. Una ‘persona vera’ evita queste trappole e risponde alla vita direttamente.
Sebbene la terapia esistenziale nel suo complesso enfatizzi l’autonomia, l’esperienza vissuta e la diserzione del surrogato dello ‘status’ (o prestigio), essa è dipesa per troppo tempo dall’idea heideggeriana di autenticità, una nozione che ri-instaura le categorie della filosofia idealista e le nozioni monistiche e totalizzanti di ‘verità’.
Possibili alternative all’idea dell’ autenticità sono le nozioni di apertura, vulnerabilità e integrità (quest’ultima intesa come riluttanza ad arrendersi alla coazione della costruzione di sistemi).
Sia lo Zen che la terapia esistenziale e rogersiana sono lontani dal discorso di manipolazione autoritaria che è alla base delle tendenze dominanti nella psicoterapia contemporanea e possono fornire ispirazione per credibili azioni di resistenza e di autonomia in risposta alle esigenze imperanti del mercato ed al pragmatismo filisteo che domina lo Zeitgeist.
La tirannia dell’autenticità
Egregio Dottor Professor Heidegger, ci terrei tanto a sapere cosa Lei abbia voluto dire con la Sua espressione “la caduta nel quotidiano” Quando è avvenuta tale caduta? E dove eravamo quando è successa?” (Saul Bellow, Herzog)
Cosa significa essere un essere umano “vero”? La risposta non è facile, dato che la visione dominante in merito, all’interno della terapia esistenziale, è stata influenzata dalla nozione affascinante e tuttavia nociva di autenticità presentata da Heidegger (1927)
Tale nozione ha determinato il modo in cui l’approccio alla terapia concepisce finora cosa significhi essere ‘davvero’ un essere umano. Il concetto heideggeriano di inautenticità è la regione di das Man, una sfera di trivialità, evasione, e mediocrità. Un’eco involontaria della nozione ben piú fertile di Alltäglichkeit –la quotidianeità – fornitaci da Lukacs (1978). Mentre per Heidegger la quotidianeità rappresenta una discesa rovinosa dalle altezze munifiche dell’Essere, Lucaks la percepisce invece come colonizzata dall’avidità e dalla meccanizzazione attuata dal capitalismo. Mentre il criterio di misura usato da Heidegger è la metafisica, la nozione di Lucaks è imbevuta di etica, giustizia sociale, e della funzione redentiva dell’arte.
L’idea di Lukacs ha trovato sviluppi fruttuosi in Debord (1973), Lefebvre (1993) e piú recentemente nella nozione, proposta da Habermas, del Lebenswelt (vita vissuta, l’esperienza della vita d’ogni giorno, opposta a ciò che lui chiama il sistema, cioè la cultura specializzata controllata dagli esperti) (Habermas, citato in Lefebvre, 1991, xxviii)
L’obiettivo principale dell’opera heideggeriana del 1927 fu di sminuire l’imperfetta ordinarietà che, secondo Karl Lowith, “va a cadere al di sotto della soglia della visione ontologica di Heidegger” (Lowith, 1991, in Wolin, 1991 pp. 156-57). L’esistenza quotidiana – che Heidegger chiama ‘ontica’ – viene percepita ed appresa come inautentica. Ciò viene successivamente sviluppato attraverso il ripudio degli eventi storici a favore di un’idea astratta di ‘storicità’ (ibid), e con la sottovalutazione della fenomenologia a mera ‘ermeneutica del Dasein” (Heidegger, 2001, p. 223).
In altre parole, i fenomeni non vengono presi in considerazione per se ma unicamente come riflesso della nozione artificiale dell’ ‘Essere’. In modo simile, gli esseri umani vengono presi in considerazione unicamente come mere ‘emanazioni’ della divinità del linguaggio (Rorty, 1989, p 11). L’idioma heideggeriano è discorso teologico privo della divinità, e tuttavia imbevuto, come puntualizzò Walter Benjamin (citato da Schroyer, in Adorno, 2003, prefazione, x), dalla cospicua aureola della sua assenza. Nel far ciò, Heidegger – una grande mente ma anche un bigotto della foresta nera secondo Richard Rorty (1989), eternamente sospettoso dell’agnosticismo e la raffinatezza dei cosmopoliti – fu per diverse ragioni il profetico predecessore di una pratica oramai comune nella psicoterapia esistenziale: cercar rifugio sotto l’ombra immaginaria di Dio una volta che ci si è sbarazzati di lui in teoria. Un fenomeno simile è l’impiego unanime del pensiero di Buber (1969; 2004) come parametro della relazione terapeutica, evitando al tempo stesso l’inalienabile contenuto teologico che è alla base dell’onnipresente formula ‘Io-Tu’.
Ai contemporanei entusiasti esponenti della ‘diversità’ e della ‘dimensione dialogica’ si presenta lo stesso problema allorchè essi tentano di piegare ai loro scopi le nozioni di alterità e incontro proposte da Lèvinas – entrambe prive di senso se sradicate dal contesto rigoroso di Lèvinas, che le vede rispettivamente collegate a Dio e al sè separato. Infatti, un apprezzamento profondo di Lèvinas riporterebbe a galla due posizioni altamente controverse: il dualismo cartesiano (poichè solo un sè separato sa immaginarsi l’infinito e l’esteriorità o l’alterità) e la rivalutazione del processo educativo come impatto dell’esteriorità invece che maieutica.
La nozione heideggeriana di autenticità non è nient’altro che un simulacro, una vuota formula totalitaria che echeggia la nostalgia del potere di un dio che fu e che non è piú, squartato sull’altare del modernismo e del post-modernismo. Tale formula risuona dei riverberi tirannici di una divinità (Dasein, nel linguaggio di Heidegger) che avrebbe dovuto salvare l’Europa e la sua cultura dalla doppia minaccia dell’oriente, – eguaglianza sociale, l’ombra sinistra dei Soviet – e l’occidente – la cultura del denaro e la superficialità dell’America. È incredibile come si continui ad ignorare il fatto che la nozione di autenticità di Heidegger venne storicizzata dai nazisti…
Apertura, vulnerabilità, e una ciliegia marcia sulla torta
Il concetto di autenticità è radicalmente diverso dall’idea rogersiana liberante di un sè piú vero, cioè piú aperto, piú in sintonia con i processi organismici. Una correlazione armonica fra il sè e l’organismo rende il sè piú aperto, vulnerabile, ed empatico; fa sì che una persona sia in grado di accettare l’inerente incertezza dell’esistenza, la rende piú cooperativa e creativa. Ma non la rende piú ‘autentica’ nel senso heideggeriano. Essere autentico è radicato in ciò che Heidegger (2001 pp 190-91) chiama ‘ontologia fondamentale’, a suo parere “non soltanto … una sfera piú elevata … o una sorta di piano sotterraneo…[ma] il pensiero che si muove all’interno del fondamento di ogni ontologia” (ibid). Nessuna delle “ontologie locali”, meno fra tutte la psichiatria e la psicologia, possono mai permettersi il lusso d’abbandonare tale fondamento. Per essere ‘vero’ devo obbedire ad un’idea di Verità. Per essere autentico, devo obbedire ad un’idea di Autenticità. Per essere, devo obbedire all’idea dell’Essere. Tali astrazioni con la maiuscola – specialmente l’Essere – sarebbero già miracolosamente dotate degli attributi della ‘cura’, dell’afflizione, e dell’affanno (Sorge). Non v’è dunque alcun bisogno che la persona autentica diventi empatica: la verità si prenderà cura dell’empatia; nell’edificio neo-idealista costruito da Heidegger, l’amore viene lasciato all’addiaccio. L’autenticità qui comporta la sottomissione all’idea di totalità nel significato che Lèvinas (1961) dà al termine- e finisce col sovraimporre all’idea piú abituale della soggettività quella dell’Essere – presentato dapprima come concetto astratto, poi gradualmente come qualcosa di assoluto e di primario (Adorno, 1973, 113).
Una comprensione acritica della nozione heideggeriana di autenticità ha avuto e continua ad avere conseguenze negative nella pratica della psicoterapia esistenziale, se l’enfasi sull’essere va di pari passo con la denigrazione del divenire, se la tacita adulazione della perfezione (dogmaticamente compresa, nella
sfera individuale, come omeostasi, salute mentale, normalità, integrazione, essere umano pienamente funzionante ecc) finisse per svalutare l’imperfezione (apertura, instabilità, o, come ci insegna Jean Genet, la ferita) che a sua volta crea estraniazione e alienazione. Tale dicotomia echeggia sinistramente nell’ossessione contemporanea con la cosiddetta ‘sincerità’ nel mondo della politica (Runciman, 2008). Il successo di personaggi altamente dubbi quali George W. Bush e Tony Blair fu dovuto in parte all’appeal populista della loro ‘sincerità’ e al ‘candore’ delle loro fedi – entrambi sostenevano credenze sincere e persino ‘di cuore’ che hanno creato devastazioni e spreco enorme di vite umane. Ma perfino i politici che ‘parlano sinceramente’, suggerisce lo storico Runciman, finiscono anch’essi col sembrare ipocriti. Egli aggiunge: “Questa danza di ipocrisia e anti-ipocrisia, il girotondo senza fine di mascherameto e smascheramento diventa profondamente frustrante e debilitante” (ibid).
Ora che la metamorfosi della politica in farsa ha raggiunto – specie in Italia – vette inimmaginabili; ora che la società nella sua interezza si è miseramente tramutata in un episodio senza fine di reality TV, la cosiddetta autenticità è una ciliegia marcia sulla torta, l’ingrediente finale che dà l’ultimo tocco alla manipolazione e la colonizzazione del quotidiano.
La terapia rogersiana può fornire un’apertura potenziale all’esplorazione della condizione umana, allo studio autonomo degli esistenti che non dipenda piú dall’influenza totalizzante di verità neutre e astratte. Ad una condizione: che essa si liberi dalla trappola ontologica, dalla prigione dell’Essere così abilmente eretta da una delle mucche sacre e divinità tutelari della psicoterapia esistenziale: Martin Heidegger.
Credo fermamente che la terapia esistenziale presenti alternative all’idea totalizzante dell’autenticità e che lo stesso valga per il ruolo dello Zen in relazione alla dottrina ed alla pratica buddhista: lo Zen non è un sentiero di trascendenza. La trascendenza può essere una trappola se usata come evasione dall’ineffabilità della condizione umana. Il pensiero e la pratica Zen sono fin troppo sottili, fin troppo ambivalenti e non si prestano alla visione totalizzante né alla consolazione trascendentale.
L’integrità come rifiuto di cedere alla tentazione di un sistema
Non vi é altra fonte di bellezza che la ferita – singolare, diversa per ognuno, nascosta o visibile, che ogni persona ha in sé, che conserva e dove si rifugia quando vuole lasciarsi dietro il mondo per una solitudine temporanea ma profonda (Jean Genet, 1979)
Bisogna ricorrere alle nozioni gemelle di vulnerabilità e integrità come alternativa umanistica alla nozione fourviante di autenticità heideggeriana.
Ciò che mi ha veramente colpito nel corso della lettura della biografia di Carl Rogers (Kirschenbaum 2007) non é tanto la conferma del suo genio di terapeuta, né il suo lavoro nel campo della riconciliazione e la pace nel mondo (che personalmente vedo come sforzi ingenuo di instaurazione della pax Americana). Quello che mi ha veramente commosso é la sua vulnerabilità come individuo, la sua apertura alle inevitabili debolezze della propria personalità. Ne emerge la figura di una persona ordinaria come me e te.
Essere vulnerabile, suggerisce il dizionario, significa esporsi ad essere colpiti, esposti alla ferita. L’origine della parola é dal latino vulnus, ferita. Forse la comunicazione genuina deriva dalla consapevolezza della ferita, dalla consapevolezza della propria inerente fragilità. Forse la comunicazione non può aver luogo “fra individui intatti” (Bataille, 1992 p. 19).
Siamo già lontanissimi dalla nozione heideggeriana di autenticità e dal suo disdegno dell’imperfezione ontica e della ‘trivialità’ umana. Ci muoviamo invece nel territorio dell’accettazione olistica, dell’integrità – compresa come interezza invece che aderenza a priori a dei principii morali.
Elogio della quotidianeità
Un esempio ci viene dal mondo del cinema. Michelangelo Antonioni una volta parlò del suo bisogno di seguire i suoi personaggi oltre momenti convenzionalmente centrali, per mostrarli quando tutto ciò che c’era da dire era stato detto (The Guardian, 2007). Molti dei suoi films ci regalano momenti rivelatori e strani durante i quali la telecamera segue i protagonisti in luoghi dove essi non sembrano piú occupare il centro della scena e tuttavia rivelano qualcosa della loro stessa umanità. Allo stesso modo forse nella terapia: quando la sessione finisce, o all’ultimo minuto, il cliente dice qualcosa casualmente, senza
pensare, forse un gesto, un sorriso, un sospiro, guarda il terapeuta… e qualcosa d’importante viene comunicato, qualcosa così intenso che non era filtrato nelle maglie del tempo ufficiale della terapia.
Cosa é triviale e cosa é profondo? È davvero possibile stabilire una demarcazione netta? Mi ha sbigottito scoprire che mi ero unito anch’io, di recente, durante una supervisione di gruppo, al coro di giudizi che unanimemente aveva giudicato l’attitudine di una particolare cliente come ‘evasiva’, ‘triviale’, e, ovviamente, ‘non-autentica’ e ‘senza profondità’. Tutto quel suo blaterare sullo shopping e il boyfriend! Dov’erano i grandi contenuti esistenziali, la paura della morte, l’incertezza del domani?
La demarcazione fra il triviale e l’autentico é artificiale. Come esseri umani, o siamo quotidiani o non siamo affatto. Troviamo un’enfasi simile nella tradizione del Buddhismo Zen. Lo Zen non é una forma di cosiddetta “spiritualità”, cioé di fuga nella trascendenza, nella nebulosa ricerca del sublime (illuminazione, consapevolezza cosmica, nirvana e altri reificati luoghi comuni ), né la cosiddetta “new-age”, cioé la sottocultura reazionaria del tutto-fa-brodo, odorante d’incenso e piena di promesse magico-bambinesche.
E l’approccio Zen é fin troppo sottile, poetico ed ambiguo per essere ridotto alle deludenti formulette della cosiddetta ‘psicologia transpersonale’.
La mente ordinaria é il Buddha
La pratica Zen é radicata nell’integrazione (semplice, ordinaria) della pratica meditativa con le sfide esistenziali di quella grande maestra spirituale nota come vita quotidiana. Nella tradizione Zen, la mente ordinaria é il Buddha. La natura-di-Buddha non é uno stato mentale immaginario che accadrà forse nel futuro (se ho sopportato abbastanza riso integrale e tofu, se ho riciclato tonnellate di bottiglie, se ho frequentato abbastanza conferenze e ritiri, se non mi sono incazzato quando qualcuno mi ha pestato i piedi durante l’ora di punta il lunedì mattina), ma invece un risvegliarsi nel presente all’imperfezione e provvisorietà di questa nostra esistenza umana.
Questo corpo é il Buddha, questa terra é il paradiso del fiore di loto. Io sono un Buddha, un essere umano ‘integrato’ nel momento in cui ho il coraggio di abbracciare appieno le implicazioni della mia condizione esistenziale.
Tale essere integrato si manifesterà nel futuro radioso e quasi irraggiungibile, o si può forse accedere a tale stato in questo stesso istante, tramite l’accettazione della vulnerabilità e dell’integrità?
Lo Zen non offre un sistema, una cosmologia, né un’epistemologia. Chi é interessato all’epistemologia soffre forse dell’illusione e della coazione a creare sistemi. La creazione di un sistema – il tenace perseguimento di un fondamento teorico che spieghi e comprenda l’imprevedibilità, l’incertezza e la meraviglia della vita-come-fluire – ciò é per l’appunto la definizione nietzschiana di disonestà o mancanza di integrità (Bazzano, 2006, Rorty, 1989). Per interessarsi all’edificazione di un sistema, si ha bisogno di una considerevole mancanza di integrità. Mi viene a mente l’osservazione cattivella di Kierkeegard nel suo diario: commentando su La Scienza della Logica di Hegel, Kierkegaard scrisse che se Hegel avesse presentato il suo libro come “esperimento del pensiero” l’avremmo potuto considerare “il piú grande pensatore che sia mai vissuto”. Siccome l’aveva invece concepito come un’opera matafisica, cioé in grado di fornire un fondamento immaginario, l’opera era meramente ridicola. (Bazzano, 2006, p 143; Rorty, 1985:105).
Avere integrità, essere cioé in sintonia con la propria imperfetta natura umana, non si riconcilia facilmente con l’edificazione di sistemi. La nostra propensione a creare sistemi e teorie é motivate dal nostro desiderio di acquietare l’ansia. Se si accetta tale ipotesi, il ruolo della teoria esistenziale ne risulta alterato: perde la sua natura di fondamento e diviene empirico e creativo. Non piú lo sforzo di fornire radici filosofiche fittizie allo scopo di riempire il vuoto lasciato dal rifiuto del modello biologico, poiché tale impresa é alimentata dalla perpetua invidia della fisica (e delle scienze naturali) che é tipica della psicoterapia fin dai tempi di Freud e caratterizzata da un senso di inferiorità nei confronti della scienza.
La terapia esistenziale trae certamente beneficio dalle opere ispirate dei filosofi dell’esistenza. Non richiede, tuttavia, alcuna ‘radice’ filosofica – ossia alcuna radice di fondamento, metafisica, o perfino cosiddetta ‘spirituale’, dato che la sua impresa tratta a tu per tu con il fluido processo del divenire, con il quotidiano, con lo splendore ordinario della vita di ogni giorno, con l’immanenza delle imperfette interazioni umane e con la profonda incertezza del vivere-e-morire.
La teoria esistenziale verrebbe allora enunciata come continua ricerca empirica, compendio di tracce provvisorie sul suolo fertile dell’organismo vivente; ricerca danzata e celebrata come risposta ispirata al doloroso e ricco lavoro con i nostri clienti in un milieu in costante cambiamento.
Come praticante Zen di molti anni e come monaco Zen, vedo la posizione inalienabilmente ribelle della terapia esistenziale e rogersiana echeggiata dal fiero impegno dello Zen verso un’indagine impavida ed aperta. Lo Zen non é un sistema di credenze. Non é ricerca del sublime e dell’assoluto ma integrazione del sublime al quotidiano, apertura delle porte della percezione all’incredibile meraviglia di ciò che normalmente consideriamo ‘triviale’. Ciò che é bekannt (familiare), non é erkannt (conosciuto) (Hegel, in Lefebvrfe, 1991, p. 1), ma mentre Hegel – e la maggior parte della cultura occidentale dopo di lui – si é adoperato a piegare il familiare allo scopo di renderlo noto, la pratica Zen ci apre all’essenziale inconoscibilità di ciò che é familiare. Tale attitudine si riflette nel rifiuto di accettare il ‘power trip’ dell’esperto, in sintonia con la ‘mente da principiante’ (Suzuki, 2006), con la freschezza del novizio che va perduta invece nel praticante esperto. L’impegno alla pratica esistenziale e rogersiana ci qualifica non come esperti ma come artisti e artigiani, nel senso che gli antichi greci davano a tale termine (Agamben, 1994:72). Il nostro lavoro come terapeuti appartiene essenzialmente alla sfera della poiesis (discorso poetico) compreso in quanto aletheia, (un disvelare che trasporta le cose da uno stato latente ad uno manifesto, invece che produzione meccanica ed ‘oggettiva’ di competenza e di risposte altrettanto meccaniche in un mondo sempre piú meccanizzato. Non la competenza dell’esperto, ma l’impegno profondo, l’assorbimento che l’artigiano dedica ai suoi artefatti.
Lo Zen ci ammonisce altresì sul carattere illusorio delle nozioni di illuminazione e nirvana, e contro i pericoli di un eccessivo attaccamento alla verità canonica: una boccata d’aria fresco per qualsiasi terapeuta. Una poesia Zen dice:
Il risveglio e il nirvana sono pali dove legare gli asini
Il canone delle scritture l’hanno scritto i diavoli
Tuttalpiú é carta per pulirsi il sedere
Niente di tutto ciò ti salverà
Ciò che é noto come ‘realizzare il mistero’
É nient’altro che aprirsi un varco
Ad afferrare la vita di una persona ordinaria
(Teishan, in Batchelor 2008)
Essere una persona: autonomia, separazione e la condizione dell’orfano.
Che cosa é una ‘persona’? Nel tentativo di rispondere a tale domanda, ho trovato utile chiedermi, con Nishida “C’é un’esperienza perché c’é un sé? O c’é un sé perché c’é un’esperienza?” Tale domanda é centrale sia alla fenomenologia esistenziale che allo Zen. Ed ecco come Nishida (1990) ha articolato tale indagine:
Mi sono reso conto che l’esperienza non esiste in quanto c’é l’individuo, ma che l’individuo esiste per via dell’esperienza. Pertanto sono arrivato all’idea che l’esperienza é piú fondamentale delle differenze individuali e in tal modo sono stato in grado di evitare il solipsismo (1990: 28).
L’individualità non é solipsismo, cioé una nozione romanticamente gonfiata di una monade isolata e solitaria gettata in un mondo alieno ed alienante, ma invece una nozione che prende in considerazione la natura interdipendente dell’essere-nel-mondo. Paradossalmente, non possiamo essere ‘individui’ senza abbandonare la pretesa illusoria di essere entità esistenti per proprio conto, ed é dalla consapevolezza della nostra non-sostanzialità che emerge un desiderio di essere in sintonia con se stessi. Nel 1980 Rogers descrisse una “persona emergente” come una persona che ha fiducia nella “autorità interna” (Kirschenbaum, 2007, p. 511). Ed aggiunse:
Persone così hanno fiducia nella propria esperienza e un profondo sospetto dell’autorità esterna. Per tale ragione, essi non vengono apprezzati da coloro che mettono la tradizione sopra ogni altra cosa (ibid).
L’individualità (compresa come indipendenza radicata nell’organismo invece che guidata dall’individualismo illusorio dell’ego) costituisce il carburante teleologico della terapia esistenziale e della terapia centrata sulla persona: l’enfasi é sull’anelito organismico di espansione e crescita aldilà dei condizionamenti tribali, attualizzando in tal modo l’ignoto potenziale. Per diventare ciò che si é, direbbe Nietzsche, non bisogna avere alcuna idea di chi si é (Bazzano, 2006).
In ciò consiste la demarcazione cruciale fra l’attualizzazione di sé e l’attualizzazione vera e propria, quest’ultima intesa come il dispiegamento senza ostacoli del divenire organismico. E ciò segna anche la demarcazione cruciale fra ego-terapia e psico-terapia, da una parte un filisteismo concretista e pragmatico piú simile alla manutenzione dei veicoli che alla cura dell’anima; e dall’altra un approccio che si occupa delle preoccupazioni inalienabili della psiche. Il primo approccio doverosamente obbedisce ai dettati del mercato invece che alle ispirazioni individuali. Il secondo, cui la sfera umanistica si rifà, riasserisce la psicoterapia come pratica etica rigorosa oltre i confini dell’ego: radicata nell’organismo, dotata di un telos il cui dispiegamento é ignoto ed inafferrabile.
Una ‘persona’ deve prima diventare un ‘individuo’, in accordo con i processi dell’organismo, via dal diniego di massa di una vita di quieta disperazione. Se la terapia esistenziale evitasse la questione cruciale dell’individualità, essa svenderebbe al mercato il suo metodo rigoroso e fiero e abdicherebbe al conformismo e alla blanda convenzionalità. Se la ‘appartenenza’ sorgesse senza gli insegnamenti preliminari della sodlitudine, senza i riti di passaggio dell’individuazione, della differenza, e dell’esilio
psicologico dai propri condizionamenti tribali, essa sarebbe sinonimo con il conformismo. La psicoterapia rogersiana si differenzia radicalmente dall’industria dei palliativi e consolazioni spicciole che contraddistingue la maggioranza di psicoterapia e counselling perché essa riconosce nell’approccio centrato sulla persona un profondo rispetto per la dignità dell’individuo e per la sua autonomia.
Diventare un individuo vuol dire partire. Il termine é etimologicamente imparentato con la parola ‘vedovo’, entrambe derivanti dal latino videre, partire (Edinger, 1972, p 163). Un altro simbolo dell’individualità é l’orfano, la rottura delle influenze dei genitori. Per Agostino, “essere una vedova o un orfano mette una persona a contatto con Dio” (Edinger, 1972: 163). Dobbiamo in primo luogo renderci conto intimamente della non-sostanzialità del sé, della sua natura fluida e contingente. Una volta che tale stadio é raggiunto, e le implicazioni assimilate, possiamo avventurarci nella ‘creazione di sé’. Troviamo simili sentieri nello Zen, nel Taoismo, e nelle pratiche orientali non dualistiche quali Advaita Vedanta, così come nell’anti-tradizione occidentale (Bazzano, 2006a) origanatasi con Eraclito (invece che con Platone e Socrate). Ciò che tali diversi approcci hanno in comune é il rifiuto di accettare la sostanzialità del sé. Il sé é variamente percepito come non esistente o fluido, e la sua solidità messa in discussione. La visione di Rogers del sé come processo echeggia tale nozione di fluidità ed é radicalmente diversa sia da nozioni ‘sostanzialiste’ che ‘relazionaliste’ (Schmid, 1998: 41-42). Allo Zen, al Taoismo, e all’anti-tradizione occidentale non interessa dissotterrare e imbalsamare le vecchie parole di pensatori metafisici morti tanto tempo fa. Una di tali parole é per l’appunto substantia, l’antica nozione metafisica secondo cui deve per forza esserci ‘qualcosa’ che abiti (stantia) sotto (sub) questo ammasso di aggregati e contingenze, così come l’idea concomitante che dev’esserci una qualche divinità/principio/semidio che tiene in piedi il mondo e fornisce un sostegno alla vertiginosa incertezza del trovarsi qui. Una ‘persona vera’ rifiuta sia l’affiliazione a un potere immaginario piú vasto che la fuga nell’eternalismo.
Emerge così una nozione di individualità, di ‘persona’ che s’avvicina a ciò che Eckhart chiamava ‘intima povertà’ (Bazzano, 2006). Nello Zen si dice di chi riceve l’ordinazione monastica nella cerimonia Tokudo che egli ‘ha lasciato la casa’: “Allo scopo di giocare liberamente nel campo del risveglio, é necessario abbandonare la propria casa”. Il testo nella liturgia continua, mentre la testa del novizio viene rasata e gli viene data una tunica da indossare:
Nulla eguaglia l’abbandono della propria dimora nel permettere che il corpo e la mente diventino uno con la Via del Risveglio. Tagliare i capelli é tagliare la radice dell’attaccamento umano, e nel tagliare i propri attaccamenti anche solo un po’, il corpo vero viene rivelato. Il cambio d’abito é fare un passo al di fuori delle illusioni del mondo e realizzare che la libertà é già all’opera (Shuke Tokudo, comunicazione verbale).
Nessun rango: essere nessuno, andare da nessuna parte.
Nessun rango indica nel Taoismo la nostra condizione di ‘cani di paglia’ di fronte alle avversità: la profonda incertezza della vita, la sua natura provvisoria, la sua assenza di fondamento, una condizione che si manifesta in mille modi, compreso, come ci ricorda Adorno (2003, p 31) la disoccupazione.
Nel Buddhismo Ch’an, sviluppatosi in Cina durante l’era confuciana, avere ‘nessun rango’ voleva dire essere davvero nessuno. L’enfasi é sull’intrinsica dignità umana – mai giustificata o aumentata dal potere, il denaro e il prestigio – ed anche sullo stato di povertà, di lutto, di esilio che é l’epicentro della nostra condizione umana. Moriremo tutti, non importa quanti libri sull’esistenzialismo e sul Buddhismo avremo letto o quante conference di psicoterapia e ritiri di meditazione abbiamo frequentato. Siamo destinati a svanire… Eppure, c’é in tutti noi un potenziale tremendo per manifestare saggezza e compassione.
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