La complessità
Cos’è la complessità? Come dice il più grande complessologo di tutti i tempi, Edgar Morin, “la complessità è una parola problema e non una parola soluzione”. L’atteggiamento di chi si occupa di complessità è sempre aperto al problema, curioso, multifattoriale, inclusivo e tollerante dei paradossi, perché nella complessità, come in natura, i paradossi convivono serenamente. Non foss’altro per queste banali attitudini, uno psicoanalista dovrebbe mantenere sempre un’ottica complessa ai problemi, anche se lavorare all’interno di questo approccio significa anche molto altro.
Prologo
C’è un’esperienza che più di tante altre mi ha permesso di riflettere sul nostro essere complessi ovvero sul nostro essere organizzati come sistemi complessi.
Correva l’anno 2008 e dopo diversi mesi di allenamenti m’iscrissi alla Maratona di Milano. Mi allenavo dalle 4-5 volte a settimana: allunghi, ripetute, percorsi di 30km, corsa leggera per recuperare, etc… Una preparazione lunga e faticosa che mi portò due settimane prima della corsa a patire il cosiddetto “overtraining”, cioè una perdita di brillantezza data dal troppo allenamento. Non è facile che mi scoraggi, così sono andato avanti nella preparazione riducendo leggermente l’intensità degli allenamenti. C’era solo un piccolo problema, quando svolgevo l’attività fisica per molti chilometri avvertivo un leggerissimo dolore all’adduttore della gamba destra. Era la mia prima maratona, quindi non sapevo bene a cosa andavo incontro, in più, a tre giorni dall’inizio il mio compagno di corse s’infortunò lasciandomi da solo ad affrontare questa piccola impresa.
L’inizio fu divertente perché per chi corre da mesi, correre è come respirare: spontaneo, semplice, macchinoso solo se ci si pensa. I chilometri scivolavano agevolmente tra le vie di Milano senza grandi apprensioni e con il piacere di assaporare una città affollata, ma per una volta non affannata. Una maratona è lunga 42 chilometri e qualche centinaio di metri, quindi di tempo ce ne vuole per farla. Peccato che al 21esimo chilometro il leggerissimo fastidio all’adduttore iniziò a farsi presente. Al 23esimo la noia muscolare diventò un dolore sopportabile, ma pur sempre un dolore. Al 24esimo insieme al dolore all’adduttore della gamba destra iniziai a sentire un leggero fastidio all’adduttore della gamba sinistra. Al 26esimo chilometro il dolore alla gamba destra era forte, mentre quello alla gamba sinistra s’era tramutato anch’esso in un dolore. Al 27esimo iniziai a sentire male alla schiena, prima a sinistra, successivamente anche a destra. Arrivai al 29esimo chilometro con un dolore all’adduttore destro, all’adduttore sinistro e più o meno tutta la schiena contratta fino al trapezio. Come vi dicevo non sono uno che s’arrende facilmente, ma in quel momento l’insieme dei dolori, la solitudine data dalla mancanza del mio compagno di viaggio e la percezione dei chilometri che scorrevano lentamente produssero una “proprietà emergente”, tutta mentale: lo scoraggiamento. Sì, mi sentivo profondamente scoraggiato e sentivo le forze diminuire, risucchiate dalla mia mente; sentivo il mio corpo nemico in questa mia piccola impresa. Cosa stava accadendo? Il corpo è come un sistema complesso dove ogni parte di esso è coordinata, vincolata e dipendente da un’altra. Così il mio dolore all’adduttore destro mi ha portato ad organizzarmi in modo differente. La gamba destra non aveva abbastanza forza quindi ho attinto più energie dalla gamba sinistra e, dopo non molto, è iniziata la sofferenza all’adduttore sinistro. Probabilmente la gamba sinistra non mi dava abbastanza spinta, così ho iniziato a contrarre la schiena per riuscire a mantenere il passo. Ciò mi ha causato una sofferenza alla parte sinistra della schiena. Non potendo più contare a pieno sulle mie gambe, ho iniziato a sforzare sempre di più i muscoli della schiena con un intensificarsi del fastidio alla schiena, dalla parte sinistra alla destra fino al trapezio. Se il corpo fosse veramente e solo una macchina complicata la faccenda si esaurirebbe qui, forse, invece il nostro essere “sistemi complessi”, ha prodotto uno stato emergente non desumibile dalla sommatoria dei dolori, lo scoraggiamento, così come lo scoraggiamento, uno stato mentale, ha prodotto una sensazione fisica: la mancanza di forze. Volete sapere come è finita? Quando mi sono reso conto che il corpo non mi boicottava ma si stava solo “organizzando al meglio per la sopravvivenza”, mi sono reso conto che io, e non più solo il mio corpo, sentivo i dolori dati da un nuova organizzazioni di leve (non più solo le gambe) che mi permetteva di continuare a correre. Che stavo cercando un nuovo modo di correre al di là della gamba destra. In quel momento le energie tornarono, anche se non ero convinto di farcela fintanto che una lepre, quelli che ti aiutano a correre a un ritmo regolare, mi ha visto e spronato a seguire il suo gruppo. Il mio accettare la mia nuova e sofferta organizzazione come la migliore possibile e il suo farmi sentire che potevo stare con lui nonostante la mia corsa storta e appannata sono stati i promotori della mia piccola impresa. La mia maratona continuò fino al termine e finì con un maldestro ma vigoroso scatto sul traguardo e una mezzoretta di fisioterapia post-gara per eliminare le contratture.
Come Sistemi Dinamici Complessi
Come ho scritto nell’Intreccio: neuroscienze, clinica e teoria dei sistemi dinamici complessi e nel saggio Alice, il porcospino e il fenicottero, l’uomo alla stregua di tutti gli esseri viventi può essere pensato come, e ripeto “come” perché si tratta di una metafora, un sistema dinamico complesso non lineare (SDC); non a caso i biologi parlano di Complex Adaptive Systems (CAS), cioè di sistemi complessi adattivi. Perché soffermarci su questa metafora? Credo che l’obiettivo sia quello di trovare un modello che ci aiuti a spiegare il funzionamento dell’uomo in toto, per poi declinarlo all’interno della psicologia, dunque anche della psicopatologia e della psicoterapia. Vorrei evitare di partire dalla patologia per desumere un modello di funzionamento dell’uomo, come in parte fece Freud, poiché ciò può comportare considerazioni erronee. Come dire, partireste mai da un tumore per studiare il funzionamento del corpo umano? In linea con questo obiettivo, il modello dell’SDC è innovativo e condiviso da varie discipline (biologia, fisica, matematica, economia, etc..). Studiando le strutture dissipative il fisico Ilya Prigogine definiva i sistemi complessi come sistemi lontani dall’equilibrio, sensibili alle condizioni di partenza, tolleranti l’incertezza sulle possibili deviazioni e aperti verso possibili direzioni. Credo di non creare lo stupore di nessuno se dicessi che queste caratteristiche possono essere tutte riviste nel sistema antropologico.
Questo modello ci fa pensare all’uomo organizzato al pari di un “sistema”, come un “tutto funzionale” (Levine & Fitzgerald, 1992), dove tutte la parti del sistema sono coordinate, vincolate e dipendenti dalle altre. Così se qualcosa cambia nel mio adduttore destro, ciò coinvolgerà il mio adduttore sinistro, la mia schiena e, perché no, anche la mia mente. Un’altra caratteristica implicita di questo modello è che non può esserci una distinzione corpo-mente, perché il sistema antropologico è un tutt’uno tra corpo e mente. “Concepire l’uomo come un sistema significa credere che pensare sia un atto corporeo non più e non meno di calciare un pallone” (Florita, 2012) e significa che la mente è incarnata (embodied), coerentemente con le recenti teorie delle scienze cognitive. “Noi siamo ciò che ci sforziamo di fare; siamo figli della nostra azione finalizzata al mantenimento di noi stessi, attraverso forme di autorealizzazione personalizzate e rese originali dai nostri stessi sforzi” (Gembillo, 2012). Sebbene possa apparire un concetto scontato, noi siamo ancora intrisi di scissioni subdolamente aderenti a un modello cartesiano, altrimenti non ci stupiremmo dell’effetto placebo, o nocebo, e non porremmo dubbi sul nostro libero arbitrio.
Per esempio, i recenti studi di neuroscienze vogliono dimostrare l’assenza di libero arbitrio tramite la scoperta di eventi cerebrali che avvengono con qualche secondo di anticipo sull’azione o su quando il soggetto riferisce di aver deciso. L’attivazione di un’area cerebrale prima della percezione cosciente della decisione, ci racconta solo di un evento “corporeo” antecedente e correlato al processo decisionale, il che non ci stupisce alla luce della teoria della mente incarnata.
“Se si parte dall’idea che l’io sia un’istanza solo immateriale (distinta dal corpo alla stregua della res extensa) allora possiamo dire che non ci sia libero arbitrio; se il mio io è pensato all’interno di un’unità necessaria mente-corpo, allora a decidere sono sempre io (che sia una parte del cervello o uno stimolo corporeo), ed ecco che torniamo ad avere il libero arbitrio” (Florita, 2012). Non mi dilungo oltre e vi rimando ai miei due saggi per approfondimenti.
Torniamo all’idea dei sistemi complessi. Complessità significa anche emergenza, cioè la presenza di comportamenti non desumibili dalla semplice somma delle parti. L’esempio classico è proprio quello degli stati mentali, perché essi non si riescono a spiegare partendo dalla somma del funzionamento dei singoli neuroni. Gli esseri viventi, nonché i sistemi complessi, producono comportamenti emergenti.
Un altro aspetto centrale è il nostro essere organizzati dall’interno (auto-organizzazione) nell’interazione con mondo esterno (eco-organizzazione). Come dice Edgar Morin, i sistemi complessi sono caratterizzati da un’autonomia dipendente dall’esterno. I recenti studi dell’infant research ci dimostrano che l’ambiente (nell’accezione più ampia) non è un nemico dal quale difendersi, come sosteneva Freud, ma una risorsa che ci complessifica. I bambini sono sistemi aperti che nascono con competenze innanzitutto relazionali ed è grazie ad esse che nell’interazione con i caregiver crescono, evolvono e si complessificano. Lo sviluppo del linguaggio è un esempio emblematico di un’emergenza data dall’apertura e dall’interazione. Noi siamo il nostro DNA, la nostra interazione con i caregiver e il nostro ambiente ma anche il nostro ambiente e i nostri caregiver sono qualcosa che noi costruiamo. Morin parla di “anelli di retroazione”. Il che significa che noi siamo il nostro ambiente e noi stessi, ma siamo anche agenti nel costruire il nostro ambiente e noi stessi. “La vita realizza e forma e modifica l’ambiente a cui si adatta. Allora quell’ambiente agisce a sua volta sulla vita che sta cambiando e agendo e crescendo in esso. Ci sono dunque delle interazioni cicliche costanti.” (Capra, 1997).
Questo significa che noi siamo anche l’ambiente che costruiamo: “Noi siamo i sarti e i modelli della realtà che indossiamo, nonostante spesso ci stupiamo di come il mondo che ci circonda sia così coerente con l’idea che ne abbiamo. È come se credessimo ingenuamente di indossare un vestito pescato a caso da un armadio, quando verosimilmente l’abbiamo costruito noi (sarti), su di noi (modelli). Non a caso incontriamo persone con abusi che si mettono in contesti abusanti, coerentemente con l’idea di relazione che hanno sperimentato, coerentemente con la loro organizzazione che ne è derivata, e che seleziona e influenza l’ambiente che si abita” (Florita, 2012). Perfino la memoria è costruita, perché, come diceva Kandel, “il richiamo della memoria è un processo creativo”. Se parliamo di complessità è opportuno pensare che interno ed esterno s’intrecciano codeterminandosi a vicenda tramite anelli di retroazione, ove è difficile cogliere la causa e l’effetto, il prima e il dopo.
Pensare all’uomo come ad un CAS (sistema complesso adattivo) significa anche cogliere che l’organizzazione che si dà il sistema è sempre la migliore possibile per la sopravvivenza, dati i vincoli e le possibilità interne, nell’interazione con l’ambiente in un dato momento. Alcuni alberi nelle foreste crescono storti perché quello è l’unico modo per carpire qualche raggio di sole, nonostante quella stortura sia la stessa che li fa rischiare di cadere e morire. A volte i sistemi antropologici sembrano delle storture, ma non bisogna scordarci mai che l’organizzazione del sistema complesso adattivo è sempre coerente con la sopravvivenza dello stesso. I miei dolori non erano l’esito di un corpo nemico, ma l’effetto di una riorganizzazione del mio sistema per continuare a sopravvivere. I nostri pazienti vanno quindi rispettati e accettati per l’organizzazione che si sono dati, perché anche se sembrano “storti” quella è sicuramente la migliore soluzione possibile. Il modello dei sistemi dinamici complessi ci aiuta a evitare la violenza del pregiudizio, in un’ottica più ampia dove l’organizzazione che si dà il paziente (anche se definita nell’ambito “psicopatologico”) è sempre una soluzione adattiva del sistema antropologico, dati i suoi vincoli e le sue risorse nell’interazione con l’ambiente in quel dato momento.
Nel momento in cui ho accettato la mia organizzazione e i miei dolori, e mi sono sentito accettato per la mia corsa storta, ho sentito che allo scoraggiamento s’è sostituita la serenità del vivere il dolore come parte della mia corsa e lo scatto finale è la testimonianza del ritrovato vigore. Carl Rogers diceva che esiste un grande paradosso: “quando giungo ad accettarmi per quello che sono, allora posso cambiare”. In parte è vero, perché questo è un fattore di cambiamento importante, paradossalmente. Un altro fattore consiste nello sperimentare alcune esperienze relazionali autentiche (e qui mi riferisco anche ai “momenti d’incontro” citati dal The Boston Change Process Study Group) che permettono di viversi con un’organizzazione diversa, ma ugualmente vitale, nell’interazione con l’altro (Florita, 2011). È evidente che in entrambi i casi l’analisi può essere un promotore del cambiamento, e l’analista è colui che attraverso l’interazione complessifica il sistema antropologico con cui si relaziona (Florita, 2011). È difficile spiegarlo in poche righe, ma spero di aver reso in parte la densità delle questioni poste.
Parole problemi, non parole soluzioni
Quello che ambivo a trasmettere è che questo modello riesce a rendere bene il funzionamento dell’essere umano perché finalmente aggiunge complessità e problemi alla lettura del nostro agire. Vi rimando ai miei saggi per saperne di più e per leggere alcune “complesse” riflessioni a proposito della coscienza, dello sviluppo del bambino e della motivazione. Lì troverete anche interessanti spunti sul paradigma della complessità rispetto ai recenti studi di neuroscienze, alla clinica e alla teoria psicoanalitica.
Nel corso degli ultimi anni mi è capitato spesso di parlare a convegni o di confrontarmi con persone che studiano la complessità e mi sono ritrovato ad appassionarmi ancora di più dell’argomento, perché attraverso questo paradigma si riesce a creare un vocabolario che permette una fluida comunicazione tra le discipline. Sono riuscito a parlare di psicoanalisi con matematici, fisici, medici, etc…sono riuscito a confrontarmi con loro uscendone arricchito e sorpreso. Forse il modello dei sistemi dinamici complessi non spiega tutto, forse la complessità non ci risolve tutti i problemi, certo è che se usata come una lingua condivisa ci aiuta ad uscire dal guscio solipsistico e autoconvalidante della psicologia e della vecchia psicoanalisi. A me piace pensare che questo sia il fine nobile e arricchente della sfida della complessità. Amo pensare alla complessità come ad un vocabolario che mi permette di dialogare con altre discipline, che mi permette di “non avere una soluzione” ma di pormi problemi. Per questo quando parlo di complessità posso parlare di una maratona, di un adduttore, di Morin, di memoria, di Prigogine e delle strutture dissipative, di biologia o di Alice poiché “l’idea di fondo non è quella di districare i fili sottili che legano l’essere umano, di ridurli in spaghi uniformi, ma di intrecciarli in modo da ordire una trama complessa, che è la vita, che è l’essere vivente. L’essere vivente come un sistema dinamico complesso” (Florita, 2011).
Bibliografia
Bocchi, G., Ceruti M. (1985), La sfida della complessità, Bruno Mondadori, Milano.
Boston Change Process Study Group (The), (2010), Il cambiamento in psicoterapia, ed. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012.
Capra F., (1997) La rete della vita, trad. di C. Capararo, Rizzoli, Milano.
Florita, M., (2011), L’intreccio: neuroscienze, clinica e teoria dei sistemi dinamici complessi, Franco Angeli, Milano.
Florita, M., (2012), Alice, il porcospino e il fenicottero – Complessità e Psicoanalisi, Guaraldi Editore, Rimini.
Gembillo G., (2012), Dove va la vita?, Guaraldi Editore, Rimini.
Levine, R.L., Fitzgerald, H.E.F, (1992), Analysis of Dynamic psychological systems. Plenum Press, New York.
Marcello Florita
Marcello Florita è psicoterapeuta e psicoanalista, socio della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione (SIPRe) e consulente dell’Ospedale San Raffaele ed è autore di numerose pubblicazioni scientifiche internazionali e dei volumi: L’intreccio: neuroscienze, clinica e teoria dei sistemi dinamici complessi, edito da FrancoAngeli, e Alice, il porcospino e il fenicottero, edito da Guaraldi Editore, nato come sfogo cartaceo del Festival della Complessità. E-mail: www.MarcelloFlorita.it ˗ florita.marcello(at)hsr.it