Oggi che la psicoanalisi estende l’interesse per l’inconscio a dimensioni al di là dell’area rimotiva, arrivando ad allentare il legame tra interpretazione, quale atto che illumina il significato personale del paziente, ed efficacia terapeutica pare di poter constatare in psicoanalisi relazionale, ma anche in larga parte degli altri approcci, una progressiva tendenza degli analisti ad orientarsi verso il vissuto del paziente nel ‘qui e ora’ e ad attingere al conoscere fenomenologico per contattare la relazione sé con l’altro. A partire da questa condizione, che definirei un versante dello stato presente/futuro della psicoanalisi relazionale, vorrei provare a considerare, prendendo spunto da frammenti di una situazione clinica, alcuni aspetti connessi alla messa in discussione della separabilità del linguaggio dall’esperienza.

Teresa, è una giovane donna di 32 anni, che chiede di fare un’analisi perché si sente profondamente incapace ad impegnarsi con costanza nei suoi progetti, dice di sentirsi ‘impantanata in una sorta di immobilismo’ con la dolorosa sensazione di non ‘afferrare’ la propria vita. Teresa ha una corporatura robusta, un po’ sovrappeso, riccioli scomposti che ricadono sul volto, assolvendo al compito di tenerlo per lo più nascosto. Indossa solo calzoni con su maglie informi, scarpe da ginnastica e non porta borse, perché la ‘impicciano’.

Nell’infanzia e nella giovinezza, ha fronteggiato la relazione con il padre attraverso quella che lei chiama la strategia dello “spegnere il cervello”, ovvero interrompere automaticamente le proprie iniziative per evitare di far scivolare il padre in comportamenti violenti, a lui facili quando “non era in giornata” e incontrava le resistenze dei famigliari alle sue richieste. Così, come spesso accadeva alla madre quando voleva farsi le sue ragioni con il risultato di essere “messa al muro” da lui, nel senso che veniva sbattuta contro il muro o fisicamente appesa all’attaccapanni di casa. Teresa giudica i passati tentativi della madre di rendersi visibile con le sue idee, come irresponsabili sfide al padre, minacce alla già precaria condizione relazionale del quotidiano famigliare, che aumentavano in lei e nella sorella, minore di quattro anni, il senso di vulnerabilità e di solitudine.

In coincidenza con l’inizio dell’analisi, Teresa mi annuncia d’aver intrapreso una dieta, mi spiega che è l’ennesimo tentativo di una scelta mai portata a buon fine; questa volta il protocollo le è stato dato dalla sorella, che lavora come nutrizionista. Rapidamente la scena analitica viene saturata dalle vicende ruotanti intorno alla dieta, che seguono una precisa sequenza: un’iniziale attenzione per i cibi che le sono stati permessi, una lieve sensazione di soddisfazione legata al pensiero del procedere, l’emergere del sentimento di costrizione associato al dover inghiottire proprio quei cibi, per arrivare, infine, al puntuale ‘sbroccamento’, come lei chiama il deragliamento dall’osservanza della dieta.

Ogni occasione di scelta evidenzia come Teresa trovi la soluzione sul registro dicotomico di adesione – esclusione, che la consegna al vissuto di affondare nella soggettività dell’altro, attivando nuove sensazioni di invasione e il bisogno di contro agirle attraverso comportamenti oppositivi. Il modo in cui è organizzato il senso di sé con gli altri risulta coartare la paziente in soluzioni rigide e pervasive, che rendono inconsistente la sua possibilità di porsi attiva per misurarsi con la specificità del proprio esserci, senza essere sommersa dalla minaccia della rottura della relazione con l’Altro. Ciò porta Teresa a mantenersi molto vigile sul polo esterno, creando un restringimento dello spazio dialogico di esplorazione dei significati dell’esperienza personale, che la rende fragile nell’ ‘afferrare chi è e cosa vuole’.

Tra le diverse possibili letture che possono essere ipotizzate circa la decisione di Teresa di intraprendere una dieta, intraprendendo la sua analisi, scelgo di considerare la sua iniziativa come manovra inconscia diretta a rendere a sé stessa accessibile e sostenibile il nostro spazio d’incontro, dunque regolare sé stessa nella tensione tra la centratura sull’organizzazione esistente e il bisogno di cambiamento. Abbiamo imparato a conoscere (attraverso la visione dei sistemi dinamici), come l’organizzazione identitaria abbia bisogno della destabilizzazione per muovere verso un modo diverso da quello abituale, ma al tempo stesso, il prerequisito per poterlo fare è la sicurezza.

Penso che la paziente operi per orientare il nostro sguardo su un focus ben preciso, così da circoscrivere il nostro essere insieme entro i confini della versione familiare di sé: Teresa è esperta del suo andare e venire lungo le diverse sequenze che dall’insorgere dell’iniziativa la portano allo ‘sbroccamento’, incontrarmi entro la soluzione consolidata di sé, seppure non utile al suo divenire, attenua l’ansia di viversi alla mia mercé, rendendo tollerabile l’affacciarsi alla relazione analitica.

La difficoltà di Teresa di ‘vedere’ sé stessa mantenendo il contatto con l’altro, senza scivolare in una soluzione polarizzata, si palesa presto nel nostro lavoro in un modo particolare: verso la parte centrale dell’incontro, dopo che tra noi gli scambi si sono fatti più intensi, noto che Teresa è solita incominciare a sbadigliare oppure ha rapidi abbassamenti delle palpebre. Dopo qualche seduta in cui questo si ripete, chiedo alla paziente che sensazione avverte: ” … abbiamo detto cose importanti, cose che mi toccano … ma ora non so … mi prende sonno, mi viene da chiudere gli occhi … da distrarmi … sarà il mio solito modo di non muovermi! … “. Pur mantenendo l’attenzione al ‘suo solito modo di essere’, quale organizzazione data derivata dalla sua esperienza passata con l’esito giocato tra adesione e ‘sbroccamento’, indirizzo l’attenzione a come la paziente stia vivendo ciò che accade nella nostra relazione e ipotizzo che ‘chiuda gli occhi’ all’essersi sentita impegnata e coinvolta con me, all’essersi resa attiva verso il bisogno di essere toccata, raggiunta, all’aver contribuito a facilitare la mia comprensione e a far avanzare il lavoro. Vissuti che la rigida codificazione scissionale sottraggono alla possibilità di sondare liberamente per elaborare nuovi significati, attraverso il nostro contesto relazionale.

Quanto qui mi interessa riguarda, non tanto il carattere coattivo dei pattern relazionali che la paziente perpetua nella nostra relazione, ma favorire quella ricerca di contatto che Teresa avvia, aiutandola a procedere, invece che distrarsi da questo stato di sé e ritirarsi nel sonno. Mitchell ci ha indicato, che possiamo considerare la sofferenza psichica come un fallimento dell’immaginazione a opera dei vecchi vincoli che restringono l’orizzonte di senso nelle condizioni di ripetitività del sintomo, sollecitare la curiosità di Teresa ad intravedere come la ripetizione del ‘suo solito modo’ possegga anche l’innesto emergente della ricerca di modi altri di esistenza, lo ritengo potenzialmente proficuo per riattivare la sua partecipazione alla negoziazione intersoggettiva dei significati. Così, guidata dalla sensazione di dovermi destreggiare nel resistere al riduzionismo messo in atto dalla paziente e che la porta a semplificare la complessa tessitura della sua esperienza nel vissuto di esserci ‘nel suo solito modo’, dico a Teresa che potremmo pensare che nel suo ‘chiudere’ sia contenuto anche il bisogno di procedere passo a passo per poter arrivare a sentirsi a suo agio con me e con quello che facciamo, ho l’impressione – aggiungo – che lei tenda, in modo inconsapevole, a inghiottire quello che ci diciamo, togliendo spazio al suo bisogno di assaggiare i miei ingredienti e di farmi assaggiare i suoi, per poi vedere cosa fare insieme. La paziente mi risponde: ” Quello che ha detto mi fa venire in mente l’orologio a cucù che ho in casa, la porta di scatto si apre e di scatto si chiude, come il mio solito modo di essere, che mi ingabbia e penso che l’uccellino non ha mai il tempo per vedere cosa c’è nella stanza, anche se è sempre lì … insomma, sento che quanto è fuori lo butto giù inghiottendo, senza darmi un po’ di tempo… … A: ” già … prendersi un po’ di tempo…” P: “… sì … mi prende la sensazione che non è possibile far assaggiare ciò che è mio … senza aspettare di vedere se ci sarà una sorpresa, come andranno davvero le cose …”. A: “… ora mi sta facendo assaggiare qualcosa di suo …”. P: ” da qualche parte lo sento … sì, sono un po’ fuori dal cucù … ma, é come se il corpo fosse là, appeso al muro… (fa una piccola pausa, poi si stringe in sé e mette entrambe le mani sulla pancia, dicendo a voce bassa) … prendere corpo … è spaventevole … mi sento come una lumaca senza il guscio … però mi sento eccitata …” A: ” forse, l’eccitazione di una sorpresa …” P: ” Pam! Sono venuta giù a terra … “.

‘Quello che ha detto mi fa venire in mente …’, enunciato da Teresa, così come molto spesso accade di dire ai pazienti, lo ritengo espressione del lavoro teso a contaminare l’ordinaria soluzione dell’esperienza di sé, in questo caso rigida, ingabbiante, attraverso ciò che è stato intravvisto nell’esperienza con l’analista, per Teresa ciò che avviene nella stanza-relazione, come movimento teso ad articolare in tensione dinamica le diverse organizzazioni esperienziali e funzionale ad incrementare un senso più autentico di sé. La concentrazione iniziale sul suo solito modo di essere, maneggiata come statica sintesi di sé, è attraversata da instabili spiragli di nuove opportunità di pensiero, nutrite dalla pratica dialogica: ‘darsi del tempo/assaggiare’, ‘poter essere sorpresa’, ‘metterci del suo’, ‘prendere corpo’ …

Penso che aver tenuta aperta la mente oltre le certezze predefinite della paziente, dove lei è abituata a sostare, abbia permesso di non trascurare quelle aree di “impensabilità”, quelle zone in cui la sensazione non si è fatta ancora pensiero e non riferibili a un inconscio rimosso, permettendo di catalizzare quella traccia di sé con l’altro appena emergente e presente come processo opaco ed interrotto, indice di modi alternativi di porsi. Aspetto che rimanda all’interfacciarsi tra sapere implicito e quello riflessivo-verbale, al quale la psicoanalisi sta progressivamente rivolgendo una sempre maggiore attenzione, impegnata a comprendere come l’analista possa raggiungere e modificare “la realtà che sfugge alla parola”, secondo Heidegger, attraverso una visione contemporanea che sappia schivare tanto la “mistica del preverbale” (Martini, 2009) che il riduzionismo linguistico. Sono del parere che proprio l’attuale riflessione intorno a un “sapere incarnato”, che rende possibile pensare al linguaggio e alle forme simboliche di significato come intrinsecamente radicate nei processi impliciti, possa spingere il nostro sguardo ben oltre la discussione sulla necessità o meno di mettere in parole l’implicito, per un cambiamento significativo e duraturo.

Piuttosto l’idea di un innesto emergente del verbale sul sapere implicito concorre a riorganizzare la visione tradizionale con la quale in psicoanalisi concepiamo profondità e superficie, inoltre ci spinge a testare le risorse del linguaggio relative alla sua capacità di connettersi affettivamente e sensorialmente alle mappe di esperienze primarie significative e di trasformarle, ossia lavorare per recuperare alla parola il suo senso vissuto. Possiamo contare sulla forza poietica della parola, ovvero sulla sua capacità di agire, di essere efficace, nel mondo di chi l’ascolta, con Bion possiamo ritenere che la parola non sia un sostituto dell’azione, ma abbia la stessa immediatezza e forza dell’azione.

L’ ‘inghiottire’ proposto a Teresa è entrato in risonanza con quell’aura sensoriale-affettiva che impregna il suo preriflessivo ‘modo di essere con’ per assenza e che ritorna in gioco nello spegnere, nel chiudere, nell’interrompere, nel disattivare; l”assaggiare’ ha impigliato il terreno germinale del suo essere presente nel mondo, fendendo l’immobilismo di un corpo messo al muro e mettendo in moto la fattibilità di sé come soggetto attivo della propria esperienza. Teresa può incominciare a vedersi attraverso un in-solito modo di essere, avverte che fuori dal cucù-gabbia non ha corpo, si abbozza il contatto con l’aspetto dispotico della soluzione storica identitaria, che si raffigura quale unica soluzione d’essere, come suo unico corpo, mentre affiora la prospettiva di ‘metterci del suo’ per rinegoziare il senso della sfida relazionale.

Mi sembra opportuno tener conto che quanto viene creato nel campo della stanza d’analisi è ‘uno’ degli esordi possibili, nel senso che il lavoro non procede solo per un’ immissione di soggettività del paziente, ma vi concorre anche quella dell’analista, perciò quanto evolve è contestuale al campo intersoggettivo paziente-analista, anche se le “linee guida” della prospettiva di senso appartengono al paziente. Ciò ci rende sensibili a parlare di creazione di significato piuttosto che di traduzione, dato che quanto emerge non è dato a priori, ma evolve come aspetto della relazione della diade.

Desidero mantenere in evidenza che per me valorizzare l’importanza della ricerca di un linguaggio idoneo a presidiare la familiarità tra esperienza vissuta e dimensione verbale, è funzionale a facilitare e nutrire le possibilità di essere ancora a venire, piuttosto che evocare ciò che è stato. In tal senso, l’emergenza del virtuale, del non-familiare nel familiare, ovvero nel solito modo di sentire e di pensare del paziente, ha un effetto d’impatto perturbante, non perché si tratti di desideri che sono stati prima vissuti nell’infanzia e poi rimossi, ma perché il paziente si accosta ad aspetti di sé mai sufficientemente pensati prima; così accade a Teresa nel pensare al suo ‘prendere corpo’, che la porta a sentire la spaventevole ed insieme eccitante sensazione di viversi senza contenitore/gabbia/guscio. Quanto è ben colto da Antonio Di Benedetto, quando afferma: “Proprio questo duplice aspetto inquietante/rasserenante, disintegrativo/integrativo, dona un particolare connotato alla vera emozione estetica, che non è mai puro e semplice piacere (…) ma è sempre, in una certa misura, turbamento”.(Di Benedetto,2002, p.78)

Le concezioni di sviluppo mentale oggi a disposizione e le formulazioni di inconscio alle quali la clinica e le ricerche scientifiche del nostro tempo si riferiscono, convogliano a considerare come la funzione del linguaggio nel lavoro analitico abbia da estendersi fino a generare un sapere estetico, un pensare il sentire, per incontrare il paziente il più possibile nella sua integrità esistenziale, attrezzandoci per contattare le sue molteplici e contemporanee possibilità di attribuzione di significato, rappresentazioni della vasta gamma di esperienze simboliche e subsimboliche. Nella tradizione psicoanalitica autori come Bion e Loewald, hanno colto, anticipato e sviluppato l’interesse per il movimento bidirezionale tra pensabile e ciò che resta percezione corporea ‘indigerita’, sollecitando l’analista ad affinare la sua ricettività estetica.

Per Loewald le parole: ” Sono incarnazioni sonore e grafiche dell’attività simbolica stessa, elementi non solo di esperienza, ma anche dell’attività di esperire. Il linguaggio deriva il suo statuto privilegiato nell’ambito del simbolismo dal fatto che è funzione e intenzione primaria delle parole quella di fornire, di essere un ponte tra elementi di esperienza diversa da esse e di operare connessioni tra questi elementi” (Loewald,1988,p.63). Come clinici siamo chiamati ad avventurarci alla conoscenza del mondo soggettivo proprio attraversando quei ponti e potenziandoli, impiegando le parole non tanto per inseguire l’ampliamento della consapevolezza esplicita, ma collaudare il potere del linguaggio nell’attivare nuove giunzioni tra i diversi sistemi mentali, favorendo un processo creativo nella mente del paziente. In quest’ottica, l’interpretazione psicoanalitica si delinea essa stessa come fatto creativo: sentire ciò che potrà essere, non la ricerca di eventi passati, ma “di un pensiero che verrà” (cfr. Di Benedetto,2000).

Bibliografia

Di Benedetto A. (2000) Prima della parola. L’ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell’arte. Milano:Franco Angeli.

Di Benedetto A. (2002). Il perturbante estetico come esperienza bi-simmetrica (Escher e Magritte). In: Bria P., Oneroso F., a cura di, Bi-logica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico. Milano:Franco Angeli.

Loewald H.W. (1988). Trad.it.: La sublimazione.Torino: Bollati Boringhieri, 1992.

Martini G. (2009). Nuove prospettive sul funzionamento mentale inconscio e loro riflessi nella pratica clinica. In: Moccia G.,Solano L., a cura di, Psicoanalisi e neuroscienze. Risonanze interdisciplinari. Milano:Franco Angeli.

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