Prefazione

L’articolo di Valentina Ciampi sulla compagnia teatrale “Fanny & Alexander”, che trae spunto dalla sua tersi di laurea, è uno spaccato di conoscenza di un’esperienza teatrale tenace, nata successivamente e sopravvissuta alle “morti” degli anni Settanta e che vede il teatro non come una fruizione passiva e “pessimista” da parte degli spettatori, ma come un tentativo di attiva partecipazione della riflessione dello spettatore su di sé attraverso, l’esperienza estetica e l’ “arte del vedere”.
Quando entriamo in questo campo (e lo faremo anche nel prossimo numero di SCRIPT riflessioni – i campi della soggettività) c’è sempre il rischio di rimanere in un territorio astratto, dove valgono più le riflessioni degli autori o degli studiosi che la realtà di fatto.
È ben difficile sapere come lo spettatore può partecipare in maniera attiva ad uno spettacolo teatrale, se non ipotizzando una sua “formazione” come “spettatore”, analoga a quella degli autori o degli attori.
E qui l’utopia regna sovrana, anche se carica di stimoli profondi.
Seguire l’invito di Valentina Ciampi, visitare il sito di “Fanny & Alexander”, ma, soprattutto, vedere un loro spettacolo, veicolerà quell’esperienza diretta che è parte di tutte le arti della visione e dell’azione.

«Il teatro di Fanny e Alexander [1]: una proposta politica allo spettatore»

Valentina Ciampi

Ad una semplice constatazione della situazione che attualmente offre il panorama teatrale italiano, si può osservare una distinzione, oramai nota e sempre più esacerbata: da una parte il teatro cosiddetto “di prosa”, quello che i direttori della maggior parte dei teatri nostrani (e non, ahinoi!) si ostinano a credere sia l’unico a portare nelle sale considerevole pubblico (non spettatori, si badi bene, ma pubblico) e dunque considerevole denaro (ma sarà poi vero? Sul “considerevole” poi…); dall’altra il teatro di sperimentazione.
Ora, che il teatro di sperimentazione non si occupi di prosa, soprattutto ai giorni nostri, pare alquanto fuorviante ed anacronistico. Quali allora le possibili connotazioni di tal coté artistica?
Tra le tante che molti potrebbero elencare, motivare e storicizzare in maniera ben più competente della sottoscritta, pare innegabile, nel risalire all’etimologia della qualificazione, l’idea del ricercare, dello sperimentare appunto, il che implica dedizione, passione e studio degli oggetti del proprio interesse.
Trattandosi di teatro ed avendo dunque a che fare con un tipo di ricerca che se vuol comunicare non può costituirsi come autoreferenziale, diviene innegabile la necessità della considerazione (e di una considerazione primaria) del principale interlocutore di tale comunicazione: e non si ha a che fare con un impersonale destinatario-vaso-recipiente-recettore passivamente imbevuto, bensì con un potenziale nuovo emittente (nella migliore delle ipotesi!): lo spettatore.
Si parla di un dialogo, quello tra scena e platea, tra produttore e fruitore, tra persona e persona (e le parole pesano), che a tutt’oggi appare più spento che mai: a dispetto di tanta sperimentazione passata, ciò che resta è l’ombra di un coinvolgimento che in un passato recente [2] foriero di “partecipazione” su vari aspetti della socialità, forse aveva avuto un breve momento di vita sui palcoscenici occidentali (anzi: più spesso, e non a caso, fuori dai palcoscenici).
È sul coinvolgimento attivo dello spettatore che punta Fanny & Alexander, in una maniera calata in una sensibilità che è quella peculiare alla bottega d’arte del gruppo e all’interno di un contesto che non chiede una forzosa partecipazione fisica che potrebbe facilmente trascolorare in malcelato imbarazzo del malcapitato di turno.
Fanny & Alexander invoca ed esige una presenza, sia pur mentale, imprescindibile per il realizzarsi dell’atto teatrale. Lo fa lungo l’arco di tutta la propria ultradecennale carriera, ma vi si appunta in particolare da quando si trova a scandagliare le pieghe del pluristratificato Ada o ardore [3], di Vladimir Nabokov (e sono ormai tre anni) [4].
Lo grida in maniera disperata, esasperata, specie in Ardis II, uno spettacolo che in questo senso è diventato quasi più un appello che una semplice proposta, come recita il titolo dell’articolo.
La consonanza col romanzo è stretta, tanto che si rinviene nell’opera di Nabokov un intento dello stesso tipo nei confronti dell’interlocutore: gli indizi per il lettore sono disseminati tra le righe di una scrittura densa e affascinante, dai colori ai nomi ai giochi di parole, fino ai temi più propriamente concettuali che attraversano l’opera, continuo è l’imbeccare, l’intrigare nella rete di una tela che attanaglia nella rilettura, in quella che non ci mette molto a trasmutare in fame morbosa ed erotica: un leggere e rileggere incessante e inappagato, tanti si rivelano i sensi, tante le forme, i rimandi intertestuali ed intratestuali di un’opera che è enciclopedia di un mondo fantastico in cui immergersi fino ai pori delle dita dei piedi.
Ardis II prende forma come concreto rifrangersi di tale pluralità e polisensorialità: la figura retorica principale (perché se uno spettacolo è coerente, si può rinvenire una stessa cifra che lo rende organico e che si basa su un linguaggio o su un modo del linguaggio, che non è solo linguaggio verbale, ma si fa anche musica, scena, corpo e visione) è la sinestesia.
La scenografia è composta da cubi in cartone, sui lati dei quali sono immagini fotografiche che ritraggono parti d’interni e di esterni di un’abitazione belga in stile Art Déco. I cubi vengono traslati su se stessi e spostati lungo il palco, in modo da comporre ad ogni movimento nuove immagini, nuovi ambienti, seppur mai del tutto completi. A dar vita a tali mutevoli paesaggi sono gli attori, dall’interno degli stessi cubi, visibili solo in modo parziale attraverso delle piccolissime fessure praticate sulle facce dei moduli: ora sbuca un occhio, poi un orecchio, parla una bocca, spunta una mano, fuoriescono braccia o gambe a seconda della situazione.
Il dettaglio si dissemina nel dialogo: intessuti nella trama verbale sono i rebus ed i giochi di parole, che dei video, retroproiettati in 16 mm su due schermi posti al di sopra di un blocco di cubi centrale, ripropongono in una visione che ammanta il rebus della dimensione temporale, trovandosi in tal modo a rinnovare la forma di una figura enigmistica tanto popolare e di largo consumo.
“Popolare”: la doppia faccia dell’universalità e del largo consumo, del topos e della “cosa nota”: Fanny & Alexander si appoggia ad una forma riconoscibile e “partecipabile” da tutti e veicola una storia propria, pur tuttavia senza offrire una soluzione unica, o meglio: offrendola, ma aggiungendovi con cortesia ed amabile disponibilità la proposta di una visione fatta in proprio.
Lo spettatore si trova chiamato a ricomporla la visione, a seguire i brani dei dialoghi, a raccogliere le sillabe snocciolate e disseminate, a cercare i pezzi dei corpi burattini.
Una difficoltà che non vuol far altro che sottolineare ed auspicare l’emergere di una prolifica tensione, che invocare uno sbattere di ciglia, un protendersi avanti per capire, per giocare a vedere, a sentirsi vivi e a ricreare…
Scrive Ernst Kris:

Col maturare del giudizio, possiamo imparare a valutare le opere d’arte secondo la reazione che esse suscitano in un pubblico numeroso o ristretto, contemporaneo o non contemporaneo, vale a dire secondo il loro grado di sopravvivenza artistica. Abbiamo l’impressione (non però la certezza) che la sopravvivenza dell’opera d’arte non dipenda dal grado di esattezza con cui la reazione del pubblico ripete l’esperienza del creatore ma, tra gli altri fattori, dall’efficacia dinamica dell’esperienza stessa sul pubblico, e quindi anche dal livello di attività che essa induce [5]. […]
La creazione estetica è rivolta a un pubblico: è estetica soltanto quella autoespressione che è comunicata (comunicabile) ad altri. […] Quel che diventa comune all’artista e al suo pubblico è l’esperienza estetica in se stessa, non un contenuto preesistente. […] La comunicazione estetica non risiede tanto nell’intenzione di partenza dell’artista, quanto nella successiva ri-creazione della sua opera da parte del pubblico. E questa ri-creazione si distingue da una semplice “reazione” all’opera d’arte, appunto perché la persona che risponde contribuisce essa stessa allo stimolo che determina la sua risposta [6].

Valentina Ciampi

E-mail: valentina.ciampi@poste.it

NOTE:

[1] Fanny & Alexander, compagnia teatrale che preferisce definirsi “bottega d’arte”, ha sede a Ravenna, nella fantastica magione di Ardis Hall. Per chi fosse interessato a conoscere i lavori attuali e passati del gruppo, ad interagire con gli artigiani, a spiluccare tra le riflessioni che offre l’interessante rivista on-line Ardis monthly, il sito internet di riferimento è fannyalexander.e-production.org

[2] Mi riferisco alle sperimentazioni degli anni ’60 e alla diffusione a macchia d’olio di gruppi teatrali che si ebbe negli anni ’70.

[3] Vladimir Nabokov, Ada o ardore, Adelphi, Milano, 2000.

[4] Si conclude nel giugno 2005, con il debutto di Vaniada, ultima realizzazione della compagnia, il progetto triennale che ha attraversato la suddetta opera letteraria, assumendo varie forme spettacolari (spettacolo, performance, installazione, concerto): Ada, cronaca familiare.

[5] Kris, parlando di efficacia dinamica” e di “attività”, si riferisce all’attività psichica, agli spostamenti delle cariche d’energia tra i sistemi psichici. Nelle sue Ricerche psicoanalitiche sull’arte egli spiega come “dagli studi piuttosto generici” che sono stati fatti sull’esperienza estetica e sugli spostamenti di livello psichico che accomunano artista e fruitore, risulti in quest’ultimo un processo psicologico invertito rispetto a quello sperimentato nell’atto della creazione, ma comunque affine: in una prima fase, soprattutto passiva, l’io diminuisce il controllo, lasciando campo aperto alle interazioni dell’es e creando una situazione in cui è l’opera d’arte a dominare il pubblico, successivamente, l’io ristabilisce il controllo sul flusso dell’energia psichica attraverso l’esperienza della ri-creazione.
Il fatto che con tale citazione ci si riferisca ad un campo d’indagini così specifico come quello psicoanalitico non intende circoscrivere il discorso sulla partecipazione dello spettatore in tale ambito (o non esclusivamente): vuol trattarsi di un esempio, di uno spunto di riflessione, in quanto ad esser al centro dell’attenzione è comunque una risposta dinamica da parte del fruitore di un’opera d’arte, dove con “dinamica” non ci si vuol riferire ad un muoversi del corpo ma ad un muoversi del cervello.

[6] E. Kris, Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi, Torino, 1967, pagg.

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