Prefazione
Al sottoscritto tocca la prefazione su se stesso. Paradossalmente e ironicamente è come scrivere il proprio epitaffio (abitudine antica, dismessa con la fobia tutta occidentale a pensare al dopo la vita). Artifici retorici a parte gli “Strumenti del vedere”, in questa occasione vogliono sottolineare, ancora una volta (con “Io e gli altri”) la necessità morale dello psicoterapeuta di avere nei propri interessi (teorici e teorizzabili, pratici ed applicabili) il campo aperto della società e della politica, intese come l’acqua in cui necessariamente nuota il soggetto (il nome è un po’ asettico, ma si parla di persone). Ci piace poter citare alcune parole che, puntualmente ed esattamente, sottolineano questo aspetto etico-teorico della professione di psicoterapeuta: “Non tutto avviene nella stanza della terapia, c’è qualcosa che io mi porto da fuori, che è in me, che mi accompagna. Non tutto è interpretabile, non questo. Questo è dato, è altro: il primo comandamento del rispetto, la libertà individuale, la responsabilità di sé del soggetto, l’autodeterminazione.
Ma come li teorizziamo e soprattutto: sono sottoposti,questi principi, agli stessi criteri di critica, di riflessione, supervisione, formazione permanente?
Non mi interessa tanto stabilire qual è l’ “altrove” da cui ognuno come persona ritiene di ricavare i propri principi etici, mi interessa come terapeuta che essi siano teorizzabili confrontabili, sottoposti alla stessa verifica alla quale sottoponiamo le nostre convinzioni metapsicologiche.
E, di conseguenza, mi chiedo:può un terapeuta che si riconosca in questi principi etici non occuparsi della perseguibilità per se stesso, nella società e nella storia in cui vive, degli obiettivi di libertà, autodeterminazione, responsabilità di sé che come professionista si prefigge?”. Roberta Giampietri, nella rubrica Punto e a capo in “Il ruolo terapeutico”, direttore Sergio Erba, editore Franco Angeli, n. 99, Maggio 2005).
Non soltanto quindi un mondo altro da osservare, ma un insieme di cui lo psicoterapeuta è soggetto partecipante e non asettico osservatore al di sopra delle parti.
“Diabete e stili di vita” di Stefano Paolo Fratini porta in sé un punto di vista semplice, ma difficile da affermare nel mondo monopolizzatore medico: la salute non è esclusivo campo di una scienza asettica e oggettivante, ma coinvolge direttamente il soggetto sofferente.
È un insieme umano, esistenziale che soffre la malattia e che non può attivare le risorse per questa lotta se queste non vengono sollecitate, rispettate e riconosciute, una volta che la sofferenza venga accolta come realtà preponderante di chi sopporta il dolore nello scorrere di un lungo periodo di vita. Nulla va tolto alla competenza biologica e chimica, ma nulla va escluso dell’inclusione della totalità della persona nel processo di cura.
IO e GLI ALTRI.
“Siamo partiti dal dato di fatto fondamentale che, all’interno di una massa e per influsso di questa, il singolo subisce una profonda modificazione della propria attività psichica. La sua affettività viene straordinariamente esaltata, la sua capacità intellettuale si riduce considerevolmente, ed entrambi i processi tendono manifestatamene a uguagliarlo agli altri individui della massa”.
Così scrive Freud, nel 1921, in “Psicologia della masse e analisi dell’Io”, ipotizzando che, all’interno di contesti collettivi (l’Io con gli Altri), l’Io subisca una specie di espropriazione e diventi “un altro” indifferenziato dagli altri.
Queste pagine vogliono essere una prima riflessione, niente più che pochi e disomogenei spunti, sulla “profonda modificazione della propria attività psichica” che avviene nel corso di comportamenti collettivi indotti dalla spinta della coesione sociale, in vista di un fine determinato.
Il mio interesse si è sviluppato in questo senso perché, in tale contesto collettivo, è molto facile che l’individuo azzeri la sua umanità, perda la memoria di sécome individuo uguale agli altri cui si contrappone (pensiamo a fenomeni di razzismo o di violenze perpetrate contro i civili da un esercito in guerra) e diventi tragicamente immemore dell’appartenenza ad una specie comune, accentuando e volgendo a violenza l’atteggiamento antropico di “ignoramento sociale“.
Lo stesso individuo, preso a se stante in relazione con la cerchia degli affetti o immerso nel gruppo di appartenenza (i simili e i considerati tali) non dimostrerebbe un analogo comportamento di disumanità (se trattiamo di comportamenti collettivi nel catodi conflitti armati, di guerre civili o di contrapposizioni ideologiche estreme).
Data per valida tale constatazione un domanda potrebbe essere: come possiamo darci una spiegazione di quanto avviene quando l’individuo diviene collettività (di qualsiasi genere essa sia) e come è possibile, operando ad esempio in un contesto educativo o formativo, proporre modelli di comportamento e di discernimento per cui l’Io possa acquisire la coscienza, anche se sofferta e decisamente solitaria, della sua autonomia e, di conseguenza, non si consegni a mani legate ad alienazioni apparentemente inspiegabili?
Sempre seguendo l’ipotesi freudiana, possiamo provare a descrivere le condizioni in cui si viene a trovare l’individuo che si identifica in una massa (per massa intendiamo sia un gruppo piccolo, più o meno organizzato per uno scopo, sia un insieme che si trova raggruppato senza una precisa organizzazione, come ad esempio la folla ad un comizio politico, sia un gruppo di natura militare o paramiliare, ma anche, ad esempio, una consorteria di tifosi di una squadra sportiva), notando che, in tutti questi casi e in altri similari, con esiti più o meno nefasti, ma anche, a volte, con la raccolta di energie solidali e altruistiche, l’anima del gruppo è infinitamente più elementare e passionale, ma anche più incline ad illusioni, rispetto a quella dei singoli individui che la compongono.
Lo spirito del gruppo è contagioso e suggestivo, tanto che se vi è una perdita, a livello individuale e di autonomia, di iniziativa personale, di equilibrio, di libero discernimento morale, dall’altra parte c’è un “acquisto” che si identifica in un sentimento di forza, che deriva dall’essere parte di un tutto rassicurante e coerente, all’interno del quale tutto si spiega, per cui, paradossalmente, l’individuo, delegando la propria libertà, si spersonalizza e si aliena in una forza cieca, all’interno della quale tutto è permesso, di solito in una negazione gregaria di volontà individuale.
Sempre secondo l’assunto freudiano, è come se la pulsione collettiva di natura sociale e gregaria (evidenziata ogni volta all’interno di un raggruppamento umano allorché si verificano processi che relegano il regno dell’Io in una debole marca di confine) non fosse tanto una realtà in sé e per sé, quanto derivasse da aspetti da riscontrare nella psicologia individuale. Convinzione profonda di Freud (sempre da “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”) è che “…anche la sociologia che tratta del comportamento umano nella società non può essere altro che una psicologia applicata“.
Un particolare interesse, a proposito della memoria e della sensibilità (o desensibilizzazione) collettiva, in situazioni estreme di conflitto, riveste la disumanizzazione del comportamento, che tende ad eliminare ogni traccia di memoria del gruppo avverso (infatti la gregarietà che ubbidisce ai comandi assassini è possibile soltanto se gli individui che obbediscono hanno distrutto la memoria della loro umanità e l’analogo aspetto delle vittime).
Wilhem Reich, in “Psicologia di massa del fascismo” (1933), analizza l’elemento antisociale della struttura umana come risultato secondario della “repressione degli impulsi biologici primari” e, in primo luogo, la repressione della sessualità.
Ma, proseguendo nella riflessione, Reich identifica nella struttura familiare storica prussiana, con la sua repressione delle emozioni più elementari in funzione della crescita di un individuo che doveva essere tutto rivolto allo Stato e alle sue esigenze militari, il substrato essenziale della nascita e della rapida crescita del fascismo in Germania.
È chiaro che un’analisi di questo genere non è sufficiente a spiegare un fenomeno come il nazismo e che l’attenzione va anche concentrata su situazioni di natura storico sociale legata alla condizione economica, al risultato della guerra mondiale perduta, all’inflazione che impoverì milioni di persone negli anni ’20, alla repressione dei movimenti di massa che operò la Repubblica di Weimar e all’annientamento politico di ogni opposizione.
In questo breve scritto l’interesse è invece rivolto al substrato, se così si può chiamare, che sottintende ai fenomeni collettivi, la sua analisi in termini psichici e l’azione umana che può “riparare”, se così si può dire, alle azioni che operano una cancellazione violentissima della memoria, relegando l’altro in un angolo buio di ignoranza e di privazione delle caratteristiche della comune umanità.
Tutto ciò nella consapevolezza che un sano sviluppo psichico individuale si basi sulla conservazione, in diversi modi, del passato, soprattutto di quello doloroso per l’individuo o per la società, come rimedio principale, anche se debole, se prendiamo in esame il ripetersi di fenomeni analoghi in diverse epoche. Comunque l’unico che possiamo agire in funzione preventiva.
È vero che esistono diverse memorie: una collettiva e sociale e l’altra individuale.
È di questi ultimi anni una questione, tutta italiana, su “che cosa” debba intendersi come memoria storica collettiva e sulla conseguente legittimità “etica” della memoria di diverse parti.
Come posizione di “parte”, ma con forti implicazioni anche psicologiche, penso che si possa sostenere che l’aspetto sociale della memoria sia legato alla sopravvivenza e alla crescita di valori di libertà, di affermazione di un ambiente sociale in cui l’individuo goda il massimo dei diritti, di possibilità di crescita e sviluppo. La memoria individuale è però, necessariamente, anche una memoria diversa che può comprendere, a livello individuale e familiare, anche aspetti in contrasto con la memoria collettiva, in quanto appartenenti a coloro che furono, in particolari momenti storici, dalla parte “sbagliata”, la vittoria della quale avrebbe consolidato gregarismo, alienazione di responsabilità (“Gli ordini sono ordini” ripetuto incessantemente dal gerarca Heichmann durante il processo davanti alla corte israeliana), violenza nelle opinioni, annullamento dell’individuo.
Il terreno di questa analisi si presenta molto complesso perché ha a che fare con la relatività culturale di certi fenomeni, con la loro collocazione geopolitica, con la forza delle idee religiose che possono fare da catalizzatore alla storia, con la disanima di diverse latitudini, i cui livelli possono stravolgere una visione, tutto sommato occidentale e democratica dei fenomeni collettivi.
L’altro “pericolo”, che anima le analisi di “un vasto campo” di indagine, può essere la diversità delle passioni che guidano l’individuo in rapporto al collettivo, legate alla propria storia familiare o atteggiamenti che tendono a non voler dare contorni molto netti alla propria immagine sociale (il così detto moderatismo, la maggioranza silenziosa).
E inoltre, da parte di addetti ai lavori meritevoli di attenzione, a concepire i fenomeni psichici legati soltanto a processi individuali o, al massimo, collegati ad una ristretta cerchia di relazioni.
Sono ben consapevole che la cura della psiche non si fa amplificando “arbitrariamente” la sfera individuale in quella collettiva (politica). Ciò non sarebbe ben motivato, né da un punto di vista di studio e attenzione, né da un punto di vista di storia individuale; in quest’ultimo caso potrebbe essere addirittura un procedimento privo di reale significato o del tutto fuorviante,perché la persona potrebbe benissimo relegare fenomeni collettivi in un ambito del tutto secondario o anche di pesantezza nei confronti dello sviluppo individuale.
Mi riferisco, ad esempio, a padri o madri che hanno avuto una grande immagine pubblica e che hanno lasciato un’impronta importante nella storia, ma che sono stati una pesante assenza per i figli.
D’altra parte sarebbe molto limitativo e avulso dalla realtà chiudersi nella stanza dell’analisi e vivere quell’onnipotenza da poltrona che ti fa essere, in quella particolare professione di aiuto, in una dimensione assente da quel contesto che non può essere lasciato come elemento astratto o estraneo: le vicende collettive si ripercuotono pesantemente sulla storia psichica degli individui, da qualunque parte questa storia si analizzi.
Il campo in cui possiamo intervenire, come promotori della salute psichica e come persone che, a diverso titolo, non soltanto psicoterapeutico, lavorano in professioni di aiuto, è quello della formazione, del contributo all’integrazione delle diversità, dell’educazione alla tolleranza vera, della non violenza come scelta di fondo dell’agire umano e della scelta della pace, non soltanto nelle vicende della “grande” storia, dei rapporti fra gli stati, ma anche nell’agire individuale.
La conseguenza di tutto questo è l’acquisizione di una sapienza profonda nella mediazione e nella risoluzione dei conflitti, contesto in cui è ben difficile muoversi senza escludere l’altro o sentirsi da questo esclusi.
Il campo dell’azione non è certo ampio ma, non essendo politici, possiamo soltanto pensare che un’azione su individui e su piccoli gruppi possa essere utile per buttare le basi di legami sociali complessi, in una società che, mettendo in contatto sempre di più individui che appartengono a culture diverse e lontane, gioca anche su questo terreno la possibilità di una tenuta civile e di una trasformazione a livello superiore di rapporti articolati precedentemente in situazioni più semplici e schematicamente definite.
Il “noi” che viviamo assume sempre più connotati diversi e in trasformazione.
Pensiamo soltanto quanto ha giocato il razzismo e l’odio per il diverso (o definito con pragmatica assassina come tale) nei territori della ex Yugoslavja, nelle due guerre che ne hanno costellato il fine Novecento.
Forse un’educazione non forzosa alla convivenza e un reale rapporto di integrazione avrebbe evitato le rovine e i lutti, il cui risultato è stata una divisione in stati attraverso confini che avrebbero benissimo potuto essere stabiliti ad un tavolo di “risoluzione dei conflitti” (invece hanno visto, nel fenomeno della così detta pulizia etnica un imbarbarimento spaventoso della convivenza).
E in questo certo poco o nulla possiamo come singoli individui e anche poco come gruppi associati o persone che lavorano nelle professioni di aiuto, ma il nostro modesto compito è la diffusione della cultura operativa della pace, del riconoscimento dell’altro, della conoscenza e della memoria come nucleo interno per concepire l’altro come uno di noi, con gli stessi affetti, le stesse relazioni, i medesimi bisogni.
I problemi aperti sono essenzialmente due: come si può analizzare da un punto di vista psicologico il comportamento collettivo e come si può intervenire su di esso attraverso gli strumenti dell’educazione.
Queste poche righe vogliono essere un contributo a questi temi.