Alle ragazze e al ragazzo della 2BP
del Liceo Pedagogico “Montale”

Quando mi è stato chiesto di scrivere sui Centri di Informazione e Consulenza in una pubblicazione che idealmente si collega all’esperienza della Scuola di Barbiana, ho provato un istintivo piacere, il piacere di ripercorrere esperienze che , a mio avviso, hanno un comune filo conduttore, quello di fare andare a scuola tutti i ragazzi per garantire uguali possibilità a tutti. – A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno, Nessuno era “ negato per gli studi”.- ( “Lettera a una professoressa” pagina 11).
Oggi forse nessun insegnante direbbe che un ragazzo o una ragazza è “negato per gli studi” , oggi i tempi di istruzione obbligatoria si sono allungati ed il problema della dispersione scolastica è all’ordine del giorno di tutte le agende di tutte le scuole eppure tanti ragazzi abbandonano la scuola o la frequentano con il solo obiettivo di assolvere l’obbligo scolastico. Oggi, forse, c’è chi pensa che qualcuno “è negato per la scuola” ?
Affermazioni di questo tipo, sia che vengano esplicitate sia che vengano anche solo pensate, non sono meno gravi di quelle della simbolica professoressa del libro. Se la scuola negli anni ’60 rappresentava la più concreta possibilità di dare a tutti le stesse opportunità dal punto di vista dell’istruzione, oggi la scuola significa molto di più: è, o dovrebbe essere, il luogo ed il tempo dell’accoglienza in cui si offrono formazione ed educazione nel senso più alto del termine, a tutti i cittadini perchè abbiano davvero la possibilità di svilupparsi al meglio delle proprie potenzialità.

Se, da un lato, i mezzi di informazione, primi fra tutti la televisione, hanno portato una sorta di eguaglianza culturale in tutte le case, abbattendo molte delle differenze che una volta c’erano tra il figlio del dottore, il Pierino della “Lettera a una professoressa“ degli allievi della scuola di Barbiana, e chi invece proveniva da famiglie che non erano in grado di sostenere l’apprendimento scolastico dei figli, da un altro tutti i ragazzi o, almeno, la maggioranza dei ragazzi, proprio perchè condividono una uguaglianza di vita, molte ore passate fuori casa, genitori entrambi lavoratori, amicizie sparse sul territorio e quindi spesso sconosciute alle famiglie e molto altro, proprio per questa serie di “uguaglianze” che, di fatto, li portano ad avere punti di riferimento labili e scarsità di possibilità di aggregarsi sotto la guida di un adulto, possono trovare nella scuola, per un lungo periodo della loro vita, l’unico luogo di aggregazione che tutti li accomuna e che dà a noi adulti la possibilità di incontrarli insieme ad altri ragazzi e di sostenerli nel loro percorso di crescita umana e culturale.
Incontrarli è, per noi adulti desiderosi di contribuire a vario titolo alla loro crescita-maturazione, un’opportunità preziosa che non dovremmo permetterci di sprecare
Senza nulla voler levare all’importanza della famiglia, dobbiamo essere consapevoli che la scuola ha tempi e luoghi di incontro dei ragazzi da soli ed in gruppo, che meritano di essere considerati come una insostituibile risorsa educativa.

La rilettura della “Lettera ad una professoressa” mi ha portata a vedere quanta strada è stata fatta dall’istituzione scolastica dagli anni ‘60 ad ora, quanta maggiore uguaglianza di opportunità è stata garantita in questi ultimi decenni a tutti e, allo stesso tempo, mi ha portata a valutare quante nuove disuguaglianze si sono create tra la popolazione giovanile.
Primo fra tutti, oggi siamo un paese di immigrati, cosa forse impensabile negli anni dell’ esperienza di Barbiana. Oggi siamo noi che accogliamo famiglie di emigrati che mandano i loro figli a scuola. A volte, nell’incontro con alcuni di questi ragazzi che vengono al Centro di Ascolto e Consulenza in cui lavoro come psicologa, mi è venuto da pensare che non sembriamo pronti a comprendere che noi siamo tutti, da alcuni punti di vista, “figli del dottore” per questi ragazzi che hanno esperienze per noi difficilmente immaginabili. Qualcuno di loro è stato affidato a parenti per anni prima di potersi ricongiungere alla famiglia già trasferita in Italia, a volte sono combattuti tra due culture che riescono a fatica a fare convivere e portano con sé un senso di grande solitudine: non sono già più come i loro genitori e, allo stesso tempo, non si sentono come i ragazzi che incontrano e che frequentano nel loro nuovo Paese; a volte, proprio come qualche figlio di contadino di alcuni decenni fa, vivono la scuola come una grande opportunità che li espone alle aspettative non solo dei familiari stretti ma a quelle di tutto il gruppo di persone che fa parte del loro ambiente.
Che cosa possiamo imparare dall’esperienza di Barbiana e fare nostro davanti a queste nuove disuguaglianze?
E ancora, ora che per possibilità culturali siamo un po’ tutti “figli del dottore”, davvero questo ci rende più uguali, più in grado di imparare nella scuola così come è?
Purtroppo le differenze sono di altro tipo: c’è chi vive con fatica la condizione di figlio di separati, c’è chi vive con sgomento in famiglie in cui la coppia di fatto c’è ma non riesce ad assumere atteggiamenti coerenti per i figli; c’è chi si divide tra più famiglie senza riuscire a definire con chiarezza i propri punti di riferimento, c’è chi arriva segnato dall’esperienza della tossicodipendenza di un genitore quando non di tutti e due, c’è chi manda segnali del proprio malessere e questi segnali non vede accolti in nessun modo.
Queste sono alcune delle nuove disuguaglianze con cui la scuola non puo’ fare a meno di confrontarsi.

Mi chiedo se la scuola è pronta ad affrontare tutto questo. Forse no e non è detto che questo sia in assoluto negativo.
I fenomeni con cui ci dobbiamo confrontare sono così mutevoli e veloci che forse non ci dobbiamo augurare né una scuola né altri tipi di istituzione con la risposta pronta per ogni nuovo ”problema” , forse dobbiamo più semplicemente chiederci come prepararci ad affrontare una complessità mutevole come è quella della sfida di ragazzi che cambiano più velocemente di quanto cambiassimo noi alla loro età, rimanendo pur sempre esseri umani con bisogni fondamentali uguali a quelli che noi avevamo alla loro età.
In questi anni sono state fatte molte esperienze nelle scuole della provincia di Pisa. Cominciate nel 1989, precedendo la Legge sulla Prevenzione delle Tossicodipendenze (legge 162, 1990), sono tutt’ora in corso varie sperimentazioni, spesso su piccoli numeri di studenti, su poche classi, ma non per questo meno significative visto l’impatto che hanno sugli insegnanti che le curano e sugli alunni a cui vengono proposte.
All’interno della cornice della legge 162, c’è stata anche l’istituzione nelle scuole medie superiori dei Centri di Informazione e Consulenza (C.I.C.).
Il mio rapporto con i C.I.C. mi ha dato la possibilità di vederli da varie angolazioni: quando lavoravo come insegnante in una scuola media superiore ho collaborato alla creazione del C.I.C. in quella scuola e ci ho lavorato come insegnante che dà “ascolto e informazioni”; contemporaneamente ho lavorato come formatrice in corsi di formazione per insegnanti che già lavoravano nei C.I.C. o che si preparavano a farlo e questa è un’attività a cui continuo a dedicarmi anche ora che non insegno più; da sei anni lavoro come psicologa nel C.I.C. di una scuola media superiore che è aperto a studenti, insegnanti e genitori degli studenti.
A distanza di parecchi anni dalla Legge 162 del ‘90, continuo a credere nei C.I.C..

C’è stato bisogno di una numerosa serie di circolari applicative (C.M. 270 del 15/10 ’90, C.M. 66 del 14/3 ’91, C.M. 47 del 20/2 ’92, C.M. 362 del 22/12 ’92, C.M. 120 del1994) che di volta in volta hanno cercato di precisare con sempre maggiore accuratezza che cosa si intendesse con la sigla C.I.C. e quale fosse il ruolo degli insegnanti in questi centri,
I C.I.C. rappresentano una grossa scommessa nella scuola italiana e confermano la necessità di essere con gli studenti anche per problemi diversi da quelli esplicitamente legati al rendimento scolastico.
L’ipotesi di C.I.C. che ho in mente è quella di un luogo dove due persone si incontrano; una chiedendo di essere accolta ed ascoltata, l’altra desiderosa di offrire autenticità, rispetto ed ascolto.
Non il luogo, quindi, dove si risolvono i problemi ma il luogo dove ci si prende cura della persona dello studente che porta con sé, tra l’altro, un problema.
A questa persona non offriremo soluzioni, suggerimenti, ma attenzione, tempo , disponibilità, fiducia nelle sue capacità di maturazione.
Stabiliremo, cioè, una relazione di aiuto in cui un individuo adulto, l’insegnante in questo caso, promuove la crescita di un giovane , lo studente.
Cercheremo di aiutare la persona che si rivolge al C.I.C. a trarre da sé le sue potenzialità non facendo altro che dare un senso più completo al ruolo di insegnante- educatore.
Questa è, a mio avviso, la straordinaria novità che emerge dall’istituzione dei C.I.C.
Si riconosce alla scuola e si riconosce agli insegnanti il diritto –dovere di guardare alla persona dello studente, di non vedere solo i risultati, di non avere cura solo dello stile di apprendimento ma di dare spazio alla persona che entra a scuola con il carico della sua esperienza di vita.
Molti hanno obiettato che i buoni insegnanti hanno sempre guardato la persona nella sua totalità; so bene che da sempre molti insegnanti hanno svolto questa funzione in modo informale, ma il C.I.C. è qualcosa di diverso.
Riconosce il bisogno degli studenti, lo abilita come diritto, dà delle risposte professionali, cose che sono ben diverse dalla buona volontà, dal buon senso e dalla improvvisazione.
Se i C.I.C. non fossero stati altro che la benedizione di qualcosa che già esisteva nella scuola, non avrebbero suscitato l’intenso dibattito che c’è stato e che ancora adesso fa, positivamente , discutere.
Riconoscere alla persona studente il diritto di portare a suola tutto se stesso, significa chiedere a tutto il corpo docente di dare attenzione a quelle persone. Se gli insegnanti che scelgono di offrire ascolto e informazioni nei C.I.C. sono pochi, nessuno è esentato dal guardare i ragazzi come un tutt’uno di corpo, mente e psiche, in un’ottica olistica: questa è la novità.
Una critica che viene mossa agli insegnanti che lavorano nei C.I.C. è di adottare criteri di valutazione diversi a seconda della conoscenza che hanno del vissuto di uno studente. Chi va al C.I.C. è conosciuto, ha la possibilità di spiegare le sue ragioni, la sua sofferenza e proprio per questo potrebbe essere avvantaggiato in sede di valutazione. La prima cosa che mi viene da dire è, senza dubbio, provocatoria: il problema è che questo avvenga o che questo tocchi solo a qualcuno?
Non dovrebbe essere diritto di tutti gli studenti esprimere il proprio vissuto e cercare di collegarlo ad eventuali difficoltà di applicazione, concentrazione, motivazione, apprendimento?
La seconda cosa che desidero aggiungere è: siamo sicuri che sia una difficoltà dello studente quella di non riuscire a separare il proprio vissuto emozionale dal rendimento scolastico oppure è una difficoltà dell’insegnante non riuscire ad accogliere la persona senza che questo si trasformi in una difficoltà a valutare il rendimento dello studente?
Credo , inoltre, che ci siano casi in cui è opportuno che la valutazione del rendimento tenga conto della difficoltà che un determinato studente sta vivendo. Per provare ad esemplificare: se ritengo che uno studente verosimilmente abbandonerà la scuola in caso di bocciatura, devo tenerne conto in sede di valutazione? Io credo di si.
Poi posso chiedermi come aiutare questo ragazzo a fare scelte più costruttive in avvenire, ma non credo di dovere rischiare di perderlo per la scuola. Questo ha senso in un’ottica di scuola “centrata sullo studente”, che ha come finalità ultima quella di fare l’interesse dello studente nel senso più ampio e più completo del termine.
Il problema che vedo non è che ho potuto ipotizzare il rischio di abbandono scolastico nel C.I.C., ma che, purtroppo, non si riesce a fare valutazioni altrettanto accurate di tutti gli studenti, anche di quelli che non frequentano il C.I.C., per mancanza di tempo, perché le classi sono numerose, perché ci sono i programmi da finire, perché quando si è concentrati sulla spiegazione, sulla interrogazione,sulla valutazione è davvero difficile guardare le singole persone degli studenti di una classe e dare loro lo spazio per esprimersi quel tanto che permetta ad un insegnante di comprendere.
Credo che il problema ancora insoluto sia che l’istituzione dei C.I.C. nella scuola non è stata accompagnata da un’offerta formativa seria per gli insegnanti che hanno dato la loro disponibilità a lavorarci e per gli altri che, pure non partecipando in prima persona, sono, come insegnanti della scuola, parte in causa di un comune progetto educativo.
Se, infatti, i C.I.C. devono esserci, se degli insegnanti devono fornire informazioni ed ascolto su problemi di tipo scolastico ma anche relazionale ed affettivo, senza offrire la consulenza psicologica che è deputata a personale esterno alla scuola, è evidente che gli insegnanti devono acquisire, ancora una volta, delle abilità e competenze che il tradizionale ruolo di insegnante non contemplava o non riteneva specifiche ed indispensabili.

Credo che un servizio di consulenza agli studenti, che sia di ascolto, di informazione, o di counseling, costituisca la più grossa novità che sia stata prodotta negli ultimi anni dalla scuola.
Costituisce un ammettere esplicitamente che la scuola non può e non deve occuparsi solo di apprendimento legato alle discipline, significa riconoscere dignità ai bisogni dei ragazzi. E’ una disponibilità concreta ed istituzionalizzata del mondo adulto nei confronti dei giovani che , in questo caso, sono studenti.
Questa istituzionalizzazione, però, è in qualche modo parziale.
Si è ritenuto che gli insegnanti fossero, in quanto tali, pronti alle nuove richieste della istituzione . Nel corso di questi anni ho avuto modo di osservare le difficoltà e le resistenze di molti di loro, anche di quelli con un autentico desiderio di cambiamento sia dell’istituzione che di se stessi. Non è facile, infatti, cambiare se stessi, è molto più tranquillizzante pensare che normative diverse, incentivazioni diverse, esperti esterni possano portare nella scuola il cambiamento fondamentale che è richiesto dalla società.
Il C.I.C. ci deve essere per legge ma non esiste nessun criterio per la selezione degli insegnanti che dichiarano la loro disponibilità a lavorarci; non esiste nessuna richiesta di formazione obbligatoria nei loro confronti; non esiste nessuna richiesta di verifica del lavoro svolto ma solo una verifica di tipo burocratico; non esiste nessun avanzamento di carriera per chi svolge questo o altri servizi che pure richiedono una professionalità che supera quella dell’insegnante che svolge i suoi compiti di esperto in una disciplina.
Un cambiamento così grande e sostanziale nella scuola non è assistito, è lasciato nelle mani di insegnanti particolarmente motivati che, per disponibilità personale , scelgono di offrire questo servizio.
Credo, invece, che queste persone abbiano bisogno di essere sostenute.
Come dare questo sostegno va visto di volta in volta perché le situazioni sono quanto mai diversificate e così pure i bisogni e le aspettative,
Solo fornendo questo tipo di aiuto sarà possibile fare davvero esistere i C.I.C. all’interno delle scuole per non rischiare che diventino una sigla a cui non corrisponde niente o a cui corrisponde, al massimo, l’ingresso ufficiale di esperti esterni che possono portare il loro utile contributo ma che rischiano di lasciare la scuola esattamente come l’hanno trovata al loro arrivo.
Al di là dei C.I.C., credo che solo un cambiamento delle persone che lavorano nella scuola e che scelgono come programmare, come porsi in relazione tutte le mattine con gli studenti, come dialogare con le famiglie, come verificare il proprio operato, possa cambiare l’istituzione.
E’ necessario un cambiamento che parta dal basso ma che abbia radici, radici profonde che diano le garanzie che solo un cambiamento personale può portare.
La mia esperienza mi porta a dire che nella scuola ci sono molti insegnanti che, con difficoltà e nelle difficoltà, scelgono tutti i giorni di mettere in discussione se stessi oltre che gli studenti. Per quanto frustrante è facile dire “la classe non va”, è facile dire “gli studenti non studiano, non sono corretti, non si rispettano, non si ascoltano”: è facile trovare ragioni esterne a noi stessi. E’ molto più difficile chiedersi che responsabilità personale ognuno ha nei risultati didattici ed educativi di un singolo alunno o di un intero gruppo classe. Solo partendo da un’analisi di questo tipo, solo chiedendo a noi stessi “come sto vivendo questa situazione, quello che provo che cosa dice di me?” possiamo aprire davanti a noi la possibilità di recuperare il nostro potere personale per cercare di ottenere quello che vogliamo. Finché lasciamo che i problemi siano esterni a noi stessi ci priviamo di questa risorsa preziosa ed insostituibile che è il nostro potere personale.

Nella scuola per la maggior parte del tempo non c’è una relazione uno ad uno, ci sono tanti insegnanti e molti studenti che entrano in relazione tra di loro. Un gruppo di insegnanti, quelli appartenenti ad un Consiglio di Classe, ha , tra i suoi obiettivi, quello della crescita umana, oltre che culturale e sociale, degli studenti di una classe.
Il rapporto diventa, nel C.I.C. un rapporto “uno ad uno” ma l’obiettivo non è, né può essere, di ristrutturazione di personalità. Consapevole che l’insegnante non è un terapeuta e che lo studente non è un cliente ma l’utente di un servizio, quello scolastico, di raggio molto più ampio del Centro di Informazione e Consulenza , ritengo importante promuovere quello che Carl Rogers ha scoperto e diffuso: tre delle sei condizioni necessarie e sufficienti alla crescita in campo psicoterapeutico (la congruenza, l’accettazione positiva incondizionata e l’ascolto empatico) sono fondamentali in tutte le situazioni in cui si vuole promuovere la crescita di un individuo.
Cosa è la scuola se non uno dei luoghi specificamente deputati a questo scopo?
Il C.I.C. nella scuola diventa , perciò , una delle opportunità in campo scolastico in cui mettere in atto queste condizioni per accogliere la richiesta di ascolto degli studenti, il luogo in cui instaurare un rapporto “da persona a persona” e in cui promuovere la riflessione dello studente su di sé con il fine di accompagnarlo nel suo processo di maturazione e di raggiungimento dell’autonomia.
Il colloquio individuale è un’occasione preziosa per il raggiungimento di questa finalità. E’ per questo che è molto importante che lo studente che si rivolge al C.I.C. trovi ad accoglierlo un insegnante non solo motivato all’ascolto ma anche capace di dare un ascolto rispettoso che manifesti quella che Carl Rogers chiama “accettazione positiva incondizionata”. E’ abbastanza facile rispettare gli altri quando le loro opinioni collimano o somigliano alle nostre, è abbastanza facile restare sereni se l’argomento di dibattito è relativamente importante per noi, è più difficile se il tema in discussione è molto sentito e le opinioni sono diverse.
L’accettazione di cui Rogers parla non è riferita ai comportamenti ma ai sentimenti della persona; con ciò si intende che anche un comportamento che non approvo non mi fa sentire in diritto di giudicare la persona che mi sta davanti. So quanto questo sia difficile in tutti i contesti della nostra vita e, forse, ancora di più nel contesto scolastico dove la valutazione, la necessità di farlo , fa parte del ruolo docente. Questa è proprio una delle contraddizioni in cui si dibatte l’insegnante e, in particolare, quello che offre ascolto nel C.I.C.: come posso separare la disapprovazione per un comportamento dalla possibilità comunque di accettare questo ragazzo “in modo incondizionato”? Credo che una approfondita riflessione su questo sia fondamentale perché il giudizio non aiuta a crescere, il giudizio può umiliare, può fare scattare comportamenti difensivi, può sortire qualche effetto immediato legato alla paura del giudizio stesso ma non promuove la crescita personale.
L’altra condizione che Rogers propone come indispensabile è l’empatia, la capacità di ascoltare l’altro cercando di vedere il mondo dal suo punto di vista senza mai perdere la qualità del “come se fossimo l’altro” perché l’empatia è cosa ben diversa dalla identificazione.La possibilità di ascoltare un ragazzo è un’occasione così delicata e significativa che non può essere sciupata spostando il problema dallo studente all’insegnante, dai valori dello studente ai valori dell’insegnante, dall’esperienza dello studente a quella dell’insegnante.
Ecco perché la riflessione sull’importanza di distinguere il “mio vissuto” dal “tuo” mi sembra fondamentale come parte del percorso di formazione che un insegnante che sceglie di ascoltare gli studenti nel C.I.C. deve fare. Ci sono persone naturalmente empatiche, chi di noi ha la fortuna di incontrarne una la riconosce subito, è quella persona che ci fa sentire capiti, profondamente compresi. E non è forse di questo che tante volte abbiamo fame? Qualcuno che comprenda che cosa ci sta accadendo e che attraverso l’ascolto ci aiuti a chiarirci le idee non necessariamente per sostituirle con altre ma per superare lo sgomento che si prova quando si soffre e non si è in grado di definire chiaramente nemmeno con noi stessi quale è il vero problema. L’empatia, che può essere una dote naturale può essere migliorata per diventare più accurata e, soprattutto, è una capacità che può essere appresa perché diventi un modo di essere.
Ultima per ordine, ma prima per importanza, la congruenza, la capacità di essere in contatto con noi stessi. Come posso ascoltare in un C.I.C. o in un’altra situazione in cui c’è bisogno di ascoltare un altro essere umano se non sono capace di ascoltare me stesso?
Chi ascol.ta deve essere capace di sentire “ho paura di questa situazione”, “la mia attenzione è altrove in questo momento”, “ ho problemi personali che mi distolgono da chi mi sta di fronte in questo momento”, “ mi ritrovo in questa ragazza che mi sta parlando e non riesco a vederla senza identificarmi”,
Essere consapevole dei propri sentimenti e pensieri non significa certo comunicarli necessariamente all’altro. Esserne consapevoli vuol dire non rischiare di attribuire all’altro quello che è nostro, oppure, se si sceglie di comunicarli e di essere “ autentici e trasparenti” , lo si fa assumendosene la responsabilità, tenendo conto e dichiarando che quello che sentiamo, pensiamo e diciamo appartiene a chi lo dice e non necessariamente alla persona che ha suscitato quelle emozioni e quei pensieri.
Questa metodologia può essere appresa se c’è una motivazione perché, come ogni insegnante sa, non c’è apprendimento significativo e duraturo se non c’è motivazione.

Prima di concludere, vorrei tornare idealmente a Barbiana.
Quello che mi ha maggiormente colpita nella rilettura libro è il risentimento degli autori per una istituzione scolastica che sembrava ignorare i loro legittimi bisogni e tutto il buono che c’era in loro, il risentimento per una scuola autoreferenziale che è una scuola che vive “fine a se stessa” ( “Lettera a una professoressa” pagina 24).
Credo che il C.I.C. sia una risorsa non solo per i ragazzi ma anche per gli insegnanti. E’ un’opportunità di essere in contatto con una realtà più profonda degli alunni che frequentano la scuola ed è indispensabile conoscere queste persone- studenti se non si vuole correre il rischio di fare esistere una scuola fine a se stessa non solo sul piano dei contenuti, che sono molto più complessi da cambiare in tempi utili rispetto al cambiamento del mondo che ci circonda, ma anche sul piano educativo.
Che cosa pensano, che cosa sognano, che cosa aborrono, che cosa desiderano, che cosa ne fanno delle loro emozioni? Certo, tutto questo potrebbe emergere “nell’ordinarietà della vita scolastica” come recitano alcune delle Circolari Ministeriali citate, ma chiunque insegna sa che è un’aspettativa molto alta perché nel gruppo classe troppo spesso non è facile conoscere veramente le persone. Le dinamiche di gruppo spesso confondono, più che chiarire, chi sono i ragazzi al di là dei banchi. Nel C.I.C. si ha la possibilità di instaurare con loro un dialogo significativo e di portare in classe un tipo di competenze legato all’ascolto dell’altro che necessita di una formazione specifica.
Credo che se “la professoressa” del libro avesse ascoltato con rispetto ed interesse, avrebbe avuto la possibilità di dare molto di più ed anche di ricevere molto di più.

Mariangela Bucci


Bibliografia:

Psicoterapia di consultazione, Carl R. Rogers. Casa Editrice Astrolabio.

Terapia Centrata sul Cliente, Carl R. Rogers. La Nuova Italia.

Un modo di essere, Carl R. Rogers. Martinelli & C. s.a.s.

Counselling consapevole, Pete Sanders. Edizioni La Meridiana.

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