(tratto da Psicoterapia e Scienze Umane, 2006, XL, 3: 581-600)

Manlio Iofrida insegna Filosofia della Storia alla facoltà di filosofia dell’università di Bologna ed è specialista in filosofia francese contemporanea.

1. Premessa

Negli ultimi anni la psicoanalisi ha conosciuto, rispetto al periodo precedente, delle grosse novità; il comparire di nuove impostazioni e correnti ha generato discussioni spesso assai accese e con un contenuto filosofico rilevante. Fra le novità, e le discussioni cui hanno poi dato luogo, la più rilevante mi sembra la Psicologia del Sé di Heinz Kohut: oltre ai notevoli nuovi apporti in essa contenuti all’apparato concettuale tradizionale della psicoanalisi, essa mi sembra particolarmente feconda dal punto di vista filosofico, cosa che, per il presente intervento, che è quello di un filosofo interessato alla psicoanalisi e non di uno psicoanalista, è di particolare importanza. Sulla concettualizzazione filosofica delle scoperte di Kohut, ritengo opportuno un chiarimento preliminare. In recenti discussioni (vedi Migone, 2004, e la discussione che ne è seguita; ma Psicoterapia e scienze umane a più riprese si è venuta occupando di questo argomento) è sembrato che il campo della psicoanalisi conoscesse una nuova divisione: quella fra “razionalisti” e “ortodossi”, tendenzialmente più fedeli a Freud, e “fenomeno­logi” o “ermeneuti”, seguaci di Kohut e/o dell’approccio relazionale, disposti a relegare nel dimenticatoio, secondo una impostazione genericamente “post­moderna”, una serie di concetti fondamentali del fondatore della psicoanalisi. Se ci riferiamo al recente lavoro di Hoffman (1998), che rappresenta unasintesi matura delle discussioni generate dalla Psicologia del Sé e non solo, vediamo in realtà emergere una posizione che non è riducibile nei termini della suddetta contrapposizione: delineando quello che egli definisce un “costruttivismo critico”, Hoffman sottolinea come sostenere l’imprescindibi­lità dell’elemento soggettivo – sia dalla parte dell’analista che da quello del paziente, sia come controtransfert che come transfert – non significhi consegnare la nuova psicoanalisi dell’empatia ad alcun soggettivismo radicale o postmodernismo unilaterale. Quel che avviene nella seduta psicoanalitica è un evento che, proprio perché ambiguo, non riducibile ai parametri oggettivi del causalismo meccanicistico, è qualcosa di reale. Che la psicoanalisi dell’empatia si attesti su questo terreno, che è oltre la schematica contrapposizione più sopra menzionata, è confermato dal fatto che, nel delineare la relazione analitica sul modello gestaltico figura-sfondo, ad esempio Hoffman (1998, p. 177 e passim) ricorre a quel concetto di campo che è fondamentale per la concezione dell’esperienza come chiasma in Maurice Merleau-Ponty; a sua volta, questa concezione è una visione fenomenologico-ontologica dell’esperienza come empatia (1). Anche l’afferma­zione secondo cui «l’individuo è concepito come “co-creatore” o “co-costruttore” di realtà personali, dove il prefisso “co-” indica un’interdipen­denza interattiva con il suo ambiente fisico e sociale» (Hoffman, 1998, p. 49 trad. it; l’affermazione è una citazione da Mahoney, 1991) è perfettamente in linea con l’idea di esperienza chiasmatica dell’ultimo Merleau-Ponty.
Per sviluppare e chiarire questi assunti, nella forma necessariamente sintetica imposta da un intervento di questo genere, procederò come segue: in primo luogo, ricostruirò brevemente la tappa precedente dell’incontro fra psicoanalisi e filosofia, in sostanza il paradigma degli anni 1960, necessario sfondo di riferimento per quello che succede oggi; in secondo luogo, accennerò alle trasformazioni in atto da alcuni anni nel panorama filosofico, con particolare attenzione sia al riemergere delle posizioni di Merleau-Ponty che ad un certo numero di autori e di ricerche nuove che alla sua posizione si rifanno; in terzo luogo, richiamerò molto sinteticamente alcuni temi di fondo del pensiero di Kohut, per argomentare come le posizioni filosofiche di cui sopra costituiscano per esso un’ottima cornice e per concludere che è forse possibile, su nuove basi, riaprire oggi, dopo l’epoca (post)strutturalistica, un fecondo scambio fra psicoanalisi e filosofia.

2. Psicoanalisi e filosofia nell’epoca dello strutturalismo

A partire dagli anni 1960 e quasi fino ad oggi, la parte più consistente della riflessione filosofica riguardante la psicoanalisi e ad essa ispirata è quella che si è collocata nell’orizzonte strutturalistico, caratterizzato dal tema della fine del soggetto, di quella che Michel Foucault, nel testo più rappresentativo degli anni 1960, chiamò la morte dell’uomo. Negli anni in cui de Saussure, Jakobson e Lévi-Strauss erano i modelli di una concezione astratta della struttura e in cui Lacan portava a termine con successo la sua “debiologizzazione” del discorso di Freud proprio attraverso il riferimento alla linguistica e all’antropologia strutturali, a occupare la “casella fondamentale”, nell’ambito dei concetti prospettati dalla psicoanalisi freudiana, era il concetto di inconscio, usato come grimaldello per por fine alla metafisica del soggetto cartesiano, trasparente, cosciente. Così, nello strategico capitolo X de Le parole e le cose  (Foucault 1966, cap. X, specialmente paragrafo 5, “Psicoanalisi e etnologia”), Foucault, pur non risparmiando critiche alla psicoanalisi, la poneva accanto alla linguistica strutturale e all’antropologia come disciplina-chiave della più recente sistemazione “epistemica” cui era giunto il sapere occidentale; poco dopo, nella sua famosa conferenza su La différance , Derrida (1972, p. 45 sg.) poneva Freud, accanto a Nietzsche e a Lévinas, come autore-cardine per la negazione del soggetto cosciente; e non a caso citava, proprio in quel luogo, Nietzsche e la filosofia  di Gilles Deleuze (1962), che già anni addietro aveva operato la sutura fra Nietzsche e Freud, puntando sulla dissoluzione del soggetto nel gioco delle forze. In sostanza, ai filosofi francesi(2), che privilegiamo nel nostro discorso perché le loro teorizzazioni sulla psicoanalisi sono state nel complesso quelle che negli ultimi quarant’anni hanno avuto una ripercussione più ampia, riusciva brillantemente, sulla scia della lezione lacaniana, di trasformare completamente l’immagine di Freud che i suoi primi discepoli, ma anche la cultura europea dagli anni 1930 agli anni 1950 (conl’importante eccezione della Scuola di Francoforte) avevano configurato: quella di un Freud illuminista, razionalista, saldamente ancorato in una tradizione positivista, e nel quale quindi, conformemente a quest’ultima, non era mai stato del tutto esorcizzato il progetto di riduzione della psicoanalisi in termini biologici. Attraverso il riferimento alla linguistica strutturale e all’antropologia, l’inconscio di Freud perdeva le sue connotazioni spesso rozzamente biologiche e, in una maniera singolarmente immediata , tutta una serie di concetti che sembravano irriducibilmente biologici – per citare solo i più importanti: pulsione, libido, traccia – venivano immessi come tali in un programma filosofico e in una grammatica filosofica nettamente antipositivi­stici (o che per lo meno tale si riconosceva e tale si voleva): subivano insomma, è lecito dirlo, una vera e propria transustanziazione – e questo fatto, a dire il vero, avrebbe dovuto suscitare qualche sospetto. Ma su questo torneremo più oltre: restiamo per ora alla constatazione indubitabile che Freud, attraverso quest’operazione, veniva staccato dall’orizzonte filosofico di uno Charcot o di un Janet e proiettato su un altro assai diverso, in cui Nietzsche, Husserl e Heidegger – diversi dosaggi e compromessi delle posi­zioni di questi tre autori valevano a seconda del filosofo francese con cui si aveva a che fare – erano gli elementi-chiave. Per uscire dalle affermazioni troppo generali e documentare un po’ meglio questo fenomeno, che come abbiamo detto spinge le sue propaggini quasi fino ai giorni nostri e merita dunque una seria riflessione, mi soffermerò ora brevemente su uno dei saggi più emblematici dell’impostazione di cui stiamo parlando che siano stati scritti negli anni 1960: “Freud e la scena della scrittura” di Jacques Derrida (1967).

3. “Freud e la scena della scrittura” di Jacques Derrida

Il testo di cui mi accingo a parlare è uno dei più belli scritti da Derrida, che si trovava nel suo periodo più creativo: originariamente una conferenza pronunciata nel marzo del 1966, “Freud e la scena della scrittura” fu poi pubblicato ne  La scrittura e la differenza(Derrida 1967, pp. 255-297).
Cominciamo col segnalare un fatto estremamente paradossale: questo testo di un filosofo certo antipositivista è in gran parte imperniato proprio sul Progetto di una psicologia (1895), cioè su un testo freudiano che si è concordi nel collocare ben prima dell’inaugurazione, da parte dell’autore, di una concettualità propriamente psicoanalitica.

«La nostra ambizione è molto limitata: rintracciare nel testo di Freud alcuni punti di riferimento e isolare, alle soglie di una riflessione organizzata, quello che della psicanalisi si lascia difficilmente contenere nella chiusura logocentrica, la quale delimita non solo la storia della filosofia, ma anche il movimento delle “scienze umane” e soprattutto di una certa linguistica» (Derrida, 1967, p. 257).

Secondo il metodo che gli è classico, Derrida procederà allora a mostrare come l’impiego della metafora scritturale rompa il quadro metafisico, logocentrico del discorso di Freud: la scrittura (che è poi, come si sa, un ripensamento filosofico del concetto di struttura linguistica) è il talismano che permette a Derrida di trasformare in oro tutto il piombo positivistico della concettualità freudiana.
Dal punto di vista tematico, il filo conduttore di tutto il saggio è costituito dal problema della memoria: i vari tentativi di Freud di risolverlo nel corso della sua costruzione dell’edificio della psicoanalisi – dal Progetto (1895) al Notes magico (1924) – sono i testi specifici che Derrida prende in considerazione.

Nel Progetto, di conseguenza, è il tema del frayage e la successiva distinzione fra neuroni φ e neuroni ψ che offre a Derrida il primo punto di appoggio per la sua operazione. Con i neuroni ψ, quelli dotati della Darstellung della memoria, abbiamo a che fare, dice Derrida, che poco sopra non nasconde certo il carattere pesantemente neurologico, materialistico in senso “volgare” del testo, della “prima rappresentazione”, della prima “messa in scena” della scrittura: dove il termine “rappresentazione” (Darstellung) rimanda sia alla “figurazione visuale” sia alla “rappresentazione teatrale” (Derrida, 1967, p. 260). Egli sottolinea altresì come solo ai neuroni ψ dotati di memoria sia riservata la caratteristica della psichicità. È un passaggio di cruciale importanza filosofica per la sua argomentazione, poiché, se fin dal Progetto egli può verificare che per Freud psichismo e memoria sono indissociabili, il distacco dal positivismo è già compiuto in modo sostanziale: la traccia psichica non è mai riducibile a qualcosa di presente, a uno stimolo materiale che si trasmette meccanicamente da un neurone all’altro. Sulla stessa linea, nel seguito, laddove nel testo freudiano si parla nel modo più materialistico di forze, tracce, neuroni, scavo di vie, Derrida trova il modo per rovesciare il discorso come un guanto servendosi del concetto di differenza. Se in quei concetti si trattasse, egli argomenta, solo di quantità, di meccanici­smo, tutti i passaggi, tutti i frayages sarebbero equivalenti e l’apparato psichico paralizzato; poiché invece non è così, è evidente che funziona già qui il tema della differenza fra i frayages. Attraverso Nietzsche e il suo energetismo (altra faccia del tema strutturale della scrittura), il discorso di Freud si sottrae di nuovo al positivismo:

«Ora, supponendo che Freud intenda qui parlare solo il linguaggio della quantità piena e presente, supponendo, come almeno pare, che egli intenda collocarsi nella opposizione semplice tra la quantità e la qualità (quest’ultima riservata alla pura trasparenza di una percezione senza memoria), il concetto di facilitazione vi si dimostra intollerante. L’uguaglianza delle resistenze alla facilitazione o l’equivalenza delle forze di facilitazione, ridurrebbero ogni preferenza nella scelta dei percorsi. La memoria sarebbe paralizzata. La differenza tra le facilitazioni, questa è la vera origine della memoria, e quindi dello psichismo. Solo questa differenza libera la “preferenza della via” (Wegbervorzugung).
“La memoria è rappresentata (dargestellt) dalle differenze delle facilitazioni esistenti tra i neuroni ψ”. Non si deve dire che la facilitazione senza la differenza non è sufficiente alla memoria; bisogna precisare che non esiste facilitazione pura senza differenza. La traccia come memoria non è una facilitazione pura che sia sempre possibile recuperare come semplice presenza, è la differenza inafferrabile e invisibile tra le facilitazioni. Sappiamo quindi già che la vita psichica non è la trasparenza del senso né l’opacità della forza, ma la differenza nel lavoro delle forze. Nietzsche diceva questo» (Derrida, 1967, p. 260).

Subito dopo, con la stessa sottigliezza, Derrida scopre come nel testo di Freud sia all’opera una ripetizione non quantitativa, non intensiva, una quantità eterogenearispetto alla quantità del frayage; di nuovo dietro l’apparenza positivistica si scopre una posizione struttural-dinamica che spiazza sia il positivismo che il coscienzialismo della fenomenologia ortodossa:

«Che la quantità diventi ψυχή e μνήμη più attraverso le differenze che attraverso le pienezze è quanto continuerà poi ad essere asserito nel Progetto stesso. La ripetizione non aggiunge nessuna quantità di forza presente, nessuna intensità, essa replica la medesima impressione: ha tuttavia potere di facilitazione. “La memoria (cioè la forza [Macht]continuamente attiva di una esperienza) dipende da un fattore chiamato ‘entità dell’impressione’ e dalla frequenza con cui una stessa impressione si ripete”. II numero di ripetizioni si aggiunge quindi alla quantità (Q) dell’eccitazione e queste due quantità sono di due ordini assolutamente eterogenei. Non vi sono ripetizioni se non discrete ed esse agiscono come tali solo attraverso il diastema che le tiene separate. Infine, se la facilitazione può sostituire la quantità attualmente all’opera e aggiungervisi è certo perché è analoga ad essa, ma anche altra: la quantità “può essere sostituita dalla quantità più la facilitazione che ne risulta”. Questo altro dalla pura quantità, non dobbiamo affrettarci a determinarlo come qualità: in tal modo trasformeremmo la forza mnestica in coscienza presente e in percezione traslucida delle qualità presenti. Cosi né la differenza tra le quantità piene, né l’interstizio tra le ripetizioni dell’identico, né la facilitazione stessa, si lasciano pensare nell’opposizione tra la quantità e la qualità. La memoria non può dipendere da essa, e sfugge alla presa di un “naturalismo” come a quella di una “fenomenologia”» (Derrida, 1967, pp. 260-261).

È a questo punto che Derrida scopre in Freud il suo fondamentale tema della différance: «Tutte queste differenze nella produzione della traccia possono essere reinterpretate come momenti della differenza» (Derrida, 1967, p. 261). In particolare, nel fascio di significati che ha questo termine, è quello di differimento temporale che egli ritrova nel testo freudiano, laddove la produzione della traccia viene vista come sforzo della vita che protegge se stessa differendo l’investimento pericoloso, cioè costituendo una riserva; e il riferimento alla deviazione che si instaura nel rapporto fra piacere e realtà, così come il tema dell’economia della morte (la vita non può difendersi dalla morte espellendola fuori da se stessa, ma solo facendone l’economiadifferendola/rinviandolaripetendo e riservando) sono i modi in cui Derrida ha letto, in questo testo come in altri successivi, Al di là del principio del piacere (Derrida 1967, p. 261 sg.; per un altro luogo classico della discussione del concetto, vedi Derrida, 1980, p. 275 sg.).
Con questo tema dell’economia della morte (che ovviamente fa anche riferimento al tema fruediano delle pulsioni di morte) e dell’originarietà della ripetizione, si apre la strada per la rilettura di altri termini-chiave dell’edificio psicoanalitico freudiano. Infatti, se la ripetizione è originaria, altrettanto lo è il ritardo, si esprima esso come Nachträglichkeit o come Verspätung. Derrida sottolinea come tali concetti siano già presenti e chiamati col loro nome nel Progetto (Derrida, 1967, p. 263); e già presente, anche se manca il termine “scrittura”, è il tema del «trattenere, pur restando in grado di ricevere» (Derrida, 1967, p. 264), che tormenterà la riflessione freudiana fino al Notes magico.
Inutile continuare a ripercorrere tutto il saggio, attraverso i suoi riferimenti alla Traumdeutung (con tutte le fondamentali riflessioni sul geroglifico, su cui non possiamo purtroppo soffermarci), fino a quelli al Notes magico. È opportuno, invece, soffermarsi ancora un momento, per maggior chiarezza, sul già citato, complesso tema del ritardo originario. Il punto in cui questo concetto paradossale di temporalità, che avvicina la riflessione di Freud a quella di Husserl e, ancor, più, di Heidegger, viene rintracciato è quello del sintomo: è in quest’ultimo che Freud porta alla luce un evento che si configura come una ripetizione di qualcosa che non è mai stato presente, poiché non è mai entrato nella coscienza del paziente; il sintomo è dunque un evento che sarà stato presente solo post festum, nel futuro. A partire da qui, quella caratteristica dell’inconscio che Freud aveva qualificato come intemporalità si rivela, per Derrida, piuttosto come la paradossale struttura di futuro anteriore, di tempo dirotto nelle estasi di passato, presente e futuro che (conformemente alla lezione heideggeriana sul tempo) è del tutto diversa dalla concezione volgare del tempo:

«Forse bisognerebbe leggere Freud nel modo che Heidegger ha letto Kant: come l’io penso, l’inconscio è intemporale solo rispetto a un certo concetto volgare del tempo» (Derrida, 1967, p. 277).

Le conclusioni del saggio sintetizzano efficacemente la rilettura degli aspetti neurologici o metapsicologici della psicoanalisi freudiana come “mitologia” o “favola” e la messa in evidenza della presenza, nella medesima, del tema (represso/obliato) della scrittura e della sua “messa in scena” nel mondo:

«Forse così si rivela, nella breccia freudiana, l’al di là e l’al di qua della chiusura che si può chiamare “platonica”. In quel momento della storia del mondo che appare “indicato” dal nome di Freud, attraverso una incredibile mitologia (neurologica o metapsicologica: perché non abbiamo mai pensato di prendere sul serio, tranne che per l’interrogazione che disorganizza e turba la sua letteralità, la favola metapsicologica. Rispetto alle storie neurologiche che ci narra il Progetto, forse il suo vantaggio è ben poco), un rapporto a sé della scena storico-trascendente della scrittura si è detto senza dirsi, pensato senza essersi pensato: scritto e nello stesso tempo cancellato, si è metaforizzato, ha designato se stesso mentre indicava rapporti intra-mondani, si è rappresentato.
Ciò forse si riconosce (per esempio, e qui si intenda quel che diciamo con la dovuta prudenza) da questo segno: che Freud, con una ampiezza e con una continuità eccezionali, ci ha anche lui fatto la scena della scrittura. Qui è necessario pensare questa scena non più in termini di psicologia individuale o collettiva, o di antropologia. Bisogna pensarla nell’orizzonte della scena del mondo, come storia di quella scena. Il discorso di Freud è preso in essa» (Derrida, 1967, p. 295, corsivi nell’originale).

Se noi vogliamo ora trarre a nostra volta qualche conclusione in rapporto al discorso che stiamo qui facendo, la sostanza della strategia di lettura di Freud da parte di Derrida mi sembra chiara: si tratta di far intravedere, dietro alla trama dei concetti freudiani, i temi del testo, della scrittura e del tempo, avvicinando così Freud al niccianesimo-heideggerismo post-strutturalistico.
Se queste sono le assi della lettura, ne consegue che il ruolo del soggetto ha un destino ben determinato – e secondario: il superuomo di Nietzsche accoppiato all’ontologia di Heidegger via il riferimento alle strutture non gli lascia molto spazio; e non è forse questo l’ultimo motivo per cui il passaggio dall’inconscio biologico di Freud (soprattuto del primo Freud), che determina il soggetto a quello della linguistica (post)strutturale, che parla il soggetto non è poi così difficile; la natura non neuronal-biologica di quest’ultimo nulla toglie al carattere non psicologico, sovrasoggettivo di questo inconscio, che conserva per molti aspetti la stessa distanza, la stessa estraneità e impersonalità dell’inconscio neuronale rispetto al soggetto vivente e sofferente – e del dolore, dell’emozione come passione eminentemente soggettiva in questa interpretazione, che ha comunque un grande valore(3), rimane poco.

4. Dopo il post-strutturalismo: orizzonti attuali

Come abbiamo avvertito, abbiamo scelto il saggio di Derrida a titolo di esempio, in una vera e propria selva di autori e di opere dello stesso autore dedicate alla psicoanalisi; ma ai fini del tema che stiamo sviluppando l’analisi del saggio precedente ci sembra bastare alla conferma dell’assunto che stiamo cercando di sostenere. In linea generale, questa reinterpretazione della psicoanalisi sulla base di una filosofia critica della nozione di soggetto comportava una lettura anti-introspettiva, rigorosamente antipsicologica della psicoanalisi: una psicoanalisi senza soggetto e antipsicologica che, negli anni 1960, trovava rispondenza nella letteratura antinarrativa e antipsicologica degli stessi anni (Robbe-Grillet, il Nouveau Roman e la cosiddetta école du régard); in diversi aspetti e autori della Nouvelle Vague cinematografica (il Truffaut e il Godard di quel periodo); nella fenomenologia husserliana di cui si raccoglieva appunto la lezione antipsicologica, anti-diltheyana; nella stessa ontologia heideggeriana, ormai lontana dagli antropologismi esistenziali cui poteva dar adito Sein und Zeit (ma anche esistenzialismi come quelli di Scheler o di Jaspers); di fatto, e spesso certo al di là delle intenzioni di questi filosofi, ne usciva una versione della psicoanalisi pericolosamente intellet­tuali­stica; di fatto, dicevamo, poiché se, per un lato, vedere nella psicoanalisi qualcosa di meramente introspettivo è certamente riduttivo, escludere, d’altro lato, totalmente tale aspetto, eliminare la soggettività lo è altrettanto: in fondo, la lezione di Freud, se la si legge nel suo complesso, al di fuori di considerazioni troppo unilateralmente filosofiche, non è stata quella di congiungere una riflessione teorica a una dimensione empirica, di cura e di ascolto dei pazienti? Cosa sarebbe il corpusfreudiano qualora se ne espungessero i casi clinici, nel loro spessore spesso tragico di storie di soggetti, di individui, di passione e di dolore? E qualora se ne escludesse, quindi, quella dimensione di empatia, di sofferente comprensione del dolore altrui che, sebbene poco teorizzata, è stata certo praticata da Freud?
Questi limiti delle posizioni post-strutturalistiche sono del resto stati spesso denunciati anche nel periodo in cui esse sono state largamente dominanti nel paesaggio intellettuale; oggi sono tanto più evidenti in quanto la situazione si è venuta, da qualche anno, profondamente modificando, pur rimanendo queste filosofie quanto di più originale si sia prodotto in campo non positivistico dopo la seconda guerra mondiale. In primo luogo, è avvenuto che, proprio sul tema della soggettività, almeno due dei rappresentanti principali della corrente hanno corretto il tiro: Foucault, a partire dal 1977, è venuto elaborando quella nozione di cura di sé che, pur mantenendo le riserve sul concetto tradizionale di soggetto, riconosceva la necessità di reintrodurre una nozione critica di soggettività e revocava di fatto l’estremistica dichiarazione della “morte dell’uomo”; Derrida, per parte sua, è tornato a una tematica dolentemente esistenzialistica (come dimostrato, per esempio, dalla risposta a Maurizio Ferraris [Derrida & Ferraris, 1997, p. 37]) che rimanda inevitabilmente alla centralità, pur paradossale, di una soggettività senza soggetto. In secondo luogo, la crisi un po’ strisciante del post-strutturalismo si è venuta manifestando con la tacita sostituzione della sua egemonia con quella di una eclettica koinè ermeneutica, in cui le posizioni dei filosofi post-strutturalisti sono ricomprese, ma affiancate ad altre radicalmente differenti, spesso antitetiche nell’ispirazione fondamentale: tanto è vero che in tale koinè campeggia il nome di colui che è stato forse il maggiore avversario di Derrida, Foucault, Deleuze: quel Paul Ricoeur che durante la vague strutturalista aveva sviluppato un’interpretazione precoce­mente fenomenologico-ermeneutica della psicoanalisi (vedi Ricoeur, 1965) e che a una tenace difesa del tema della soggettività ha dedicato negli ultimi anni della sua attività alcune opere influenti (vedi specialmente Ricoeur, 1990). Il ricomparire del tema del soggetto in una forma che, nel caso di Ricoeur, nonostante tutte le attenuazioni e gli eclettismi raffinati a cui egli lo sottopone, rimane molto tradizionale e, sul piano filosofico, sostanzialmente conservatrice, si è manifestato anche in altri modi: per esempio il ritorno a una fenomenologia delle passioni, che è però anche una riscoperta del concetto di persona nel suo senso più spiritualistico (così di nuovo il soggetto sembra ritornare in una forma potentemente tradizionale, proprio riproponendo quella metafisica dell’anima contro cui giustamente il post-strutturalismo aveva polemizzato); o la riscoperta, in parte connessa a quanto sopra, del pensiero di Edith Stein, che del tema dell’empatia era stata una delle prime teorizzatrici. Infine, un po’ tacitamente, ma con una continuità che dura ormai da circa un decennio, è ricomparso il pensiero di Merleau-Ponty, un autore che i post-strutturalisti avevano un po’ oscurato. Al di là del fatto che è stata pubblicata una gran messe di studi e di nuovi testi su e del filosofo francese e al di là del contesto strettamente filosofico, sono state alcune direzioni della ricerca scientifica degli ultimi anni a riproporre, implicitamente o esplicitamente, l’attualità del suo pensiero: mi riferisco alle ricerche di Gregory Bateson (vedi specialmente Bateson, 1979), di J.J. Gibson (1966, 1979), di Francisco Varela (Varala, Thompson & Rosch, 1991), che hanno riproposto un’idea dei sensi come canali attivo-passivi del nostro essere nel mondo, di comunicazione empatica con esso, oltre ad avere rimesso al centro il tema del ruolo della corporeità in tale comunicazione; mentre, al Collège de France, pressoché contemporaneamente, un fisiologo della percezione come A. Berthoz e un antropologo come Philippe Descola stanno dando luogo a un vasto rilancio del tema dell’empatia (vedi, rispettivamente, Berthoz-Jorland, 2004; Descola, 2005). Vediamo allora di dare qualche cenno su come si configurano in Merleau-Ponty i temi del soggetto, del corpo e dell’inconscio.

5. Soggetto, corpo, inconscio in Maurice Merleau-Ponty

Innanzitutto chiariamo un possibile equivoco: in discussione non è, oggi, un ritorno, come se nulla fosse, al vecchio soggetto umanista – come propone la corrente ideologico-politica che domina la scena francese dalla fine degli anni 1970 (per una prima messa a fuoco di questo fenomeno, vedi Cusset, 2003, specialmente cap. 14, p. 323 sg.); si tratta invece di reimpostare il tema del soggetto senza tagliar via le esigenze più valide che hanno ispirato la generazione post-sutrutturalista. È in questo senso che torna d’attualità il pensiero di Merleau-Ponty e, in particolare, quella fase ultima di esso (dai primi anni 1950 circa alla morte) che ha aperto la strada, per molti versi, alle riflessioni post-strutturalistiche, anche se queste si sono poi spinte troppo oltre in alcune direzioni. L’ultimo Merleau-Ponty fu consapevole di tutti i limiti del vecchio umanesimo; si lasciò largamente attraversare dalle tematiche del nascente strutturalismo, di cui in più modi facilitò l’ingresso nella cultura filosofica francese; ma nella sua riflessione la critica all’umanesimo e al soggetto cartesiano non si trasforma mai in una negazione tout court del soggetto, della dimensione interiore, né in una contrapposizione intellettua­li­stica fra logos e pulsione (4).
Partiamo, per dare qualche cenno su questi temi, dalla polemica di Merleau-Ponty con Sartre sul fondamentale tema della libertà (e del soggetto) come Nulla: alla polarità Essere-Nulla, che comporta una contrapposizione totale e inconciliabile fra inconscio e conscio, Merleau-Ponty oppone un’ontologia porosa, in cui essere e nulla, libertà e necessità, conscio e inconscio sono imbricati reciprocamente, costituiscono un tertiumirriducibile alle sue componenti. Questa problematica ontologica così nuova si connette strettamente al ripensamento del significato delle strutture: quest’ultime, intervenendo a definire la coscienza come un insieme di campi, delineano il profilo di un soggetto attraversato e caratterizzato essenzialmente da scarti sistematici. Così caratterizzato, il soggetto non è un nulla assoluto (una pura coscienza, una pura trasparenza, una pura libertà), ma un nulla determinato e positivo – una coscienza in cui la trasparenza si staglia su uno sfondo di inconscio, la libertà su uno sfondo di necessità, l’Io sullo sfondo di un mondo:

«Ora, né a livello delle cose percepite, né a livello dell’ideale, noi abbiamo a che fare con significati chiusi. Una cosa percepita è piuttosto un certo scarto, in rapporto a una norma o a un livello spaziale, temporale e di colore, è una certa distorsione, una certa “deformazione coerente” dei legami permanenti che ci uniscono a dati campi sensoriali e a un mondo. E così un’idea è un certo eccesso della nostra aspirazione a significati disponibili e chiusi di cui è depositario il linguaggio, il loro riordinamento intorno ad un centro virtuale, verso cui puntano, ma che non circoscrivono (…). Come le cose percepite, i miei compiti mi sono presenti non a titolo d’oggetti o di fini, ma a titolo di rilievi, di configurazioni, ossia nell’orizzonte della prassi. E nello stesso modo in cui, quando avvicino e allontano un oggetto, quando me lo rigiro tra le mani, non ho bisogno di riferire le forme a una sola scala per capire ciò che osservo, così l’azione occupa tanto bene il proprio campo, che tutto quello che vi appare è per essa immediatamente significante, senza analisi né trasposizione, ed esige la sua risposta» (Merleau-Ponty, 1955, pp. 406-407).

Su questa linea di un soggetto che è al limite di conscio e inconscio, che abita il margine di tali concetti, ne è la cerniera, Merleau-Ponty sviluppa la sua concezione della visione, che è fondamentale per cogliere la sua posizione complessiva anche sulle questioni che stiamo esaminando. È nel fenomeno della visione, infatti, che si rivela più chiaramente la condizione del soggetto vedente come parte del mondo stesso che vede, come appartenente al campo stesso della sua vista. Il chiasma visivo è il congedo definitivo dall’idea di un soggetto conscio e trasparente, cosmotheoros, che guarda dall’alto, privo di limiti e di peso, un mondo dai cui lacci è completamente libero. Al contrario, nella visione il soggetto si sperimenta come piega del mondo su se stesso, come finestra sul mondo e dunque come punto di vista parziale, luce cosciente che si staglia su uno sfondo mai del tutto chiarificato di oscurità, di inconscio, di oblio (per questi temi i testi canonici sono Merleau-Ponty, 1961, 1964).
Questa concezione di un soggetto come recto di cui il mondo è il verso, tipica dell’ultimo Merleau-Ponty, è comunque lo sviluppo di una fondamentale caratteristica della sua posizione almeno a partire dalla Fenomenologia della percezione (1945): la stretta connessione fra il soggetto e il suo corpo, ovvero la tematica del corpo proprio, per usare appunto il termine (in parte superato nell’ultimo periodo) usato in quell’opera (vedi Merleau-Ponty, 1945, specialmente Parte Prima, “Il corpo”). È il corpo proprio a conferire al soggetto merleau-pontiano uno spessore e una profondità materiale, a inserirlo, con le opportune cautele, in un filone materialistico, che in nessuno dei post-strutturalisti è così pronunciato, articolato e determinato. La modifica del concetto di corpo proprio in quello di carne del mondo, che caratterizza la fase finale della riflessione di Merleau-Ponty, non comporta, da questo punto di vista materialistico, nessun passo indietro; essa non fa che rendere coerente dal punto di vista sistematico la nuova concezione di un soggetto che, in quanto corpo immerso nella natura, è da questa letteralmente attraversato: la struttura della nostra esperienza è in questo senso tipicamente empatica, perché il suo funzionamento non è quello estrinseco di un soggetto che recepisce e tratta degli oggetti esterni, ma quello di un soggetto-corpo che bagna nel mondo, immerge i suoi sensi, che sono come dei tentacoli nell’essere (5). Del mondo, di conseguenza, il nostro corpo, di cui è una parte, ci dà una conoscenza non intellettualistico-oggettiva, come se fosse esterno e autonomo rispetto ad esso, ma, innanzitutto, prelogica; e tale strato prelogico fondamentale dell’esperienza è appunto quello che, producendosi a partire dalla nostra immersione nell’essere, risulta in una comunione che Fenomenologia della percezione esplicita come un rapporto di risonanza empatica fra il nostro “interno” e l’“esterno” (6).
Se approfondiamo ulteriormente questa struttura empatico-chiasmatica del soggetto merleau-pontiano, vediamo che rispetto al mondo esterno essa si qualifica come chiasma visivo, ovvero come inerenza del soggetto al campo visivo – e qui siamo di fronte al fatto che il soggetto che vede ha sempre un “alle spalle” e una profondità che sono gli invisibili su cui si staglia la propria visione; rispetto al mondo interno (per anticipare questa categoria che, pur non essendo stata creata da Kohut, ha ricevuto una nuova centralità dalla sua impostazione) essa si qualifica come immersione nel tempo, irriducibilità dell’oblio, struttura di passato originario. In altri termini, quello che nello spazio è la struttura di orizzonte, si ritrova nel tempo in termini analoghi, ovvero con le caratteristiche strutturali del chiasma: la nostra coscienza del presente è sempre parziale, perché si radica in uno sfondo di passato del quale non può rendere conto e che è strutturalmente caratterizzata da un nucleo di inconscio, di oblio che non possono essere che assoluti. Il passato, in altri termini, è una dimensione come la profondità in campo spaziale: come quest’ultima implica che uno spazio vuoto ospiti i corpi senza poter essere visto, così la nostra coscienza del passato (del tempo) implica che vi sia uno strato inattingibile al presente, un passato assoluto, un inconscio su cui si staglia il mio presente.
La carne del mondo (7) è dunque questo avvolgimento spazio-temporale abitato dal soggetto e di cui egli è un’emersione, una finestra; comprendiamo meglio cosa significhi porosità, dell’essere e del soggetto, se pensiamo a questo soggetto che è lacerato da una parte dallo spazio, dall’altro dal tempo, da una parte dalla profondità (invisibile spaziale), dall’altro dall’inconscio (invisibile temporale). Ma risulta anche chiara un’altra caratteristica di questo soggetto corporeo (8) che inflette in modo decisivo la concezione merleau-pontiana del soggetto e dell’inconscio: se è vero che c’è del radicalmente invisibile e del radicalmente inconscio, ciò non significa che – come avviene in altre concezioni filosofiche (e eminentemente in quelle di Sartre e dei post-strutturalisti che del primo, su questo punto, sono gli eredi (9)) – vi sia un salto fra queste dimensioni, che fra conscio e inconscio, fra visibile e invisibile ci sia lo iato di un assoluto, di un’eterogeneità inconciliabile. Il visibile emerge dall’invisibile, il conscio emerge dall’inconscio, entrambi, per usare una tipica espressione di Merleau-Ponty, sono in rapporto di sconfinamento reciproco, non di eterogeneità ontologica; un’unica stoffa, ma con un duplice versante, costituisce la dualità dell’essere scandita da queste dimensioni spaziali e temporali.
È ovvio che una concezione che pone l’inconscio non come l’altro assoluto del conscio, ma come il suo bordo di sconfinamento o come il campo di inglobamento di esso (10), configura un altro tipo di concettualizzazione del patrimonio scientifico della psicoanalisi (11); altrettanto importante, in questo senso, è la visione che da questa impostazione merleau-pontiana discende del rapporto intersoggettivo. Di nuovo, la rottura con Sartre (e con la generazione post-strutturalista, singolarmente solidale con Sartre anche su questo punto) appare fondamentale: se Sartre concepisce il rapporto intersoggettivo come un “rapporto a morte” (l’altro è la mia morte), per Merleau-Ponty il rapporto Io-Altro (12), conformemente all’ontologia chiasmatica, è di sconfinamento, di partecipazione parziale (senza che ci sia mai coincidenza totale, fusionalità); tale sconfinamento è fondato poi essenzialmente sulla appartenenza a un unico mondo, sulla partecipazione a un’unica carne, sul fatto che alla fine io, l’altro, il mondo intero costituiamo un unico corpo che comunica molto al di là della nostra coscienza tetica(13). Insomma, noi siamo altrettanto irriducibilmente separati dall’altro (la fusione, la coincidenza totale, come accennavo, è impossibile) quanto inevitabilmente confusimescolati con lui, e tutto ciò a un livello prelogico che sorpassa di molto la nostra consapevo­lezza.
Un’ultima notazione sulla visione di Merleau-Ponty ci sembra importante ai fini della discussione che segue: è ovvio come da questa visione naturalistico-corporea del mondo e dell’esperienza discenda un ruolo centrale per l’emozione e il sentimento: il regredire dalla contrapposizione intellettua­listica soggetto-oggetto alla dimensione del prelogico(14) significa, in primo luogo, collocare l’ontologia della carne in un punto in cui le contrapposizioni fra conoscenza e emozione, ragione e sentimento perdono di senso, in secondo luogo, pensare il logico non come l’altro assoluto del prelogico (come nella contrapposizione tradizionale di razionale e irrazionale), ma come uno sviluppo e una differenziazione-complessificazione di esso.

5. Qualche considerazione conclusiva sull’empatia, Kohut e Merleau-Ponty

Se ora riprendiamo il filo del nostro discorso iniziale sulle tendenze attuali della psicoanalisi e sul rilievo che in esse ha assunto la Psicologia del Sé di Kohut, in particolare sulla falsariga dell’interpretazione che ne delinea Hoffman, mi pare che un collegamento con le posizioni di Merleau-Ponty potrebbe essere molto fruttuoso al fine di dare un’inquadratura filosofica alla corrente dell’empatia: un’inquadratura che potrebbe sottrarla alle poco solide teorizzazioni, soprattutto statunitensi, in chiave postmoderna e porla come uno sviluppo e un arricchimento della lezione di Freud, soprattutto nel senso di una depositivizzazione (più convincente di quella dei post-strutturalisti) di tale lezione e di una correzione di alcuni aspetti intellettualistici della psicoanalisi, che derivano probabilmente più dalla teorizzazione che dalla pratica che Freud ne ha fatto. Vediamo, in sede conclusiva, di argomentare brevemente questo assunto.
Come è noto, uno degli aspetti più originali della elaborazione kohutiana della psicoanalisi (15) è la tematica del Sé. Struttura nucleare della soggettività, il Sé kohutiano ha due caratteristiche essenziali: 1) esso è al di qua della distinzione fra conscio e inconscio: la sua irriducibilità alla piena trasparenza è anzi una specie di presupposto epistemologico per Kohut, che concepisce il Sé sul modello del noumenokantiano (16); 2) esso è caratterizzato dalla necessità dell’interezza; sotto l’evidente influsso della psicologia della Gestalt (oltre che, forse, di nuovo di Jung), Kohut afferma che l’intero della personalità precede le sue parti e che l’indipendenza di queste ultime è un fatto secondario e patologico: la riduzione di un’emozione a pulsione è frutto di una frammentazione del Sé, frammentazione che è traumatica e che interviene successivamente a un’unità originaria del Sé stesso (vedi a questo proposito Kohut, 1959-81 [2003], p. 212).
Evidentemente il primo punto pone Kohut sulla scia dei critici della soggettività cartesiana, quella tipicamente moderna caratterizzata da un’integrale trasparenza; il secondo punto, invece, potrebbe comportare un ritorno ad essa, se la caratteristica dell’interezza fosse letta come unità semplice, autosussistente: in questo caso, saremmo di nuovo di fronte al fantasma della vecchia anima. In realtà la posizione di Kohut, se letta al di là della lettera della sua terminologia e interpretata nel suo senso peculiare, è assai diversa: l’interezza del Sè non è qualcosa di autoriferito, ma risiede esattamente nella sua capacità di interagire con il mondo esterno (oggettivo e soggettivo); Io è dunque Altro, il soggetto è finestra sul mondo anche per Kohut, che nella equilibrata relazione soggetto-mondo, e non nella separazione di qualcuno di questi concetti dall’altro, vede sostanziarsi la sua nozione di interezza, e dunque di sanità del Sé.
Appare quindi, su un punto fondamentale, una corrispondenza non banale fra l’impostazione kohutiana e quella di Merleau-Ponty; questa corrispon­denza ci pare poter essere estesa anche ad altri temi portanti delle rispettive concezioni. In particolare, la concezione merleau-pontiana dell’esperienza, come sopra l’abbiamo esposta, sembra offrire un corretto inquadramento al concetto kohutiano di empatia; ma anche la concezione che il filosofo francese delinea della dimensione prelogica, in quanto momento precedente alla distinzione fra soggetto e oggetto, sembra essenziale in questo stesso senso: infatti, così come Kohut l’ha sempre pensata, l’empatia non ha nulla di irrazionale (17), ma piuttosto si configura come l’esigenza di allargare una razionalità ridotta nei termini dell’intellettualismo astratto. Nella stessa direzione, la dimensione prelogica, nella visione ontologica che rappresenta l’ultima fase del pensiero di Merleau-Ponty, si inquadra nel più generale concetto, cui abbiamo accennato, del chiasma, ovvero di una relazione di inglobamento che è per principio irriducibile a un momento di astratta chiarezza intellettuale. Se poi pensiamo alla diversa concezione che Kohut ha dell’inconscio rispetto a Freud (con particolare riguardo alle sue critiche alla teoria delle pulsioni), a tutta l’importanza che, nella teoria e nella pratica di Kohut e di altri esponenti della corrente, ha la dimensione prelinguistica, prettamente corporea della comunicazione (18), alla visione della seduta analitica come evento irriducibilmente ambiguo, come emerge dagli sviluppi che della posizione kohutiana nel senso del costruttivismo critico dà Hoffman, su tutti questi punti avvertiamo una profonda vicinanza con gli aspetti della concezione di Merleau-Ponty che abbiamo sopra messo in rilievo.
Ci rendiamo conto che questi cenni troppo sintetici dovrebbero essere ben altrimenti approfonditi e sviluppati: essi non sono che brandelli di una teoria della soggettività che è tutta da ricostruire – ma tenendo conto delle critiche dei post-strutturalisti, non cancellandole più o meno tacitamente, come oggi si sta facendo. Se tuttavia le linee di fondo del discorso che abbiamo cercato di abbozzare hanno qualche fondamento, ne conseguirebbe non solo che la filosofia potrebbe essere utile alla psicoanalisi per elaborare più adeguata­mente le sue nuove ricerche, ma che, a sua volta, la psicoanalisi, nelle nuove correnti kohutiane che si sono affacciate, potrebbe tornare a fornire all’elaborazione filosofica preziosi elementi per uscire dall’impasse in cui si trova da qualche tempo: si potrebbe insomma prospettare il riavviarsi di quel circolo virtuoso fra le due discipline che, nel passato, ha dimostrato di dare tanti frutti.

Riassunto. Si cercano di delineare alcune novità prodottesi negli ultimi anni in psicoanalisi e in filosofia, prendendo in considerazione soprattutto la Psicologia del Sé di Heinz Kohut e il pensiero di Maurice Merleau-Ponty. A questo scopo, in primo luogo si ricostruisce brevemente il paradigma dell’incontro fra psicoanalisi e filosofia risalente agli anni 1960, prendendo ad esempio Jacques Derrida; in secondo luogo si accenna alle recenti trasformazioni prodottesi nel panorama filosofico, in particolare al riemergere delle posizioni di Merleau-Ponty e a un certo numero di autori e di ricerche che a lui si ispirano; infine, si richiamano molto sinteticamente alcuni temi di fondo del pensiero di Kohut, per argomentare come l’impostazione di Merleau-Ponty costituisca per essi un’ottima cornice filosofica e per concludere che è forse possibile, su nuove basi, riaprire oggi, dopo l’epoca (post)strutturalistica, un fecondo scambio fra psicoanalisi e filosofia. [Parole chiave: psicoanalisi, filosofia, post-strutturalismo, Merleau-Ponty, Psicologia del Sé di Heinz Kohut]

Abstract. Heinz Kohut’s Self Psychology and its philosophical conceptualization: Notes on philosophy and psychoanalysis form the 1960s to present. The author tries to sketch some recent trends in psychoanalysis and philosophy, focusing particularly on Heinz Kohut’s Self Psychology and Maurice Merleau-Ponty’s thought. In order to carry out this project, (1) the interrelation of psychoanalysis and philosophy in the 1960s is briefly outlined, considering the case of Jacques Derrida, (2) some hints are given about recent developments in philosophy, particularly concerning the return of interest in Merleau-Ponty’s philosophy and in some other authors and researches inspired by him, (3) some fundamental concepts of Heinz Kohut’s Self Psychology are briefly reconsidered, in order to suggest that Merleau-Ponty’s thought could be their best philosophical frame and to argue that today, at the end of the (post)structuralist age, a fruitful connection between psychoanalysis and philosophy could start again on a new base. [Key Words:psychoanalysis, philosophy, post-structuralism, Maurice Merleau-Ponty, Heinz Kohut’s Self Psychology]

*  Ringrazio Alberto Lorenzini, che ha letto una precedente stesura di questo lavoro fornendomi preziosi consigli che mi hanno permesso di correggere e migliorare il testo in punti essenziali, e Pier Francesco Galli, che mi ha indicato e/o fornito molti e importanti ragguagli bibliografici.

** Dipartimento di Filosofia, Università di Bologna, Via Zamboni 38, 40126 Bologna, E-Mail <iofrida@philo.unibo.it>.

Tratto da: Psicoterapia e Scienze Umane, 2006, XL, 3: 581-600 http://www.psicoterapiaescienzeumane.it

NOTE:

(1) L’impostazione di Hoffmann si riallaccia a quella di Merleau-Ponty anche in un senso più generale; l’accoppiamento chiasmatico, di figura-sfondo che costituisce la base dell’esperienza analitica e del suo configurarsi come evento, si inquadra nella più ampia concezione di una vita di cui il momento della morte (dell’assenza, della passività, della finitezza che caratterizzano l’essere umano) è elemento costitutivoessenziale; l’essere umano è sì costruttore del suo mondo, ma è proprio costruendolo che esso si pone come ricettivo, passivo: «La consapevolezza della mortalità è un dato universale dell’esperienza umana, su cui si fonda il significato di “costruttivismo” nel mio uso del termine. Esso si riferisce non tanto a una prospettiva in cui la realtà viene vista totalmente come un prodotto dell’attività o della conoscenza umane, bensì a una concezione dell’essere umano nella sua interazione con dati più o meno ambigui dell’ambiente e dell’esperienza. Si potrebbe dire che quei dati siano lì per essere scoperti. Eppure, anche la loro “scoperta” è un atto creativo, in quanto richiede che dal mare dell’esperienza venga poi selezionato questo o quel “fatto”, messo poi in relazione con altri dati di realtà scoperti nello stesso modo e con costruzioni interpretative» (Hoffmann, 1998, pp. 47-48 trad. it.). Questa accezione del costruttivismo rimanda, come mostrerò più oltre, non solo alla concezione chiasmatico-empatica di Merleau-Ponty, ma anche all’idea di J.J. Gibson dei nostri sensi come tentacoli.

(2) Nell’economia del discorso che qui conduciamo, che ha l’intento di schizzare le linee essenziali del rapporto filosofia-psicoanalisi in epoca strutturalistica, si prescinde ovviamente da una quantità enorme di particolari: innanzitutto dal fatto che i singoli filosofi che più o meno si riconoscevano nel canone strutturalista hanno avuto posizioni differenti l’uno dall’altro e che nel tempo ciascuno di loro ha sostenuto tesi assai diverse, spesso molto polemiche con la psicoanalisi ufficiale; inoltre diamo per scontato il fatto che quel canone non fu mai, nemmeno in Francia, universalmente accettato.

(3) Nel momento in cui queste concezioni sono al tramonto, sarebbe, prima ancora che ingiusto, profondamente errato trascurarne sia il significato storico che l’alto livello teoretico; oggi un capolavoro della cultura filosofica degli anni 1960 come “Freud e la scena della scrittura” si configura né più né meno che come un classico: un’opera cioè che, appartenendo al passato, continuerà a dare i suoi frutti in futuro. Per questo, non si tratta a mio avviso di saltare, di tagliar via l’eredità post-strutturalistica, ma di farla fruttificare rinnovandola – proprio come si fa con i classici.

(4) Per una più ampia discussione di questi temi e per la relativa bibliografia mi permetto di rimandare a Iofrida, 2003. Per quanto riguarda i testi dell’ultimo Merleau-Ponty sulla psicoanalisi, ci limitiamo a ricordare il fondamentale Merleau-Ponty, 1960.

(5) È un punto su cui l’affinità con la posizione di J.J. Gibson sopra rammentata è evidente; del resto, questi conosceva il pensiero di Merleau-Ponty almeno fino alla Fenomenologia della percezione.

(6) Per il tema della comunione, vedi Merleau-Ponty, 1945, pp. 288-289; ho messo i termini fra virgolette perché nella visione di Merleau-Ponty (che in questo precede molta filosofia contemporanea) essi non possono essere distinti che relativamente, ognuno rinviando in modo essenziale, nella sua stessa costituzione, all’altro: non esiste mondo interno che non sia apertura sull’esterno (negazione del mito dell’interiorità pura), non esiste mondo esterno che non sia collegato a un qualche ordine, anche elementare, di coscienza (negazione del mito dell’esterio­rità assoluta, della materialità puramente obiettiva).

(7) Sul rapporto fra questo tema della carne e “la filosofia del freudismo”, si veda l’importante nota postuma del dicembre 1960, dal titolo “Corpo e carne – Eros – Filosofia del Freudismo”, in Merleau-Ponty, 1964, p. 280.

(8) Non sarà inutile rammentare che il fatto che il corpo e la materia siano spazio-tempo, al di là dell’impostazione fenomenologica, è anche un portato della scienza fisica del XX secolo.

(9) Sulle solidarietà che legano la generazione dei post-strutturalisti con Sartre (il padre da essi ucciso…) molto c’è ancora da indagare; per un cenno del tutto preliminare, relativamente alla questione umanismo-antiumanismo, mi permetto di rinviare ancora a Iofrida, 2003, paragrafi 2.1 e 2.2.

(10) Sull’inconscio come “campo”, come “intervallo” su cui si stagliano gli oggetti di cui siamo consci, vedi ad esempio Merleau-Ponty, 1964, Nota di lavoro del febbraio 1959, p. 197.

(11) Su Merleau-Ponty e la psicoanalisi esiste ormai una letteratura critica assai ampia; mi limito qui a ricordare solo alcuni dei lavori più importanti: Richir, 1989; Barbaras, 1995; Dastur, 1998; Gambizzi, 1999, 2000; Carbone, 2003; Rodrigo, 2003; Renault, 2003; Angelino, 2005. Il lettore desideroso di più ampi ragguagli potrà consultare in particolare le varie annate di Chiasmi International, pubblicazione periodica dedicata al pensiero di Merleau-Ponty, che è ornai arrivata al suo settimo volume, e in cui sono comparsi molti contributi che direttamente o indirettamente interessano il nostro tema.

(12) Sulla questione del rapporto Io-Altro, si veda, fra i moltissimi testi che potrebbero a riguardo essere citati, Merleau-Ponty, 1945, Parte II, cap. IV (“L’altro e il mondo umano”).

(13) Su questo tema, per cui Merleau-Ponty foggia i concetti di intercorporeità e interanimalità, si veda specialmente Merleau-Ponty, 1995, p. 295 sg.

(14) Abbiamo detto sopra di un certo intellettualismo delle posizioni post-strutturalistiche: esso risulta non certo da una negazione del momento del non-logico, quanto dal modo in cui il rapporto fra il logos e il suo altro viene configurato: se l’altro rispetto al logos è assolutamente altro, diventa ineffabile e intrattabile, e dunque non possiamo che praticare un logos interminabile, che lascia sempre fuori di sé tutto quel che non è logos: tutta la riflessione di Derrida sul dono e sull’amicizia ha queste caratteristiche.

(15) Per una bibliografia degli scritti di Heinz Kohut e delle loro traduzioni italiane si rinvia al “Prospetto generale dell’opera di Heinz Kohut e delle traduzioni in italiano”, posta in appendice a Kohut, 1959-81 [2003], pp. 225-226; della vastissima bibliografia ormai esistente su Kohut e sul tema dell’empatia, ci limitiamo a indicare qui i testi che ci sono stati di più immediata utilità, ricordando che anche su Psicoterapia e Scienze Umane, nel corso degli anni, numerosissimi sono i contributi che sono apparsi su questo tema: Atwood & Stolorow, 1984; Gagliani & Pierantozzi, 1989; Fornaro, 1993; Ruggiero, 1996; Carusi, 2001, 2003; Miller, 2004; Angelozzi et al., 2004 (dibattito svoltosi su Psicoterapia e scienze umane in seguito al citato editoriale di Migone, 2004); Lorenzini, 2004, 2006.

(16) In proposito vedi ad esempio Kohut, 2003, p. 114; che dietro al concetto e al termine stesso di Sé vi sia l’influenza di Jung sembra assai probabile, anche se, come è noto, Kohut è sempre rimasto schierato nel campo freudiano.

(17) In proposito si veda ad esempio l’insistenza di Kohut (1959-81 [2003], p. 205), ancora in un saggio scritto poco prima della morte, “Introspezione, empatia e il semicerchio della salute mentale”.

(18) Si pensi in proposito a come, nel classico saggio “Forme del narcisismo”, Kohut descrive il rapporto di intensa vicinanza che, attraverso il corpo proprio, l’individuo creativo intrattiene con il suo ambiente circostante, alla non-distinzione di “interno” e “esterno” che caratterizza tale rapporto, simile a quello che tutti abbiamo con l’aria circostante (vedi Kohut, 1950-78 [1978], pp. 98-99); nello stesso saggio, vanno nello stesso senso le osservazioni sull’“immediatezza percettiva” del riconoscimento del viso, che rimanda alla comunicazione prelinguistica, eminentemente gestual-corporea, e alla situazione di fusione percettiva del bambino piccolo con la madre (vedi Kohut, 1950-78 [1978], p. 101, nota 15).

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